sabato 18 ottobre 2025

Quando l’errore diventa norma: il caso di più infimo e più intimo

 


C
i sono espressioni che, per decenni, sono state trattate come "paria" della lingua: bollate come strafalcioni, corrette con severità, escluse dai registri colti. Eppure, alcune di queste hanno compiuto un curioso viaggio di redenzione, guadagnandosi un posto tra le forme oggi considerate legittime. È il caso di “più infimo” e “più intimo”, due locuzioni che un tempo facevano storcere il naso a grammatici e docenti, ma oggi, invece, trovano cittadinanza nei dizionari e nei testi letterari. Come è possibile? La risposta sta nel modo in cui la lingua vive, si piega, si adatta e, talvolta, “perdona”.

Infimo e intimo sono aggettivi superlativi assoluti. Il primo deriva dal latino infimus, “il più basso”, e indica il grado di bassezza, sia fisica sia morale. Il secondo, da intimus, “il più interno”, designa ciò che è profondamente personale, segreto, profondo. In teoria, essendo già superlativi, non dovrebbero essere ulteriormente intensificati con un più. Dire più infimo o più intimo sembrava dunque un errore logico, una ridondanza, una violazione del principio di non sovrapposizione dei gradi.

Eppure, la lingua non è un sistema logico puro. È un organismo vivo, che risponde a esigenze espressive, sfumature emotive, slanci poetici. Dire più infimo non significa semplicemente reiterare il concetto di bassezza, ma suggerire che esiste un abisso ancora più profondo, una degradazione che supera persino il limite estremo. Si pensi a frasi come: Ha raggiunto il comportamento più infimo che si possa immaginare, dove l’aggettivo non è solo intensificato, ma quasi teatralizzato. Oppure: Quel giornale ha toccato il fondo, e ora scava: ogni titolo è più infimo del precedente. L’uso è enfatico, espressivo, e funziona.

Allo stesso modo, più intimo è il tentativo di dire che qualcosa può essere ancora più personale, più segreto, più vicino all’essenza. Abbiamo condiviso pensieri ancora più intimi di quelli confessati in passato non suona come un errore, ma come una sfumatura necessaria. La poesia è la forma più intima di verità, ma questa sua raccolta è ancora più intima, più nuda, più vulnerabile, qui l’aggettivo si piega all’intensità del sentimento.

I linguisti hanno preso atto di questo uso, i lessicografi lo attestano come legittimo nei dizionari e i grammatici nelle grammatiche descrittive. Non si tratta di una concessione al pressappochismo, ma di un riconoscimento del fatto che la lingua si evolve non solo per necessità comunicative, ma anche per esigenze stilistiche e retoriche. Più infimo e più intimo sono oggi considerati intensificazioni enfatiche, non più errori. La loro accettazione segna il passaggio da una visione normativa a una visione funzionale della lingua.

In fondo, ogni parola ha diritto a una seconda possibilità. Anche quelle che sembravano irrimediabilmente sbagliate. Dimenticavamo: lo stesso ragionamento per quanto attiene a “più estremo” e “più prossimo”.


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La prognosi non è un trauma o una malattia che viene “diagnosticata”. È la “previsione” della durata della malattia o del trauma.





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