mercoledì 29 ottobre 2025

Sgroi – 212 - “Glottoteta”: chi è costui?

 


di Salvatore Claudio Sgroi


1. L’evento editoriale

Che cos’è una lingua inventata è un godibilissimo testo, che si legge come un giallo, di Davide Astori, apparso nella collana “Bussole” di Carocci Editore 2025 (pp. 127). Le “lingue inventate”, proprie di nessuna nazione, sono lingue “artificiali” (p. 27) che nascono come le lingue “storico-naturali” (ibid.), per esigenze espressive, comunicative e cognitive ( p. 92), e come le lingue storico-naturali sono in grado di “esprimere tutto l’esprimibile della vita quotidiana” (p. 90), ovvero ne condividono l’onnipotenza semantica.

Le lingue inventate, artificiali, sono create da “una o più persone, attraverso il processo di ‘ glossopoiesi’” (dal greco glossa e poíesis), di creazione di una lingua”; esse “non nascono da una evoluzione linguistica spontanea, ma sono progettate a tavolino per rispondere […] a esigenze specifiche” (p. 28). In quanto anche “lingue ausiliarie” sono oggetto di studio dell’Interlinguistica (p. 21).


2. Quali sono le lingue inventate?

La più nota delle lingue inventate è, com’è noto, l’esperanto, cui è dedicato il cap. 7, creato nel 1887 dal polacco Ludwick L. Zamenoff (1859-1917), con parlanti che contano da un minimo di 30-300mila persone fino a un milione di parlanti (p. 51), compresi alcune centinaia di bilingui nativi (“deslaskuloj”).

Delle altre lingue inventate, un migliaio circa (pp. 8, 31) con diversa fortuna, sono qui analizzate in 14 capp. il Markuska di A. Bausani 1974 (cap. 5); il Volapük di J.M. Schleyer 1880 (cap. 6); il De latino sine flexione di G. Peano 1903 (cap. 8); tre lingue mistico-sacrali quali (cap. 9) il Balaibalan (XIV sec., p. 64), la “lingua ignota” di Ildegarda di Bingen (XII sec.) e l’Enochian di J. Dee (XVI-XVII sec.); nel cap. 10: l’Uranopoli di Alessarco (IV sec. a.C.) (p. 71), Utopia di Tommaso Moro 1516 (pp. 73-78) e L’Isola delle Rose di Giorgio Rosa 1968, fondata su una piattaforma artificiale dell’Adriatico, durata 55 giorni, e distrutta con la dinamite dalla Marina Militare (pp. 78-79); il Soresol di Jean-François Sudre 1827, 1866 (cap. 11); il Toki Pona di Sonja Ellen Kisa 2001 / Sonja Lang (cap. 12); il Klington di M. Okrand 1992 tr. it. 1998; il Lì’fya leNa’vi di James Cameron-Paul Frommer 2005-2009 (cap. 13) e la pasigrafia nelle sue diverse forme visive (cap. 14).


3. Conlangers

Non meno di due volte nel testo di Astori appare adoperato l’anglicismo conlangers seguito dal significato “creatori di lingue inventate” (p. 21) e Ildegarda di Bingen “patrona di filologi, esperantisti e conlangers” (p. 66).

Un conlanger è ‘chi crea lingue artificiali, chiamate conlang’ (dall'inglese "constructed language"). Il termine manca nel Merriam Webster’s Collegiate Dictionary 200311 e nell’Oxford English Dictionary.

Glossopoeta è spesso il traducente di "conlanger" in italiano.


4. Glottoteta

Non meno di 5 volte è pure adoperato nel citato testo di Astori l’equivalente glottoteta: “la natura del glottoteta” (p. 42); “il glottoteta affermò”; “l’attività di semplificazione linguistica […] lo ha mosso come glottoteta” (p. 57); “‘creatore’ […] riferito […] al glottoteta’” (p. 65); “specificità […] della glottoteta” (p. 89). E appare pure in bibl.a p. 120 nel titolo di un art. di F. Gobbo “Alessandro Bausani, il glottoteta”, in Astori, a c. di, A. Bausani (1921-1988) […] A trent’anni dalla morte, Parma, Athaeneum, 2019, pp. 16-27. La voce non è lì spiegata, anche se il composto è analizzabile da parte del lettore come formato da glotto- ‘lingua’ e -teta dal tema del gr. títhēmi ‘io pongo’ (cfr. nel De Mauro 2000 logoteta, nomoteta, tesmoteta).

Il termine è assente non solo nella lessicografia monovolume (De Mauro 2000, Zingarelli 2026, Devoto-Oli 2026, Sabatini-Coletti-Manfredini 2025, ecc.) ma anche in quella plurivolume (GRADIT 20072 8 voll.), nonché nel Grande dizionario [storico] della lingua italiana di Salvatore Battaglia-Giorgio Bárberi Squarotti, Utet, 1961-2002, 22 voll., + Supplemento I e II a cura di E. Sanguineti, ibid., 2004 e 2009 + Indice degli autori citati, a cura di G. Ronco, ibid., 2004; anche on line. Non sfugge tuttavia al vol. settoriale dei Neologismi. Parole Nuove dai giornali 2008-2018 di G. Adamo –V. Della Valle (Treccani 2018), che lo definiscono “Chi concepisce, sviluppa e diffonde una lingua artificiale’ e lo documentano con un es. del 5.2.2012, indicandone anche la corretta etimologia sincronica: “Composto mediante la giustapposizione dei confissi glotto- e -teca”.


Con “Google libri ricerca avanzata” il termine è databile al 1998:

  • 1998: “Bausani osservava acutamente che i sostrati della lingua inventata sono riconducibili alle lingue note al glottoteta e in particolare alle lingue materne” (“Italiano & oltre”).

E poi successivamente nel XXI sec., per es.:

Sommario

1. L’evento editoriale

2. Quali sono le lingue inventate?

3. Conlangers

4. Glottoteta















Altre pubblicazioni di Salvatore Claudio Sgroi:

Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante, Torino, Utet 2010

Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria, Firenze, Cesati 2013

Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet 2013

Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticaliCittà del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2016

Maestri della linguistica otto-novecentesca, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Maestri della linguistica italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

(As)saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

Gli Errori ovvero le Verità nascoste, Palermo, CSFLS 2019

Dal Coronavirus al Covid-19. Storia di un lessico virale, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2020

Saggi scelti di morfologia lessicale, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

Saggi di morfologia teorica e applicata, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

La lingua italiana del terzo millennio tra regole norme ed erroripres. di Claudio Marazzini, Torino, UTET, 2024

Il Papa è infallibile. Lo dice la grammaticapres. di Franco Coniglione, Firenze, Accademia della  Crusca 2025



Perché carlinga (francesismo)? Serve un termine italiano: ‘pilotàcolo’

 

In aeronautica, la carlinga è quella parte anteriore della fusoliera che ospita il pilota e gli strumenti di comando. È il cuore operativo dell’aeromobile, il suo 'cervello' abitabile, il suo sguardo in avanti. Eppure, il termine che usiamo per designarla non è italiano. Carlinga viene dal francese carlingue, a sua volta derivato da una voce marinaresca scandinava, che indicava una parte dell’armatura della nave. Un prestito tecnico, certo, ma opaco, non trasparente, e soprattutto non nostro.

Nel linguaggio aeronautico italiano, carlinga è un corpo estraneo: non si riconosce nella morfologia della nostra lingua, non si lascia scomporre, non suggerisce nulla al lettore comune. È un guscio semantico vuoto, che sopravvive per inerzia. E allora, come per normotipo (che secondo chi scrive dovrebbe "scalzare" il barbaro 'standard'), è tempo di proporre un’alternativa: un neologismo italiano, trasparente, funzionale, rubricabile e "lemmatizzabile": pilotàcolo.

La neoformazione nasce dalla fusione morfologica di pilota e abitacolo, con caduta della sillaba centrale e conservazione dell’accento tonico. Il risultato è un sostantivo compatto, sonoro, inequivocabile, che comunica subito la funzione e la posizione del compartimento. Il nuovo lessema si può anche far derivare dal verbo “pilotare” + il suffisso “-acolo” (latino ‘-aculum’): “luogo destinato all’azione del pilotare” → luogo per piloti. È italiano, è trasparente, è pronto per l’uso. E soprattutto, è libero da ambiguità: non si confonde con cabinovia, non richiama gabbie per uccelli, non si appoggia a radici opache o ibride.

Eventuale lemmatizzazione:

pilotàcolo s. m. Parte anteriore della fusoliera di un aeromobile, destinata a ospitare il pilota e gli strumenti di comando. Derivato da pilota + abitacolo, con fusione morfologica e accentazione tonica conservata. Registro tecnico, divulgativo e narrativo. Il pilotàcolo era pressurizzato e dotato di interfaccia tattile per il volo assistito.

***

Soprassedere...


V
erbo che si sospende da sé, con l’eleganza di chi rinvia senza rinunciare. Dal latino suprasedere, “sedersi sopra”, il sintagma verbale nasce come formula giuridica per differire un’azione, ma nel parlato si traveste da gesto di garbo: soprassediamo, cioè ‘lasciamo perdere’, ma con stile. Nel Novecento parlamentare serviva a chiudere le polemiche senza concedere ragione. Oggi è in calo, ma conserva una dignità formale anche nel disimpegno. Un verbo che non agisce: attende.




martedì 28 ottobre 2025

Fratricida include le sorelle, sororicida non include i fratelli: un paradosso lessicale

 

A proposito della “disparità semantica” tra fratricida e sororicida, ci siamo dati una risposta compulsando vari testi.

L’italiano, pur nella sua apparente simmetria morfologica, nasconde talvolta squilibri semantici che sfidano la logica. Uno di questi riguarda la coppia fratricida e sororicida. A prima vista, sembrerebbero termini speculari: il primo indica chi uccide un fratello, il secondo chi uccide una sorella. Eppure, i dizionari ci sorprendono: fratricida viene definito come “chi uccide un fratello o una sorella”, mentre sororicida resta confinato al significato ristretto di “uccisore della sorella”. Come si spiega questa “asimmetria linguistica”?

La risposta - che ci siamo dati - non sta tanto nella morfologia, quanto nella storia e nell’uso. Fratricida è parola antica, attestata nel latino classico e medievale, presente in testi storici, giuridici e letterari. Da Caino e Abele a Romolo e Remo, il fratricidio è un archetipo narrativo, un gesto fondativo e distruttivo che ha attraversato secoli di cultura. Il lessema ha goduto di una fortuna semantica che ne ha ampliato il significato: da “uccisore del fratello” a “uccisore del consanguineo”, fino a indicare chi uccide un connazionale, un compagno, un simile. Il termine frater, in latino, non designava solo il fratello biologico, ma anche il confratello, il compagno d’armi, il correligionario. Questo ha permesso a fratricida di espandersi, inglobando anche la sorella nel suo raggio d’azione.

Sororicida, invece, è un neologismo “moderno”, costruito analogicamente. Il latino soror (da cui deriva sororicida) aveva un significato più ristretto e meno produttivo: indicava esclusivamente la sorella biologica, senza le estensioni simboliche di frater. Di conseguenza, sororicida è rimasto un termine tecnico, usato quasi esclusivamente in ambito criminologico o medico-legale, senza subire quell’ampliamento semantico che ha reso fratricida una parola polisemica e figurata.

La disparità si riflette anche nella codificazione lessicografica. I principali dizionari italiani registrano fratricida con accezione estesa, non così per sororicida, che ha un significato ristretto. Non si tratta dunque di una scelta arbitraria, ma del risultato di una stratificazione culturale: il fratricidio è stato raccontato, analizzato, mitizzato; il sororicidio, al contrario, è rimasto ai margini della narrazione storica e letteraria.

Questo squilibrio lessicale pone una questione più ampia: la lingua non è sempre equa. Alcuni termini si espandono, si figurano, si moltiplicano; altri restano isolati, tecnici, invisibili. Frater ha generato fratellanza, fraterno, confratello, fratellino; soror ha prodotto al massimo sororale, usato in ambito sociologico o medico. La produttività semantica non è simmetrica, e la lingua riflette - e talvolta perpetua - queste asimmetrie.

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La lingua “biforcuta” della stampa


Allerta metereologica su tutto il Centro Italia: previsti nubifragi

Nuove norme sull’areazione degli spazi scolastici

Perdippiù, il provvedimento non sarà retroattivo

Assunto un nuovo insegnante supplettivo per il corso di latino

 Un colluttorio naturale a base di salvia e limone

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Gli studenti hanno protestato dinnanzi alla porta della presidenza  






domenica 26 ottobre 2025

Sgroi – 211 - “Cortigiana” e “Professionista”: uguali e diversi



di Salvatore Claudio Sgroi


1. L’evento mondano

All’età di 81 anni il filosofo veneziano Massimo Cacciari convolerà a nozze con la compagna triestina e filosofa Chiara Patriarca, professionista di 52 anni.

È quanto si leggeva nel quotidiano “Il Gazzettino”, che citava le pubblicazioni di matrimonio affisse agli albi di Venezia e di Milano con nomi, cognomi, date di nascita e città di residenza:

. "Comune di Venezia, ufficio dello stato civile, atto di pubblicazione del matrimonio che gli sposi intendono contrarre a Milano. Sposo: Massimo Cacciari, nato in Venezia il 5-6-1944, residente in Venezia, cittadinanza italiana. Sposa: Chiara Patriarca, nata in Trieste il 30-9-1973, residente in Milano, cittadinanza italiana".


2. Post di Michele A. Cortelazzo

In un post di commento su facebook della notizia inviatomi da un caro amico, lo storico della lingua padovano, Michele A. Cortelazzo, ha così scritto:


Chi ha attaccato Maurizio Landini per aver attribuito a Giorgia Meloni l’epiteto di ‘cortigiana’, interpretato nel suo senso secondario di ‘mignotta’, perché non si lancia contro l’uso di ‘professionista’ (che ha egualmente il significato secondario di ‘mignotta’) in riferimento alla futura moglie di Cacciari? Ovviamente è giusto così, perché non c’è nessun senso recondito. Ma perché questo comportamento asimmetrico per l’uso di due parole dalla configurazione esattamente parallela?” 


3. Una possibile risposta

Con riferimento alla polemica nata in seguito all’uso dell’espressione “Cortigiana (di Trump)” attribuita da Landini alla Meloni, -- su cui ci siamo soffermati nei due interventi n. 209 “‘Cortigiana (di Trump)’: un uso sesssista?”, dom. 19.X e n. 210 “Reazioni a ‘Cortigiana (di Trump)’”, merc. 22.X, -- Michele Cortelazzo, giudicando corretto e non-sessista l’attributo professionista riferito alla futura moglie di Cacciari, Chiara Patriarca, si è chiesto il perché del “comportamento asimmetrico” dei due termini cortigiana e professionista che condividono lo stesso significato secondario di “prostituta”.

Una risposta al problema posto dallo storico della lingua è probabilmente possibile individuarla confrontando la polisemia delle due voci riportate nel De Mauro (2000):

cor·ti·già·na

s.f. CO

1. donna che faceva parte di una corte di un principe

2. nel Rinascimento, donna di liberi costumi, spesso colta e raffinata

3. eufem., prostituta”.


E quindi:

pro·fes·sio·nì·sta

s.m. e f. AU

1. s.m. e f., chi esercita una libera professione: uno studio di professionisti

1b. s.m. e f., estens., chi svolge la propria occupazione con cura, competenza e serietà: un professionista della fotografia

2. s.m. e f. TS sport chi pratica uno sport a livello professionale, non amatoriale (accorc. 3pro, 2prof)

3. s.f. CO eufem., prostituta”.


Dei primi due significati di cortigiana uno se non entrambi si configurano come marcati sessualmente, rispetto al 3°.

I primi due-tre significati di professionista sono invece decisamente positivi, rispetto al 4°.

E quindi l’atmosfera prevalentemente positiva di professionista rispetto a cortigiana nettamente compromessa può dar conto del diverso “comportamento” e giudizio dei parlanti che hanno criticato l’uso di “cortigiana” ma non di “professionista”.


Sommario

1. L’evento mondano

2. Post di Michele A. Cortelazzo

3. Una possibile risposta














Altre pubblicazioni di Salvatore Claudio Sgroi:

Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante, Torino, Utet 2010

Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria, Firenze, Cesati 2013

Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet 2013

Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticaliCittà del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2016

Maestri della linguistica otto-novecentesca, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Maestri della linguistica italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2017

Saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

(As)saggi di grammatica 'laica', Alessandria, Edizioni dell'Orso 2018

Gli Errori ovvero le Verità nascoste, Palermo, CSFLS 2019

Dal Coronavirus al Covid-19. Storia di un lessico virale, Alessandria, Edizioni dell'Orso 2020

Saggi scelti di morfologia lessicale, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

Saggi di morfologia teorica e applicata, Roma, Il Calamo 2021 [ma 2022]

La lingua italiana del terzo millennio tra regole norme ed erroripres. di Claudio Marazzini, Torino, UTET, 2024

Il Papa è infallibile. Lo dice la grammaticapres. di Franco Coniglione, Firenze, Accademia della  Crusca 2025


"Normotipo": l’italiano che manda in pensione il barbarismo 'standard'

 

Nel laboratorio vivo della lingua italiana, ogni parola straniera è un ospite da interrogare. Alcune restano, altre si mimetizzano, altre ancora vengono sostituite con creazioni più affini al nostro sentire. “Standard” è una di quelle parole che, pur essendo dappertutto, non ha mai davvero messo radici. È utile, certo, ma impersonale. E soprattutto è traducibile. Non serve un prestito quando si può forgiare un termine che parli italiano, che indichi con precisione ciò che intendiamo, e che si innesti con naturalezza nel nostro lessico tecnico, normativo, quotidiano.

Da questa esigenza nasce “normotipo”. Il termine, che prendiamo in prestito dal linguaggio medico (in questo caso sarebbe un neologismo semantico) non si limita a sostituire, ma chiarisce, affina, e si propone come alternativa elegante e funzionale.

Sostituire “standard” con una parola italiana non è solo un esercizio di stile: è un gesto di precisione linguistica, di rispetto per la nostra matrice lessicale, e di affrancamento da un anglicismo che, pur diffuso, resta opaco. “Standard” è una parola-valigia: può significare norma, modello, livello, tipo base. Ma proprio questa sua "elasticità semantica" la rende ambigua, generica, talvolta scivolosa. Serve un termine che dica esattamente ciò che intendiamo, senza appoggiarsi a prestiti.

La proposta è, appunto, “normotipo”. Un neologismo compatto, elegante, e già perfettamente italiano nel suono e nella struttura. Deriva da “norma” (regola, criterio stabilito) e “tipo” (modello, esemplare), e si presta a un uso versatile, sia come sostantivo sia come aggettivo.

Come sostantivo, “normotipo” indica il modello di riferimento, la specificazione base, il livello prescritto. È il termine ideale per sostituire “standard” in contesti tecnici, normativi, editoriali, scientifici. Si può dire: “Questo dispositivo rispetta il normotipo europeo di sicurezza”, oppure “Abbiamo adottato il normotipo previsto dalla normativa vigente”.

Come aggettivo, può essere usato in forma invariabile (“edizione normotipo”) o flessa (“servizio normotipico”), a seconda del registro e della fluidità desiderata. Entrambe le forme sono corrette e comprensibili, e si integrano bene nel tessuto linguistico italiano.

Il vantaggio principale di “normotipo” è la chiarezza: richiama immediatamente l’idea di norma e di modello, senza bisogno di traduzioni mentali. Ma c’è anche un vantaggio stilistico: si colloca nella famiglia di parole composte italiane come “biotipo”, “prototipo”, “stereotipo”, e ne condivide la struttura morfologica. Questo lo rende familiare, credibile, e pronto per la lemmatizzazione.

In alternativa, si potrebbe ricorrere a perifrasi come “livello base” o “modello tipo”, ma “normotipo” ha il pregio di essere una parola sola, compatta, elegante, e adatta a ogni contesto. È un termine che può vivere nei manuali tecnici, nei contratti, nei cataloghi, nei testi scientifici, ma anche nella lingua comune, senza attriti.

In sintesi: “normotipo” è un neologismo che non chiede permesso, perché è già a casa. E se l’italiano ha bisogno di un sostituto per “standard”, questo è il candidato ideale. Dimenticavamo: alcuni hanno proposto di dare a “standard” una veste italiana: standaro. Ma quell’ “aro” finale richiama il suffisso “-aro” che si adopera per la formazione di sostantivi animati che indicano colui che esercita un’attività connessa con il sostantivo di riferimento: zampognaro. Standaro, inoltre, non ha la trasparenza che deve avere una neoformazione.

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Fratricida e sororicida: due pesi e due misure

I vocabolari cartacei e digitali al lemma “fratricida” riportano: chi uccide il proprio fratello o la propria sorella; alla voce “sororicida”: chi uccide la propria sorella. Perché fratricida è “ambivalente” e sororicida no? Essendo questo un mistero eleusino, non ci resta che confidare nella risposta di qualche insigne linguista.  

 

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La lingua “biforcuta” della stampa


La tragedia ha colpito sopratutto le zone rurali

È stata ribadita l’importanza dell’ educazzione civica

Il tribunale ha emesso un sugello definitivo sulla vicenda

L’inpiegato comunale è stato premiato per la sua dedizione al lavoro

I testimoni sono rimasti esterefatti di fronte alla scena

Qual’ ora si verificasse un emergenza, il piano sarà attivato

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Metro bloccata per due ore e passeggeri evacuati dai vigili del fuoco

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Chi ha pagato i lassativi?