domenica 25 luglio 2021

“Green pass” all’italiana

 Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo

 

Leggo sul Corriere della Sera: “Il green pass per viaggiare in Europa, tutto quello che c’è da sapere Paese per Paese". Anche sul TG2, all’inizio di programma, sento annunciare: “Sul green pass si definiscono i termini”.

La prima cosa da sapere – ma né il C. della S. né il TG2 lo fanno – è che gli italiani sono i soli a chiamare green pass il “lasciapassare covid europeo”.

Gli italiani, per autoproclamazione “cittadini del mondo”, e ardenti sostenitori di un inglese maccheronico, fanno ricorso a “smart work” per designare il lavoro a distanza ossia il telelavoro. E sono gli unici al mondo a farlo, perché “smart work” significa altra cosa. E parimenti chiamano “writer”il graffitaro imbrattatore di muri, e designano col termine “rider” il fattorino in bicicletta che fa le consegne. Se le consegne, invece, le fa in auto, il fattorino cessa di essere un “rider”…

Cosa  volete, il termine generico inglese diviene ogni volta in Italia un termine specialistico da addetti ai lavori, e quindi viene usato da tutti perché tutti si sentono degli addetti al lavoro di demolizione della lingua italiana.

“Tutto da rifare!” esclamerebbe Bartali. Oggi pochi nella penisola esprimono questo pensiero, poiché manca l’espressione inglese ad hoc con cui dirlo. “Che fiasco!” direbbe Coppi. Ma pochi oggi capirebbero il significato di “fiasco” al posto di quel “flop” di cui l’Italia intera va così fiera.

Dando prova dell’abituale fantasia linguistica l’élite politica italiana, così ricca di flatulenze verbali, ha introdotto nella penisola quest’espressione evocante le emissioni di gas serra: “green pass”. Espressione che delizia le bocche italiane, perennemente aperte. Oltralpe, i nostri cugini francesi, eterni sciovinisti, osano invece chiamare “passaport sanitaire” o sinteticamente “pass sanitaire” l’ecologico nostro “green pass”. Sono gli stessi arroganti francesi per i quali il sacrosanto computer è nientedimeno un “ordinateur”!

In Danimarca il termine consacrato è “coronapass”; forse in omaggio alla corona regale. Bisogna ammettere che in origine l’Unione Europea si era servita di “green pass”, ma facendo subito dopo marcia indietro rendendosi conto che l’espressione sconfinava nel campo ecologico. Da un sito ufficiale dell’UE: “Previously referred to as a ‘Digital Green Certificat’, ‘Digital Green Pass’, or ‘Vaccination Passport’, the European Commission (EC) decided on the final name ‘EU Digital COVID Certificate’.”

Il nome finale “EU Certificato Digitale Covid” è giunto troppo tardi per gli italiani, che da bravi vitelloni di provincia propensi ad internazionalizzare il loro discorso, trasformano in gergo pseudo americano tutto quello che toccano con la loro lingua, non accorgendosi di tenersi troppo vicini alle abbondanti terga anglosassoni.

Ma non è solo una questione linguistica… Io immagino le disavventure dei turisti italiani che, sbarcati dall’aereo negli USA, rispondendo alle domande del doganiere confonderanno la “green card” con il “green pass”…

Il fatto che nell’ Unione Europea ogni paese abbia la sua particolare designazione per il “certificato covid digitale UE” crea una grande confusione per gli aspiranti turisti stranieri. Questi, benché adulti e vaccinati, stenteranno a capire che il “green pass” all’italiana non è altro che l’attestazione dell’avvenuta vaccinazione. Ma chi darà a costoro, anzi chi darà a me, questo “green pass”, visto che io progetto di andare in Italia, a Roma, e di prendere subito dopo il treno, dove – sembra – esigeranno il “green pass”? Io penso che molti aspiranti turisti, di fronte alla complicazione creata dal misterioso “green pass” peninsulare, ci penseranno due volte prima di prenotare aerei e hotel.

Ci resta solo da sperare che il “green pass” slitti. Perché, in Italia, i provvedimenti che contano slittano tutti. Questo, dopotutto, è il segnale della loro ufficialità...

 

 

4 commenti:

falcone42 ha detto...

Gentile Dott. Antonelli,
premesso che sono d'accordo con quanto Lei sostiene, temo che ormai difendere la lingua italiana sia impresa ardua: quando un termine della nostra lingua assume un significato nuovo, o viene modificato (o addirittura "inventato") per esprimere meglio un determinato significato, si tratta di evoluzione. Quando invece viene sostituito da un termine (o da una espressione) preso di peso da un idioma straniero, usato addirittura con un significato diverso dall'originale, ho paura di trovarmi di fronte a una "lingua morta", non più in grado di evolvere. Salvo che chi usa tali termini sia soltanto un individuo che crede, in tal modo, di fare sfoggio di una "cultura" superiore a quella di noi comuni mortali. Lo stesso dicasi per "vicino Milano", "le fila" in luogo de "le file" e così via. Chi usa queste espressioni vuol mostrare, nel primo caso, che la grammatica inglese è migliore di quella italiana; nel secondo caso, che sa pure di latino (non so se abbia anche molte altre virtù).
P.P. Falcone

Anonimo ha detto...

Pure io sono d'accordo con quanto sostiene il dottor Antonelli.
Mi permetta però, signor Falcone, di aggiungere una specificazione alla Sua frase "la grammatica inglese è migliore di quella italiana".
Secondo me, più che alla grammatica inglese, se intesa nel senso di sintassi, buona parte degli Italiani è indotta (dalla Stampa e da altri fattori come lo studio imposto, ecc.) ad usare il lessico della lingua inglese.
Per quanto riguarda la grammatica credo che gli Italiani continueranno (anzi lo spero) a fare distinzione tra " Ci vado" e " Vado lì"; tra " Io pago" e "Pago io"; tra " Voi dite" e " Tu dici" ; e così via.

Renato P.

falcone42 ha detto...

Gentile sig. Renato,
ho fatto riferimento (per altro ironico) alla grammatica inglese a proposito di "vicino Milano", in quanto "vicino" - oltre che aggettivo e sostantivo - è un avverbio. Invece "near" è sia avverbio sia preposizione (oltre che aggettivo). Penso quindi che gli Inglesi possano dire tranquillamente "near Milan"; gli Italiani, invece, dovrebbero dire "vicino a Milano", inserendo, tra l'avverbio "vicino" e la località considerata, la preposizione "a". Per me si tratta di questioni di grammatica e non di sintassi, come invece sembra che voglia sostenere lei.
Cordialmente,
P.P. Falcone

Anonimo ha detto...

Accidenti! M'era passato di sotto il naso l'esempio da Lei proposto con cui, inequivocabilmente, alludeva a fatti grammaticali e non lessicali. Stando le cose così Le do ragione. Devo stare più attento alla lettura. Mi serva di lezione.
Cordialmente.

Renato P.