Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo
Leggo sul Corriere della Sera: “Il green pass per viaggiare in Europa, tutto quello che c’è da sapere
Paese per Paese". Anche sul TG2, all’inizio di programma, sento
annunciare: “Sul green pass si definiscono i termini”.
La prima cosa da sapere – ma né il C. della
S. né il TG2 lo fanno – è che gli italiani sono i soli a chiamare green pass il
“lasciapassare covid europeo”.
Gli italiani, per autoproclamazione
“cittadini del mondo”, e ardenti sostenitori di un inglese maccheronico, fanno
ricorso a “smart work” per designare il lavoro a distanza ossia il telelavoro.
E sono gli unici al mondo a farlo, perché “smart work” significa altra cosa. E
parimenti chiamano “writer”il graffitaro imbrattatore di muri, e designano col
termine “rider” il fattorino in bicicletta che fa le consegne. Se le consegne,
invece, le fa in auto, il fattorino cessa di essere un “rider”…
Cosa volete, il termine generico inglese diviene
ogni volta in Italia un termine specialistico da addetti ai lavori, e quindi
viene usato da tutti perché tutti si sentono degli addetti al lavoro di
demolizione della lingua italiana.
“Tutto da rifare!” esclamerebbe Bartali. Oggi
pochi nella penisola esprimono questo pensiero, poiché manca l’espressione
inglese ad hoc con cui dirlo. “Che fiasco!” direbbe Coppi. Ma pochi oggi
capirebbero il significato di “fiasco” al posto di quel “flop” di cui l’Italia
intera va così fiera.
Dando prova dell’abituale fantasia
linguistica l’élite politica italiana, così ricca di flatulenze verbali, ha
introdotto nella penisola quest’espressione evocante le emissioni di gas serra:
“green pass”. Espressione che delizia le bocche italiane, perennemente aperte.
Oltralpe, i nostri cugini francesi, eterni sciovinisti, osano invece chiamare
“passaport sanitaire” o sinteticamente “pass sanitaire” l’ecologico nostro
“green pass”. Sono gli stessi arroganti francesi per i quali il sacrosanto
computer è nientedimeno un “ordinateur”!
In Danimarca il termine consacrato è
“coronapass”; forse in omaggio alla corona regale. Bisogna ammettere che in
origine l’Unione Europea si era servita di “green pass”, ma facendo subito dopo
marcia indietro rendendosi conto che l’espressione sconfinava nel campo
ecologico. Da un sito ufficiale dell’UE: “Previously referred to as a ‘Digital Green
Certificat’, ‘Digital Green Pass’, or ‘Vaccination Passport’, the European
Commission (EC) decided on the final name ‘EU Digital COVID Certificate’.”
Il nome finale “EU Certificato Digitale
Covid” è giunto troppo tardi per gli italiani, che da bravi vitelloni di
provincia propensi ad internazionalizzare il loro discorso, trasformano in
gergo pseudo americano tutto quello che toccano con la loro lingua, non
accorgendosi di tenersi troppo vicini alle abbondanti terga anglosassoni.
Ma non è solo una questione linguistica… Io
immagino le disavventure dei turisti italiani che, sbarcati dall’aereo negli
USA, rispondendo alle domande del doganiere confonderanno la “green card” con
il “green pass”…
Il fatto che nell’ Unione Europea ogni paese
abbia la sua particolare designazione per il “certificato covid digitale UE”
crea una grande confusione per gli aspiranti turisti stranieri. Questi, benché
adulti e vaccinati, stenteranno a capire che il “green pass” all’italiana non è
altro che l’attestazione dell’avvenuta vaccinazione. Ma chi darà a costoro,
anzi chi darà a me, questo “green pass”, visto che io progetto di andare in
Italia, a Roma, e di prendere subito dopo il treno, dove – sembra – esigeranno
il “green pass”? Io penso che molti aspiranti turisti, di fronte alla
complicazione creata dal misterioso “green pass” peninsulare, ci penseranno due
volte prima di prenotare aerei e hotel.
Ci resta solo da sperare che il “green pass”
slitti. Perché, in Italia, i provvedimenti che contano slittano tutti. Questo,
dopotutto, è il segnale della loro ufficialità...
4 commenti:
Gentile Dott. Antonelli,
premesso che sono d'accordo con quanto Lei sostiene, temo che ormai difendere la lingua italiana sia impresa ardua: quando un termine della nostra lingua assume un significato nuovo, o viene modificato (o addirittura "inventato") per esprimere meglio un determinato significato, si tratta di evoluzione. Quando invece viene sostituito da un termine (o da una espressione) preso di peso da un idioma straniero, usato addirittura con un significato diverso dall'originale, ho paura di trovarmi di fronte a una "lingua morta", non più in grado di evolvere. Salvo che chi usa tali termini sia soltanto un individuo che crede, in tal modo, di fare sfoggio di una "cultura" superiore a quella di noi comuni mortali. Lo stesso dicasi per "vicino Milano", "le fila" in luogo de "le file" e così via. Chi usa queste espressioni vuol mostrare, nel primo caso, che la grammatica inglese è migliore di quella italiana; nel secondo caso, che sa pure di latino (non so se abbia anche molte altre virtù).
P.P. Falcone
Pure io sono d'accordo con quanto sostiene il dottor Antonelli.
Mi permetta però, signor Falcone, di aggiungere una specificazione alla Sua frase "la grammatica inglese è migliore di quella italiana".
Secondo me, più che alla grammatica inglese, se intesa nel senso di sintassi, buona parte degli Italiani è indotta (dalla Stampa e da altri fattori come lo studio imposto, ecc.) ad usare il lessico della lingua inglese.
Per quanto riguarda la grammatica credo che gli Italiani continueranno (anzi lo spero) a fare distinzione tra " Ci vado" e " Vado lì"; tra " Io pago" e "Pago io"; tra " Voi dite" e " Tu dici" ; e così via.
Renato P.
Gentile sig. Renato,
ho fatto riferimento (per altro ironico) alla grammatica inglese a proposito di "vicino Milano", in quanto "vicino" - oltre che aggettivo e sostantivo - è un avverbio. Invece "near" è sia avverbio sia preposizione (oltre che aggettivo). Penso quindi che gli Inglesi possano dire tranquillamente "near Milan"; gli Italiani, invece, dovrebbero dire "vicino a Milano", inserendo, tra l'avverbio "vicino" e la località considerata, la preposizione "a". Per me si tratta di questioni di grammatica e non di sintassi, come invece sembra che voglia sostenere lei.
Cordialmente,
P.P. Falcone
Accidenti! M'era passato di sotto il naso l'esempio da Lei proposto con cui, inequivocabilmente, alludeva a fatti grammaticali e non lessicali. Stando le cose così Le do ragione. Devo stare più attento alla lettura. Mi serva di lezione.
Cordialmente.
Renato P.
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