venerdì 29 marzo 2024

Andare (o essere) nel nirvana

 


Il piccolo Carlo non vedeva l’ora di comunicare al suo più caro amico che a giorni  sarebbe partito per il nirvana. Il giovinetto aveva partecipato a un concorso per “piccoli volti nuovi” e avendo superato la selezione era stato convocato presso la sede centrale della casa cinematografica. Carlo, insomma, già sognava la gloria e la popolarità che la carriera di attore gli avrebbe procurato. Ci pensò il padre a riportarlo alla realtà. “Bada Carlino – gli disse con molto garbo e affetto il genitore – non vai nel nirvana, non nutrire così facili illusioni, mantieni i piedi ben piantati per terra: non è certo che sarai il prescelto. Perciò fino a quando non conoscerai il ‘verdetto’ della giuria non illuderti e pensa solo a studiare”.

Carlo, però, non aveva capito il significato dell’espressione “andare nel nirvana”; chiese, quindi, spiegazioni al padre e, una volta afferrato il concetto, decise di fare il saputello con il suo amico. Quest’ultimo, credendo che il nirvana fosse una località, “afferrò” tutti gli atlanti di cui disponeva per vedere in quale parte del mondo si trovasse quel luogo a lui sconosciuto. Ma inutilmente. Era esattamente quello che voleva Carlo: “farsi bello” con il compagno spiegandogli che nirvana non è una località ma un vocabolo che serve per formare una locuzione – anche se impropriamente – riferita a coloro che sono felici di cullarsi in un’illusione, senza mantenere alcun rapporto con la realtà che inevitabilmente li circonda; oppure, ed è il caso più frequente, per la formazione di un’espressione riferita a colui che si trova in uno stato di “godimento spirituale”.

Il termine – tratto dal sanscrito – significa “estinzione” e nella religione buddista indica il fine ultimo della vita ascetica nella quale si raggiunge la realtà ultima, il nulla, o la beatitudine eterna; designa, insomma, il grado di liberazione dalle passioni o – dopo la morte – dalle successive reincarnazioni. La locuzione, pertanto, è un prestito della filosofia ed è adoperata impropriamente – come accennato – nelle accezioni di “beatitudine”, “tranquillità” e simili.


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La lingua “biforcuta” della stampa

Gli assalti al metrò di Torino dei turisti del graffito: “Entrano dai condotti di areazione”

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Secondo la lingua di Dante e di Manzoni il lessema (parola, vocabolo) corretto è aerazione.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: F.Raso@posta.it)


1 commento:

falcone42 ha detto...

Impresa disperata, far capire ai massmediocri che il prefisso è “aero” e non “areo”. Così come lo è il far loro capire che si dice “per esempio” e non “presempio”. O, peggio ancora, i vari “ri∫alire”, “tra∫alire”, “tra∫ecolare” e chi più ne ha più ne metta.