Forse pochi sanno che oltre al discorso, che è - come recitano i vocabolari - un' «esposizione del pensiero mediante parole dette o scritte», c'è anche "la discorsa"; sí, avete letto bene, la discorsa.
E chissà quante volte -nostro/ vostro malgrado - saremo/sarete incappati in una discorsa. Cos'è, dunque, questa discorsa?
Semplicissimo: un discorso lunghissimo, inutile e noioso. Insomma, un discorso sciocco e inconcludente: quell'oratore ci ha sfinito con una noiosa discorsa.
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Si presti molta, molta attenzione all'uso corretto dell'aggettivo salace perché
non significa — come numerose grandi firme del giornalismo ritengono — arguto,
spiritoso, pungente, ingegnoso, mordace e simili.
L'aggettivo in questione vale osceno, eccitante, scurrile, piccante,
lascivo, lussurioso, libidinoso. Una prosa salace non è — come ci è
capitato di leggere, secondo le intenzioni di un noto critico letterario — una prosa
arguta, sibbene una prosa oscena, scurrile.
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In lingua italiana - crediamo lo sappiano tutti - non è possibile stabilire una regola generale per distinguere il genere “naturale” e quello “grammaticale” dei sostantivi. Ciò è dimostrabile attraverso numerosi esempi. Nel nostro idioma è infatti facile trovare sostantivi riferiti a maschi ma che sotto il profilo grammaticale sono femminili: spia; guardia; guida; sentinella. E viceversa, sostantivi grammaticalmente maschili riferiti a donne come, per esempio, soprano e contralto. Le cose si ingarbugliano maggiormente quando, passando dalle persone alle cose, ci imbattiamo in sostantivi che secondo il genere “naturale” debbono essere neutri, mentre nella lingua di Dante sono ora di genere maschile ora di genere femminile. Perché, per esempio, la guerra è femminile mentre il conflitto è maschile? Ancora. Perché il coraggio è maschile mentre il suo contrario, la paura, è femminile? Per quale motivo l’arte è femminile e l’artificio è maschile? Una spiegazione per ognuna di queste stranezze ci sarebbe, anzi c’è, ed è di carattere prettamente etimologico-grammaticale, non di certo naturale. Queste piccole noterelle per mettere in evidenza - come accennato all’inizio - il fatto che non è possibile stabilire dei criteri logici generalizzabili per la classificazione dei sostantivi nel genere femminile o maschile. Solo un buon vocabolario può venirci in aiuto.
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Numerosi amici ci hanno chiesto di spiegare il significato e l’origine della locuzione "fare le scarpe". Quest’espressione, notissima negli ambienti di lavoro, significa danneggiare qualcuno in modo subdolo, riferendo ai superiori le presunte malefatte – a insaputa della vittima, naturalmente, e fingendosi amico – allo scopo di prendergli il posto e arrivare, cosí, “velocemente”, alla carica tanto ambita. L’origine del modo di dire non è molto chiara. Alcuni danno al verbo fare il significato gergale di “rubare”: il malfattore, approfittando della fiducia della vittima, che lo ritiene amico, le sfila le scarpe mentre dorme. Italo Marighelli invece, nel suo “Parole della naia”, dà questa spiegazione: «Chi muore lascia le scarpe a chi resta, cosí si è diffuso fra i soldati del primo Novecento il “lasciare le scarpe” per dire morire in guerra, dove uno è portato anche ad anticiparsi l’eredità scalzando il vivo. E di qui sarà arrivato quel “far (come togliere) le scarpe” al prossimo, ossia superare (qualcuno) in carriera mettendolo praticamente nell’impossibilità di percorrere la strada della competizione gerarchica: “far le scarpe a uno” - nota infatti il Lapucci fra i modi di dire italiani del nostro secolo - (cioè) dare cattive referenze di uno, riferirne ai suoi superiori, a sua insaputa, le malefatte in modo da comprometterne il prestigio, ma è espressione che non persuade semanticamente e trova ostacoli d'ordine cronologico».
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