"La parola è potentissima quando viene dall'anima e mette in moto tutte le facoltà dell'anima ne' suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che sé stessa, riesce insipida e noiosa" (Francesco De Sanctis).
Quante volte, cortesi amici, vi sarà capitato di sentir dire che "quell'oratore ha tenuto un discorso di parole vuote", ha parlato ma non ha detto nulla perché il "di dentro" era vuoto e le parole non esprimevano alcunché? Vogliamo vedere quali sono, in linguistica, le parole "vuote" e quelle "piene"?
La parola, dunque, può essere orale o scritta, e si suole dividerla in due classi: parole piene e parole vuote. Appartengono alla prima classe quelle che hanno un preciso significato e sono dette, appunto, piene (di significato); fanno parte della seconda classe, invece, le parole che sono vuote (di significato). Appartengono alla prima categoria, insomma, gli aggettivi (bello, mio, questo), i verbi (lavorare, giocare), gli avverbi (ora, sempre, domani), i numerali (primo, terzo), i nomi di persona, di cose, di animali, i nomi che indicano uno stato d’animo, un avvenimento, una sensazione ecc.
Si classificano tra le parole vuote, invece, quelle che servono a sostituire o a collegare tra loro le parole piene di una proposizione come: gli articoli, le congiunzioni, le preposizioni, i pronomi e le interiezioni. La preposizione da, per esempio, o il pronome quale da soli non hanno alcun significato, sono, quindi, parole vuote. Attenzione, però, a non confondere le parole vuote con quelle “astratte”. Queste ultime, anche se non si 'toccano', come la bellezza o la bontà, hanno un significato ben preciso, sono, per tanto, parole piene.
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E a proposito di parole, facciamo nostre le... parole di Nicola Gratteri. Per l'occasione riportiamo un nostro intervento -- di qualche anno fa -- pubblicato nella rubrica "Scioglilingua" del Corriere della Sera (in rete):
Povera lingua nostra!!
Gentile Professore, faccio mie le considerazioni dei gentili lettori *** e *** circa l'ignoranza linguistica degli studenti. La colpa, a mio avviso, non è loro, ma della scuola e per "scuola" intendo i docenti delle scuole di ogni ordine e grado. Conosco "fior" di insegnanti di scuola media superiore che non sanno distinguere un aggettivo da un avverbio e commettono errori di ortografia degni di uno scolaretto di III elementare. Conosco docenti universitari che hanno dimenticato (?) l'uso del congiuntivo; che scrivono "qual'è" (con tanto di apostrofo); che non sanno coniugare i verbi; che mettono l'esponente con i numeri romani (IV°) ; che mettono la virgola tra il soggetto e il predicato; che raddoppiano le consonanti dove non devono (perdippiú) e viceversa (dapoco). Potrei continuare ma mi fermo qui. Come rimediare a questo sfacelo? Tornando alla scuola "di un tempo" (come sosteneva, se ho capito bene, il prof. ***) dove la parte nozionistica era fondamentale e si trascorrevano interi pomeriggi (a casa) a fare esercizi di analisi grammaticale e logica. Solo cosí i "nuovi" professori potranno salire veramente in cattedra (se sarà ripristinata "anche" la predella) e la nostra lingua un giorno tanto in pregio, per usare le parole di Carlo Gozzi, non sarà più ridotta a un bastardume.
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