Quando denigriamo una persona
sappiamo benissimo - "per pratica" - che il suddetto verbo significa diffamare, screditare, togliere ad altri
il buon nome con volontaria malizia. Quando denigriamo qualcuno, dunque,
gli "togliamo il buon nome". Ma come? Tingendolo di nero.
Il verbo in
questione, infatti, vale - propriamente - "tingere di nero" venendo
pari pari dal latino denigrare,
composto con la particella intensiva de
e il sostantivo niger, nigri, nero. È
un verbo denominale, quindi. Adoperato estensivamente nel senso di
"annerire il buon nome" il verbo in oggetto ha acquisito, in lingua
volgare (l'italiano), l'accezione figurata di diffamare tingendo di nero, per
l'appunto, il (buon) nome di una persona.
Quando,
invece, insultiamo qualcuno, vale a dire l'ingiuriamo, l'oltraggiamo,
figuratamente gli "saltiamo sopra". Anche questo verbo è pari pari il
latino insultare, forma intensiva di insilire, "saltar su",
composto con la particella in (su,
sopra, contro) e salire, saltare. Non
diciamo, infatti, sempre in senso figurato, che «quella persona mi è saltata
addosso»? Vale a dire mi ha offeso, ingiuriato.
E a proposito di ingiuria, cioè
di offesa, quando la "mettiamo in atto" non facciamo altro che una
"cosa ingiusta" ledendo il diritto di una persona. Questo termine,
infatti, è un derivato del latino iniurius,
ingiusto, formato con il prefisso in negativo
(che toglie) e ius, iuris, diritto. L'ingiuria, per tanto,
è «tutto ciò che è fatto in onta al diritto di qualcuno». L'ingiuria, insomma,
è ogni fatto detto o scritto dolosamente allo scopo di "togliere il buon
nome" a una persona ed è affine, quindi, ma non "uguale", alla
denigrazione.
martedì 14 maggio 2019
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