giovedì 31 gennaio 2019

La lingua (corretta) e la stampa

Il titolare di questo portale viene spesso accusato di "presunzione linguistica" perché censura la "lingua" dei "massinforma" (operatori dell'informazione) i quali, il piú delle volte, prendono a calci la grammatica italiana. Alcuni perché non la conoscono proprio; altri, soprattutto le cosí dette firme, ed è ancora piú grave, per puro "snobismo linguistico". Questo articolo e questi titoli di due quotidiani in rete, forse, faranno cambiare idea…

La «falla» delle compagnie aeree 
che fa pagare meno i voli

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Parioli, aggredisce giudice sotto casa
armato da coltello da sub: arrestato
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Lasciamo ai cortesi lettori, amanti del bel parlare e del bello scrivere, giudicare.

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Peggio il taccone del buco
Questo modo di dire di tradizione prettamente popolare dovrebbe "esser di casa" presso i lettori veneti.

Perché? È presto detto. La locuzione, intanto, è la variante popolare del detto "il rimedio è peggiore del male" che, ci sembra, non necessiti di alcuna spiegazione. La variante, dunque, è il termine "taccone", forma regionale veneta di "toppa" vale a dire del pezzo di cuoio con il quale si ripara (anzi: si riparava) un buco in una scarpa, con risultati estetici veramente grossolani: il rimedio, quindi, è peggiore del male, cioè del... buco

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Un "test" sulla conoscenza della lingua italiana.

mercoledì 30 gennaio 2019

Sgroi - Outing di un grammatico 'laico'. Ancora a proposito di "Qual(')è"

di Salvatore Claudio Sgroi *

1. Il "qual(')è?": sempre una "quisquilia"
Fermo restando, come già premesso nel precedente intervento del 19 gennaio Un tormentone: "Qual'è" e/o "qual è"?, che il caso "Qual(')è" è un problemino di nessuna rilevanza per valutare la competenza linguistico-ortografica di un italofono / italografo, viste le disparate reazioni dei lettori del nostro blog, di altri blog e dei commenti al "Tema del mese" della Crusca di Paolo D'Achille, può invece essere utile analizzare ancora i comportamenti linguistici dei parlanti, i loro giudizi e le posizioni assunte dai linguisti e/o grammatici.

2. "Regole costitutive" dei parlanti, "regole ortografiche" e "regole prescrittive" dei grammatici
Mi sembra opportuno distinguere in primo luogo tra "Regola-1 costitutiva del parlante" (interiorizzata, conscia o inconscia che sia) della lingua parlata dei nativofoni, "Regola-2 della lingua scritta" e Regole "prescrittive" o regolative dei grammatici se in contrasto con le Regole "costitutive" naturali dei parlanti.

2.1. Qualche esempio: Una > "un', una + vocale" VERSUS "una + cons."
Per es. nel caso dell'art. "UNA", la Regola-1 fonologica, naturale, istintiva prevede la cancellazione (facoltativa) della vocale finale di "una" dinanzi a vocale, per es. /un isola/, /una isola/ ma non dinanzi a consonante per es. /una ragazza/, nessuno dicendo con troncamento */un ragazza/.
La Regola-2 della lingua scritta, alla base degli usi degli italografi colti e quindi prescritta dai grammatici, prevede in tali casi l'apostrofo (in quanto cancellazione-elisione): "un'isola". E tale regola è stata introiettata dall'italofono avvezzo alla lettura, oltre che italografo.

2.2. Analogo esempio: Quale > "qual', quale + vocale (e-)" VERSUS "quale + cons."
Analogamente, nel caso del nostro "QUALE" la Regola-1 fonologica, naturale, istintiva prevede la cancellazione (facoltativa) della vocale finale di /kwale/ "quale" dinanzi ad "è/era": /kwa'le(ra)/, ma non dinanzi a consonante per es. /kwale ragazzo/, nessuno dicendo */qual ragazzo/, ma /quale ragazzo/.
La Regola-2 della lingua scritta, alla base degli usi di molti(ssimi) italografi colti, e quindi indicata da alcuni grammatici (non tutti), prevede, come per una, un possibile apostrofo (in quanto cancellazione-elisione): "qual'è/era", "quale è(ra)".

2.3. Caso diverso: Uno > "un  + vocale, cons."
Invece nel caso di "UNO" la Regola-1 fonologica, naturale, della lingua parlata prevede la cancellazione (obbligatoria) della vocale finale di "uno" sia dinanzi a vocale per es. /un asino/ e non già */uno asino/, sia dinanzi a consonante per es. /un kane/ e non già */uno kane/.
In tal caso la Regola-2 della lingua scritta, alla base degli usi degli italografi colti e quindi prescritta dai grammatici, non prevede alcun apostrofo (in quanto cancellazione della vocale generalizzata nei due contesti, non già "elisione" riservata a un solo contesto): "un asino" e non già "un'asino".

2.4. Qual'è? oppure Qual è? tra italiano antico e italiano contemporaneo
Il problemino del "QUAL(')È" nasce perché nell'italiano del passato la fonologia naturale di "quale" /kwale/ era diversa. Prevedeva infatti la Regola-1 della cancellazione generalizzata della "-e" sia dinanzi a vocale /kwal e(ra)/ sia dinanzi a consonante /kwal ragazzo, ragazza/.
Conseguentemente, la Regola-2 della lingua scritta non prevedeva per gli italografi e i grammatici alcun apostrofo per "qual è", "qual era", come peraltro per "qual ragazzo".

2.4.1. Italografi dissociati e no
Gli italografi di oggi che adottano la grafia "qual'è" preferiscono (consciamente o inconsciamente) non entrare in conflitto con la loro fonologia naturale dell'italiano contemporaneo, che prevede appunto la possibile cancellazione della "-e" solo dinanzi a vocale.
Gli italografi che seguono invece la grafia "qual è" sono invero 'dissociati' (in conflitto, conscio o meno) rispetto alla loro fonologia naturale che non prevede troncamento */qual ragazzo, qual ragazza/. Ed è questa la situazione conflittuale sofferta del lettore Tommaso Petrolito.

2.4.2. Grammatici-linguisti (neo)puristi e 'laici'
Infine, c'è il caso dei linguisti e/o grammatici. E a questo punto, non posso non ricordare, con E. Coseriu 1967, che "Complicata è la cosiddetta grammatica dei grammatici, non la grammatica dei parlanti". Il problema riguarda la nozione di "errore".

2.4.3. L'Errore: un'ossessione!
Io definisco "Errore" un uso linguistico generato da una Regola in conflitto/in competizione con un'altra Regola, uso che viene giudicato "errato" con motivazioni diverse.
Nel caso del "qual'è", tale uso grafico è giudicato "errato" sia perché è diverso dall'uso grafico corrispondente alla fonologia dell'italiano non-contemporaneo, sia perché è o sarebbe proprio della maggioranza degli italografi colti.
Per altri italografi e grammatici-linguisti ('laici') invece tale uso grafico è giudicato "corretto" sia perché corrisponde alla fonologia dell'italiano contemporaneo, sia soprattutto perché seguito da molti(ssimi) italografi colti.

2.4.4. Qual'è e Qual è: grafie laicamente corrette.
Per il linguista-grammatico "laico" le due grafie -- Qual'è e Qual è --, i due usi generati da Regole costitutive diverse dell'italiano antico e contemporaneo (e le Regole costitutive dei parlanti sono sempre corrette) non possono essere giudicati errati perché sono adottati, ripeto, da parlanti colti, con diversa frequenza.
Lo scrivente può quindi liberamente scegliere. Variatio delectat.

2.4.5. La buona scuola
Niente di più saggio quindi di quegli insegnanti della garbata lettrice Ines Desideri che "dalla prima elementare in poi, [...] non una/uno: tutti - sostenevano che si potesse/poteva scrivere sia "qual è" sia "qual'è": a noi la scelta della forma che preferivamo".

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania






martedì 29 gennaio 2019

Di tutto un po' (sotto il profilo linguistico)


È bene ricordare che non esiste il suffisso “-simo” per indicare gli aggettivi numerali ordinali dal decimo in poi. Qualche giorno fa, un tg  ha mandato in onda un “serpentone” con la scritta “67simo”. Il suffisso corretto è “-esimo”: 67esimo; 85esimo ecc. Meglio, però, far seguire le cifre dal punto: 45.esimo. Riportiamo dal “Treccani”: « -èṡimo [dal lat. -esĭmus di centesĭmus, ecc.]. – Suffisso dei numerali ordinali: undicesimo, dodicesimo, ventesimo, ecc. (a eccezione dei primi numeri, da 1 a 10). In matematica, può essere aggiunto sia a un numero sia a una lettera o a un’espressione: 0-esimo (zeresimo, di posto zero), n-esimo (ennesimo, di posto n), i-esimo (iesimo), (n2 + 1)-esimo (ennequadratopiuunesimo), ecc.; anche scritto 0-mo, n-mo, i-mo, ecc.».

Comma e capoverso – i due termini non sono sinonimi, come erroneamente si crede. E i vocabolari non aiutano. La spiegazione più chiara viene dal vocabolario della Treccani che riportiamo fedelmente. Alla voce comma leggiamo: “Ognuna delle suddivisioni di un articolo di legge, rappresentata tipograficamente da un accapo, in modo che il primo comma corrisponde al ‘principio’, il secondo comma al ‘primo capoverso’ e così via”. Al lemma capoverso si legge: “Nelle citazioni di leggi, regolamenti, contratti ecc. si chiamano primo, secondo, terzo capoverso e così via le suddivisioni dell’articolo corrispondenti rispettivamente al secondo, terzo, quarto comma, spettando al primo comma il nome di principio.


Infliggere e infiggere - si presti attenzione a questi due verbi, perché molto spesso si confondono credendo che siano uno sinonimo dell'altro. Non è cosí. Sono entrambi della seconda coniugazione e ambedue transitivi, ma hanno significati distinti. Il primo sta per "imporre una pena, un castigo" e simili: il giudice ha inflitto all'imputato otto anni di carcere; il secondo vale "ficcare dentro", "conficcare", "fare entrare con forza": abbiamo dovuto infiggere i chiodi alle zampe delle sedie perché si reggessero.


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A proposito della recente polemica su "scendi il cane", "siedi il bambino", vediamo esattamente come stanno le cose. Qui.

domenica 27 gennaio 2019

I verbi "sedere" e "uscire" possono essere anche transitivi?

L'Accademia della Crusca ha sdoganato la transitività dei verbi sedere e uscire. Qui e qui.
Per quanto ci riguarda continueremo a considerare uno strafalcione l'uso transitivo dei suddetti verbi (anche se "in nome della rapidità di linguaggio"). E ci auguriamo che i docenti di lingua italiana non avallino tale costrutto nei temi dei loro studenti. A tal proposito, però, c'è una precisazione del presidente dell'Accademia, Claudio Marazzini.

sabato 26 gennaio 2019

Sempre sul "qual'è"


La Treccani riconosce le ragioni del "qual' è" (con l'apostrofo).

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La parola proposta da questo portale, ripresa dal De Mauro: clamide. Sostantivo femminile (e aggettivo). Indica un mantello di lana, corto, usato soprattutto dai militari in quanto adatto per cavalcare.

giovedì 24 gennaio 2019

Bevvi, bevei e bevetti

Sulla correttezza delle voci verbali riportate nel titolo rimandiamo a "Risposte ai quesiti" del sito dell'Accademia della Crusca. Ricordiamo ai cortesi lettori che del "problema" si è occupato - sia pure succintamente e con meno autorevolezza - anche il titolare di questo portale.


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La lingua "biforcuta" della stampa

Da un quotidiano in rete:
 Vogliono lo sconto sulla cucina: albanesi accettano le gambe a un artigiano
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Domandiamo, sommessamente, ai titolisti del giornale quando il verbo "accettare" ha acquisito anche il significato di "colpire con un'accetta".


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È riuscito il trapianto su Alex, il piccolo affetto da una malattia rara che ha commosso il mondo
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Soltanto i titolisti del giornale in rete sanno come una malattia possa commuovere il mondo. Il pronome relativo "che" - secondo le norme grammaticali - si riferisce all'antecedente (in questo caso alla malattia). Il titolo corretto avrebbe dovuto recitare: "(...) il piccolo, affetto da una rara malattia, ha commosso il mondo"; oppure, e forse meglio: "(...) il piccolo che, affetto da una rara malattia, ha commosso il mondo".

mercoledì 23 gennaio 2019

Il colmo...

La nostra lingua è abbastanza ricca di parole omofone (stessa pronuncia) e omografe (stessa grafia), ma con significati distinti. Tra queste ci piace spendere due parole su   "colmo", che può essere tanto sostantivo quanto aggettivo e con due distinti significati, appunto: parte più alta di una prominenza (sostantivo) e pieno fino all’orlo (aggettivo). L’origine, però, è un po’ diversa. Il sostantivo, che in senso figurato si adopera anche per indicare il grado più alto che è possibile pensare, immaginare o raggiungere è il latino culmen, -inis: il colmo della vita (l’età matura). Con lo stesso nome — e chi non lo sa? — si indica anche un particolare tipo di indovinello che si risolve, nella maggior parte dei casi, in un bisticcio di parole. Per quanto attiene all’aggettivo bisogna rifarsi, invece, al participio passato sincopato del verbo colmare: colm(at)o. La sincope, è bene ricordarlo, è la caduta di una o più lettere nel corpo di una parola. Nel caso specifico da colmato sono cadute la "a"e la "t" (ed è rimasto colmo).

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Essere l'uscio del trenta

Non vorremmo essere tacciati di presunzione se affermiamo che molti (tutti?) lettori, pur non conoscendo questo modo di dire, lo mettono in pratica ogni qual volta la loro casa si riempie di gente e, quindi, diventa un luogo molto frequentato con un impressionante viavai di persone. L'espressione è la contrazione del detto (sconosciuto?) essere l'uscio del trenta, chi esce e chi entra, dove, però, quel trenta non c'entra nulla: è motivato da ragioni di pura assonanza. E a proposito di uscio, avete mai sentito la locuzione trovare l'uscio di legno? Anche se non l'avete mai sentita l'avete messa in pratica, inconsciamente, quando recandovi a far visita a una persona non l'avete trovata: avete trovato solo la porta chiusa, cioè l'uscio di... legno.

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Due parole, due, sul verbo obbligare che si costruisce, correttamente, con la preposizione "a", non con la "di",  come spesso ci capita di sentire o di leggere sulla stampa: nessun lettore è obbligato a seguire le noterelle linguistiche di questo portale.

Salato e salso - si presti attenzione a questi due aggettivi qualificativi perché non sono sinonimi, come comunemente si è portati a credere. Il primo - salato - significa "che ha il sale", "che il sale vi è stato messo": la pasta è troppo salata; il secondo, invece, significa "che sa di sale", "che il sale è 'insito' per natura" alla cosa cui si riferisce: acqua salsa (del mare).


sabato 19 gennaio 2019

Sgroi - Un tormentone: "Qual'è" e/o "qual è"?

di Salvatore Claudio Sgroi *

1. Giudizio tradizionalista prudente
Decisamente un tormentone la questioncella del "qual è" (senz'apostrofo, apocopato) e/o "qual'è" (con elisione), in cui non si poteva non tirare in ballo l'Accademia della Crusca. Che con un suo accademico, lo storico della lingua Paolo D'Achille, ha ora espresso nel "Tema del mese" di gennaio 2019 Qual è il problema? L’ortografia!  un giudizio normativo, prudente, quasi salomonico, in continuità con la posizione tradizionalista assunta in un intervento del 2002 da Raffaella Setti nel sito della Consulenza. L'amico e collega linguista D'Achille ritiene infatti di "poter continuare a consigliare (consigliare appunto, non imporre)", sottolinea, la "norma tradizionale" dell'apocope, "qual è", senza l'apostrofo. Implicitamente, D'Achille riconosce così come non errata la forma apostrofata "qual'è".


2. Una "quisquilia" ortografica 

  Nella sostanza, un problemino -- il qual(')è -- più che "marginale" dell'ortografia,  pur per altri aspetti importante, come conclude alla fine Paolo D'Achille. Una "distinzione [grafica] artificiale", quella tra "elisione" e "apocope", come riconosceva Bruno Migliorini, l'elemento comune essendo piuttosto la cancellazione fonologica di una vocale. Una "quisquilia" ortografica (avrebbe detto qualcuno) che rischia di far dimenticare che il problema centrale della lingua, per bambini e adulti, è piuttosto quello della verbalizzazione, della capacità cioè di tradurre i propri pensieri in parole chiare e comprensibili, situazionalmente adeguate, per i nostri interlocutori. 
Ma la discussione può essere rilevante se si "attenzionano" i criteri utilizzati di volta in volta per decidere se un uso linguistico rientra o no nella norma, ovvero se rientra nella "norma colta" o nella "norma popolare".

3. Il criterio del giudizio tradizionalista e gli usi degli italofoni e degli italografi colti
Il criterio alla base della norma "consigliata" da P. D'Achille è quello puramente quantitativo: la grafia "qual è" "sembra" all'A. "ancora maggioritaria".
Ma D'Achille sorvola o sottovaluta due aspetti del problema degli italofoni e degli italografi colti.
La forma apocopata ("quale + è" > qual è; "quale + era" > qual era) riflette innanzitutto l'uso dell'italiano antico, rimasta in forme cristallizzate come qual buon vento, in un certo qual modo, e univerbate come qualsivoglia, qualsiasi, mentre l'italiano contemporaneo nel caso di "quale" non apocopa più. Comunemente si dice per es. "con quale ragazzo" e non già "*con qual ragazzo", e si può elidere quale solo dinanzi ad è/era (qual'è, qual'era).
Poi, la forma apostrofata (qual'è) ha dalla sua non solo "la stampa" (già ricordata nel 2002 dalla Setti), ma non pochi italografi colti. Che costituiscono un criterio essenziale per legittimare come corretto un qualunque uso, non accennato dall'A. Nel 2010, e poi nel 2013 e nel 2016  ("qual'è" (sic!) laicamente con apostrofo) ricordavo il qual'è in R. Saviano, L. Pirandello, T. Landolfi, negli scrittori del premio Strega (G. Berto 1947, A. Palazzeschi 1948, C. Malaparte 1950, A. Moravia 1952, I. Calvino 1952, E. Morante 1957, M. Tobino 1962, G. Arpino 1964, G. Parise 1965). A cui è da aggiungere il duplice qual'è di L. Sciascia in Il contesto (1971, ried. 2012), indebitamente corretto in "qual è" dagli editori (Einaudi 1971 e Bompiani 1989), come evidenziato da P. Squillacioti (2012). E poi c'è la esemplificazione in L. Satta 1989, Matita rossa e blu. Lo stato della lingua italiana nell’esame spietato ma scherzoso compiuto su 110 scrittori contemporanei. Senza voler ricordare gli ess. ottocenteschi [1859-1892] in Una di lingua, una di scuola. Imparare l’italiano dopo l’unità, a cura di G. Polimeni (2012), o il "qual'era" del Mastro-don Gesualdo, non sono certamente senza significato gli usi degli stessi grammatici e linguisti del '900. La grammatica degl'Italiani di Trabalza-Allodoli (1934 e 1952) riporta come es.: "l'interpunzione, qual'è stata stabilita" (e non si tratta di un refuso, presente com'è in tutte le edizioni). E anche in G. Devoto (1955): "Qual'è la differenza tra dialetto e lingua?". Un es. appare in G. Nencioni: "Ma cos’è, in concreto la storia d’una lingua? Qual’è il suo oggetto, quali i suoi limiti?" (Lezioni di Glottologia 1945). Lo stesso testo nella rist. del 1951 viene ritoccato con la forma piena: "Quale il suo oggetto".

 Ancora Nencioni in La Crusca risponde osservava: "continua anche presso persone colte e scrittori professionali, l'apostrofazione di qual' in qual'uomo, qual'eroe, qual'idea, nonostante l'esistenza di qual fortuna e la dissuasione dei grammatici odierni".

Ancora due ess. affiorano nella trad. it. 1988 di L. Hjelmslev Principi di grammatica generale (con note autografe): (i) "Qual'è dunque la differenza tra un aggettivo e un verbo?"; (ii) "non sappiamo ancora qual'è la vera natura del morfema".

4. Conflitto tra l'inconscio (elisione) "qual'è" e il superego (apocope) "qual è"
Nel Tema del Mese interviene Luca Passani, collaboratore del giornale on line La Voce di New York, per ribadire la sua posizione sulla necessità della ristandardizzazione della grafia con apostrofo qual'è, di cui si dovrebbe far carico la Crusca. E poi il lettore Tommaso Petrolito, che col suo outing grammaticale, del 15 gennaio, costituisce, a mio giudizio, una sofferta testimonianza del dissidio tra la grammatica dell'inconscio del parlante ora affiorata nella sua coscienza, nel suo "io", e la grammatica del superego della scuola. Il dissidio tra le due grammatiche è risolto dallo scrivente (con soddisfazione per Paolo D'Achille, ritengo) a favore del superego grammaticale, ma con dubbio:
"non sono più sicuro -- dichiara -- che in 'qual è' la mia coscienza linguistica stia applicando un troncamento".
Ovvero: "Inizio ad avere la sensazione che mentalmente la mia coscienza linguistica abbia sempre di fatto compiuto elisione di 'quale' e che io mi stia solo forzando a fare uso della forma tronca 'qual'".
"Essendo stato abituato sin da piccolo ad applicare la regola senza troppe domande -- continua il lettore -- è possibile che mi risulti ovvio e scontato (oltre che graficamente gradevole al contrario di 'qual'è') il troncamento in 'qual è' più per abitudine alla corretta scrittura che per convinta applicazione del troncamento".
Alla fine prevale il superego:
"Nel dubbio continuo a scrivere lo standard 'qual è'. Ma il dubbio resta...".

5. I Grammatici prescrittivisti in contrasto (1918, 1951, 1964)
L’atteggiamento prescrittivista al riguardo è almeno già primo-novecentesco. Per P.G. Goidànich (1918) Grammatica italiana ad uso delle scuole, qual'è è un "errore grave".
Una posizione ‘morbida’, che richiama quella di Paolo D'Achille, è quella di Battaglia-Pernicone 1951: “si dirà […] qual era, qual amico, qual audacia, a preferenza di […] qual’era, qual’amico, qual’audacia”.
L'uso è invece “codificato” e difeso a spada tratta da un pur purista qual'è Franco Fochi fin dal 1964. Nel suo L’italiano facile. Guida allo scrivere e al parlare l'A. ritiene “giusta, aggiornata, legittima soltanto la grafia qual’è (eccetera)” (p. 97).

6. Conclusione
La diffusione della forma con apostrofo, su ampiamente documentata in testi colti, impedisce di ritenere "errata" tale grafia. Google 18 gennaio 2019 dà le seguenti cifre quanto alla diffusione delle due forme:
<qual'è> 52.100.000 "risultati";
<qual è> 10.600.000 "risultati".
Un rapporto quindi di quasi 5 a 1.
 La forma con elisione "qual'era" è invece leggermente inferiore a quella con troncamento:
<qual'era> 4.720.000 "risultati";
<qual era> 5.009.000 "risultati".
Gli italografi, se lo vorranno, potranno decidere di eliminare tale oscillazione o deriva ("drift") a favore di una sola grafia, realizzando così un cambiamento (orto)grafico (giusto le indicazioni di L. Renzi 2012, Come cambia la lingua), e stando a Google avvantaggiata sarebbe (5: 1) la forma apostrofata.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania












venerdì 18 gennaio 2019

Gergo e dialetto: sono sinonimi?


Ieri, 17 gennaio, si è svolta in tutta Italia la VII edizione della "Giornata nazionale del dialetto". 
Riproponiamo, in proposito, un nostro intervento sulla differenza che intercorre tra il dialetto e il gergo.  
Molte persone confondono il gergo con il dialetto, nel senso che li ritengono l’uno sinonimo dell’altro. Non è cosí, anche se i due termini possono essere considerati una lingua. Facciamo chiarezza, dunque, cominciando con l’esaminare il primo vocabolo: gergo. Sotto il profilo etimologico la voce, intanto, non è schiettamente italiana (o latina) ma francese, per la precisione il francese antico “jergon” o “jargon” (‘linguaggio degli uccelli’, quindi linguaggio ‘incomprensibile’). Il gergo, infatti, come lo definiscono i vocabolari, è “una lingua speciale usata dai membri di un gruppo che non vuole essere capito dal resto della comunità”, oppure “linguaggio convenzionale limitato a una ristretta categoria sociale” e per estensione “ogni linguaggio artificiosamente diverso dal linguaggio comune”. Il gergo, insomma, si può definire una “lingua settoriale incomprensibile agli estranei al settore”. In altre parole: una “lingua convenzionale”, un linguaggio oscuro, per figure strane e lontane allusioni, adoperato in ambienti particolari perché la gente estranea non comprenda.
 Abbiamo, cosí, il gergo burocratico, il gergo diplomatico, il gergo giornalistico, quello radiotelevisivo, quello sindacale, curialesco e via dicendo. Come diceva Voltaire, insomma, “ogni scienza, ogni disciplina ha il suo gergo incomprensibile, che sembra inventato solo per tenere alla larga i profani”. Sotto l’aspetto “storico” l’esigenza di  un ‘parlare nascosto’ è antica quanto l’uomo: le pagine della storia sono “zeppe” di codici e cifrari destinati esclusivamente agli addetti ai lavori.   La nascita ufficiale di questa lingua (il gergo) si può datare, però, dal Medio Evo. In quel periodo, infatti, ebbe la massima fortuna. Perché? È presto detto. Il mondo dell’epoca era popolato di ladri, vagabondi, ciarlatani, giocolieri, bari, soldati, guaritori, indovini ecc., che girovagavano da un luogo all’altro in cerca di  “fortuna” o, meglio, cercando di... campare alle spalle degli altri. Tutti questi personaggi, dunque, per difendersi dagli intrusi che incontravano nel loro vagabondare si servivano ciascuno del proprio linguaggio corporativo o, se preferite, “settoriale”, fatto di allusioni o di parole convenzionali; parlavano, insomma, il  “linguaggio degli uccelli”, cioè il gergo, incomprensibile, per tanto, agli estranei.
 Antonio Broccardo, vissuto a metà del XVI secolo, aveva addirittura compilato un “vocabolario” del gergo del tempo. Possiamo cosí apprendere, per esempio, che “fortoso” indicava l’aceto; “chiaro” il vino; “pelosa” la... barba; “ruspante” il pollo. Ogni tempo, insomma, ha il suo gergo. Nel Risorgimento abbiamo i Carbonari e le Vendite, vale a dire le loro sezioni, mentre le “baracche” indicavano i luoghi d’incontro.
 Le persone non piú molto giovani ricorderanno il gergo adoperato nell’ultimo conflitto mondiale: il “violino”, vale a dire il prosciutto; la “roba nera”, cioè il caffè; il “tabacco chinato”, ovverosia le cicche perché per raccoglierle da terra bisognava chinarsi;  la “roba bianca”, la farina, lo zucchero e il burro. E concludiamo con alcune voci gergali dei giovani di oggi: le “care salme”, i genitori; la “gigia”, la zia; il  “caricone”, l’insegnante che dà molti compiti per casa, quindi... “carica”; il  “mammut”, la mamma; il  “secondino”, la moglie; il  “biodegradabile”, colui che è molto facile alle cotte; “lui”, il padre; il  “gong”, l’intervallo scolastico e altri che ora non ci sovvengono. Come si può notare è una  “lingua” il piú delle volte dissacrante ma ricca di immagini e molto critica nei confronti della nostra società.
 Due parole, infine, sul dialetto il cui significato è noto: “linguaggio particolare di un ambito culturale e geografico ristretto, con variazioni non sostanziali nei confronti della lingua nazionale”. È  “cosa”  ben diversa, quindi, dal gergo. Il dialetto, per tanto, si può definire una  “lingua indigena”, vale a dire una lingua locale, nel nostro caso regionale.
 L’etimologia è chiarissima essendo il latino  “dialectus”, tratto dal greco “diàlektos”, ‘conversazione’, quindi... dialetto, cioè “modo di parlare (locale)”. A questo punto è necessario ricordare che il vernacolo non è – come molti ritengono – un sinonimo del dialetto ma una  “particolarità” dello stesso. È, infatti, una  “parlata di un determinato luogo che si differenzia per alcune ‘particolarità’ dal dialetto della zona piú vasta alla quale quel luogo appartiene”.

giovedì 17 gennaio 2019

L'italiano si legge come si scrive?

Tutti sappiamo che la grafia dell’inglese non corrisponde alla pronuncia, al punto che l’unica risposta sensata, a chi chiede come si legge una data parola, è il consiglio di consultare un buon dizionario che riporti anche la pronuncia. E ancora, con l’avvertenza che – naturalmente – il dizionario dà la pronuncia della parola da sola, mentre nel corso del discorso essa può essere influenzata da parecchi fattori, a cominciare dalla vicinanza delle parole che la precedono o la seguono. Tanto da risultare diversa da come la indicava il dizionario.
Per dimostrare che non si tratta di un concetto astruso, prendiamo un esempio nella nostra lingua, quella che ci è più familiare. L’articolo indeterminativo italiano “un”, che pare così inoffensivo. Il dizionario, se riporta la pronuncia, vi dirà che esso si legge come si scrive, “u” ed “n”. Ed è effettivamente vero che “un” si legge “un” se precede , per esempio, la parola “segno”: “unsegno”. Ma, se precede la parola, “pezzo” o “bimbo” diviene “um”, “umpezzo”, “umbimbo”. E non finisce qui: se la parola comincia con una gutturale, come in “gatto” o “cane”, “un” si legge qualcosa come “ung gatto”, “ung kane”. Del resto lo stesso avviene con la “i”. Tutti, studiando l’inglese, si chiedono come pronunciare la frequente finale “ing” (come in “king”) e non sanno che la usano quotidianamente in italiano. Se dicono “in casa” non pronunciano “inn kasa” ma qualcosa come “ing kasa”, e qui “in” ha lo stesso suono che si ha nell’inglese “ing”.
Si potrebbe continuare a lungo, ma basterà dire che la “z” sorda (o aspra) è praticamente sempre doppia. Insomma pronunciamo tutti “stazzione”, non “stazione”. Ed è giusto così. Ma già, nessuno nemmeno sa che la “z” di stazione non è una consonante, ma sono due: “ts”; anzi, nel caso di stazione, diciamo tre: “tts”. E lo stesso vale per la “c” di “cena” che risulta dalla combinazione di t+sc di “scena”. Il gruppo “gl” è praticamente sempre una doppia consonante, come se fosse non “gl”, ma “ggl”: “agglio “, “piggliare”.
Basta? Direi di sì. Segnalo soltanto la necessità del raddoppiamento sintattico, cioè di doppie consonanti che nessuno scrive e tutti leggono, per esempio dicendo “domani vado arRoma”, e non “domani vado aRoma”, che sarebbe un profumo.
Per favore, NON dite che l’italiano si legge come si scrive. Certo, la sua grafia è molto più fedele alla pronuncia dell’inglese ma, per cominciare, meno del francese, che sembra tanto più artificiale, e tuttavia fornisce al parlante più indicazioni di quante ne fornisca a noi la grafia dell’italiano.
Qualcuno ha gridato “Basta!”? Va bene, smetto
.

(dal blog di Gianni Pardo)


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La parola proposta da questo portale: ciofo. Sostantivo maschile che vale: uomo sciocco e balordo, ma anche uomo trasandato, sciatto. Per l' "origine etimologica" ci affidiamo a Ottorino Pianigiani anche se - come scritto altre volte - molti linguisti non lo ritengono fededegno.

mercoledì 16 gennaio 2019

Sgroi - "Amalgama": Sostantivo maschile o femminile?


di Salvatore Claudio Sgroi *

1. Ipse dixit

Chi ha ascoltato domenica scorsa, 13 gennaio, la consueta rubrica linguistica di "Uno mattina in famiglia" in RAI-1, dinanzi al quesito di un ascoltatore se l'espressione "è un'amalgama riuscita" fosse corretta, ha sentito rispondere Francesco Sabatini che "il parlante s'è lasciato trascinare", la forma normale essendo piuttosto al maschile: "è un amalgama riuscito", d'accordo con i maschili in -a, ess. il telegrammail problema, ecc.
Risposta coerente con quanto si legge ne "Il Sabatini Coletti. Dizionario della lingua Italiana" (1997-2006), dove il sost. amalgama è registrato come "s.m.", con l'etimo diacronico: arabismo mediato dal "lat. mediev. degli alchimisti amalgama", di genere (va ricordato) neutro. E confermata per es. nel Devoto-Oli-Serianni-Trifone (2017).

2. Le fonti lessicografiche normativamente oscillanti sul genere grammaticale

Se però il lettore ha altri dizionari, o ha la curiosità di consultare (in biblioteca?, o in internet) altri testi, il ventaglio di informazioni sull'uso e la norma del genere grammaticale del termine si problematicizza  non poco.

2.1. Uso oscillante masch. e femminile

L'uso oscillante (masch. e femm.) di amalgama è infatti codificato in tre-cinque dizionari.
Il De Mauro scolastico (2000) indica il genere masch., e in nota "rar. anche s.f."; nel GRADIT, ovvero Grande Dizionario dell'uso dell'italiano moderno (19991 e 20072, 8 voll.), lo stesso A. segnala descrittivamente entrambi i generi: s.m. e s.f. E così il derivato etimologico De Mauro-Mancini (2000).
Anche il Garzanti-Patota (2004), registra senza alcuna sanzione negativa il femm. pur ritenuto minoritario. Indica anzi al riguardo una differenza d’uso: «n.m. (pl. -i), non com. [?] n.f. (pl. -e)», abbozzando nel contempo una storia della fortuna delle vicende del genere:

«La parola amalgama, di origine araba come molte parole della chimica, non è mai riuscita ad avere un genere ben definito. Gli scienziati l’hanno usata e la usano prevalentemente al maschile; i letterati, forse influenzati dalla finale in -a, qualche volta [?] preferiscono il genere femminile».

E così nel Dizionario Sandron della lingua italiana, a cura di Meini 1976 si legge: «s. m. e f.» col doppio plurale: «pl. m. -mi, f. -me».

2.2. Lessicografia ottocentesca inconsapevolmente oscillante

Due storici vocabolari dell'800, il manzoniano Giorgini-Broglio (1870) e il Tommaseo-Bellini(1861 1872), lemmatizzano la voce come "s.m." ma citano, en passant, anche ess. al femm., rispettivamente:
(i) «Quella teoria è un’amalgama di tutte le opinioni».
(ii) «Strumento fatto di lastra di cristallo incoloro e perfettamente diafano, dietro la quale fu applicata
amalgama di stagno» (sub specchio 1872, ma lemma amalgama 1861 «s.m.»).

2.3. Amalgama s.f. «meno corretto», "non corretto", "scorretto", "errato"

Una punta di purismo affiora invece in testi di maggiori dimensioni della Treccani come il Diz. Enc. It. (1955): «s.m. (meno corretto al femm.)», il Less. Univ. Ital. (1968) s.m.: «meno corr. femm.», il Duro (1986): «meno corretto l’uso al femm.»; il Conciso (1998), il Treccani (2003), il Vocab.-Simone (2009): «s.m. (meno corretto come s.f.)». La sanzione è poi ripresa nel purista Gabrielli illustrato (1989): «Non corretto come femm.». E il DOP (on line): "meno bene l'uso come s.f. (pl. -me)".
Altri dizionari censurano più decisamente il femminile; così per lo Zing. (2019) "sono invece scorretti 'una amalgama o un'amalgama", ovvero sarebbe uno dei "106 errori più frequenti e insidiosi nello scrivere e nel parlare italiano" (sub errore p. 811).
E così il repertorio purista di L. de Cesari 1995 lemmatizza amalgama s.m. evidenziando tout court: «Errato: ** un’amalgama», i due asterischi indicando gli «errori gravi» (p. 16).

2.4. Lessicografia ottocentesca: Amalgama s.m.? No: s.f.!

Se poi il lettore ha ancora la curiosità di compulsare altri dizionari, dell'800 o anche di primo '900, potrà osservare, con qualche sorpresa, che amalgama è solo "s.f.".     Così il PetrocchiNòvo Dizionàrio della lingua italiana I 1887 (1884-), lo registrava come «s.f.». La voce in quanto «f.» ritorna quindi nel Nòvo Dizionàrio scolàstico della lingua italiana dell’uso e fuori d’uso dello stesso Petrocchi 1892, ried. 1930/1954 a cura di M. Vanni.
La stessa indicazione appare nella dizionaristica scolastica della prima metà del Novecento: Gatti [19331] 19427: «s. f.»; Mestica [19361] 1959: «s. f.»; Cerruti − Rostagno [1940] rist. 1959: «sf.».
Ma anche il DEI (Diz. Etim. Ital. di Battisti-Alessio) 1957 etichetta la voce come «s.f.», e non si tratta di refuso.

3. Il perché del genere masch. e del genere femm. di Amalgama

Il genere masch. di amalgama si spiega come resa comune del neutro etimologico latino, come è chiaro anche ai puristi quali A. Gabrielli (19691, 19762) in Si dice o non si dice?: «l’origine del vocabolo è di genere neutro, si sa che il neutro latino sfocia normalmente nel maschile italiano» (p. 72). La motivazione alla base del giudizio negativo sull'uso masch. trova quindi la sua giustificazione per i neo-puristi nell'uso non-etimologico.
Diverse invece le motivazioni alla base del genere femm. di amalgama. Ragioni sia di significato (il cultismo amalgama è sinonimo di «fusione» sostantivo femminile, e possibile traducente dell'arabismo), sia soprattutto di forma (termina in -a, e inoltre inizia per a-).
In effetti, in italiano le parole terminanti in «-a» sono per lo più (all’87,8%) di genere femminile, stando a un dizionario ricco di 130.000 voci come il De Mauro (2000), il 5% circa sono masch. in -a, cioè 1292 voci; quelle a un tempo sia masch. che femm. in -a sono il 7,2% ovvero 1.918 lessemi; tra cui distinguere gli "ambigeneri" (ess. un/una/un'atleta, il/la linguista), gli "oscillanti" o "doppioni" (come il nostro amalgama, anaconda, alpaca) e gli opposti (es. il panda vs la panda).
Una ulteriore spinta, sempre di ordine fonologico, a percepire come s.f. amalgama è costituita dall'attacco in a- del termine, con potenziale diversa segmentazione. Così da un'amalgama si passa a una/malgama. E da l'amalgama la/malgama.
La pressione fonologica (come "colpa") è peraltro lucidamente individuata dai puristi. Il citato Gabrielli 19691, 19762 puntualizza che «L’oscillazione del genere è dovuta evidentemente alla terminazione -a del vocabolo, propria dei femminili italiani» (p.71). Anche per Messina (19737 1983) l’«incertezza» per amalgama nell’assegnazione del genere è «colpa soprattutto della terminazione in -a, che in ital. è propria del femminile».

4. Gli usi dei parlanti

Ma quali sono gli usi reali dei parlanti, i soli a giustificare legittimamente la norma?

4.1. Amalgama nel giornalismo colto (13 s.f. vs 7 s.m.)

In un editoriale del noto politologo Giovanni Sartori, apparso sul «Corriere della Sera» dell’1 novembre 2006amalgama appariva al femminile: «Si capisce che se la sinistra si fonderà (parzialmente) nel Partito Democratico, in tal caso anche Berlusconi dovrà cercare una amalgama parziale» («Il ‘porcellum’ da eliminare»).
L’uso femminile di amalgama di Sartori non è peraltro così raro come potrebbe sembrare. Nel «Sole 24 Ore», nell’arco di 20 anni (1983-2003), su 19 ess. con genere grammaticale scoperto, non meno di 12 sono gli esempi al femminile. Ossia: «ottenere un’amalgama spessa, compatta e senza grumi»; «una fusione, un’amalgama, una mescolanza di diversi giochi»; «una perfetta amalgama»; «magica amalgama»; «della sapiente amalgama di olive» (2 ess.); «una amalgama del Suprematismo e Costruttivismo russo [...]», «zuccherose amalgami»; e ancora: «un’amalgama di esperienza individuale e collettiva», «un’amalgama che ridona equilibrio anche alla pagina», «ottenere un’amalgama maggiore», «scrive in un’amalgama pressoché incomprensibile».

4.2. Amalgama s.f. nell’uso letterarionell’uso dei puristi dell'800

Nella LIZ amalgama è al femm. un es. su 5:
(i) « resta ancora nei fondamenti l’amalgama dei diritti competenti ed incompetenti fatta nel medio evo» (AA.VV. Il Conciliatore, N.95 [GDR, Parere sul De Pradt] 1819).
Su 8 ess. riportati nel Battaglia (1961, Grande diz. della lingua it.) con genere decidibile, in quattro casi amalgama è s.f.:
(i) A. Soffici av. 1954 [1900?]: «amalgama armoniosa dei toni e dell’illuminazione del plein air»;
(ii) E. Cecchi 1936: «un’amalgama di poesia ed eloquenza»;
(iii) A. Palazzeschi 1943: «amalgama interna»;
(iv) G. Manzini 1947: «una miracolosa amalgama d’amore» (che adopera nel 1945 la voce anche al maschile: «Un amalgama singolare»).
Il Lessico dell’infima e corrotta italianità di Fanfani-Arlia 19075 registra la voce con tre ess. al femm.:
(i) «L’amalgama non è buona»;
(ii) «Credi tu che le nuove elezioni siano un’amalgama de’ partiti?»;
(iii) «Guarda se coll’inchiostro e col copale si può fare un’amalgama»..

4.3. L’amalgama s.m. nell’uso letterarionella saggistica e nel lessico della linguistica

L’uso maschile di amalgama è incrementato a livello letterario nel Primo Tesoro della  Lingua Letteraria Italiana del Novecento (De Mauro 2007), dove amalgama 5 volte (su 11) è scopertamente maschile, nessuna occorrenza essendo femm.:
Nella saggistica dell'800 due ess. (Tenca 1852, Ellero 1876).
Anche nell’ambito della linguistica la voce amalgama è di genere maschile (per es. in A. Martinet 1966, G. Nencioni 1987, S. Scalise 1994M. Grossmann - F. Rainer 2004).

5. Ergo (s.f. 21/50 = 42% vs s.m. 29/50 = 58%)

Tirando le fila, l’amalgama letterario è s.f. (LIZ + Batt. + Tesoroess. su 18 = 27,7% e a livello giornalistico colto 13 ess. su 20 (= 65%), a livello saggistico 0/9 (= 0%)
Su 50 occorrenze di amalgama del nostro mini-corpus, ben 21 sono s.f. cioè il 42% e 29 s.m. ovvero il 58%.
Va quindi ribaltata l’opinione espressa in De Mauro (2000) o da Garzanti-Patota (2004), secondo cui sarebbe "raro" o «non com.» il femm. (42%) rispetto al masch.
Stando a Google del 14 agosto 2007, il pl. femm. amalgame era in 59.900 pagine vs il pl. masch. amalgami in 21.700: un rapporto quindi quasi di 3 a 1.
Con Google del 14 gennaio 2019, il pl. femm. amalgame è in 3.480.000 pagine vs il pl. masch. amalgami in 94.400: un rapporto quindi più che decuplicato a favore del femm. di 36,8 a 1.

6. Alla fine

In conclusione, l'uso di amalgama come s.f. non è certamente «errato» in quanto per nulla tipico di parlanti italiano popolare ma presente in autori e testi colti. Si tratta quindi di un termine di genere oscillante, almeno dall'800 a tutt'oggi (la voce è databile 1585 con lo Zingarelli 2019 ma senza indicazione della fonte).
I parlanti, se lo vorranno, potranno decidere di eliminare tale oscillazione ("drift") a favore di un solo genere, realizzando così un cambiamento linguistico (giusto le indicazioni di L. Renzi 2012, Come cambia la lingua), e stando a Google avvantaggiato sarebbe decisamente il contestato femminile.

* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania