Ieri, 17 gennaio, si è svolta in tutta
Italia la VII edizione della "Giornata nazionale del dialetto".
Riproponiamo, in proposito, un nostro intervento sulla differenza che intercorre tra il dialetto e il gergo.
Riproponiamo, in proposito, un nostro intervento sulla differenza che intercorre tra il dialetto e il gergo.
Molte persone confondono il gergo con il
dialetto, nel senso che li ritengono l’uno sinonimo dell’altro. Non è cosí,
anche se i due termini possono essere considerati una lingua. Facciamo
chiarezza, dunque, cominciando con l’esaminare il primo vocabolo: gergo. Sotto
il profilo etimologico la voce, intanto, non è schiettamente italiana (o
latina) ma francese, per la precisione il francese antico “jergon” o “jargon”
(‘linguaggio degli uccelli’, quindi linguaggio ‘incomprensibile’). Il gergo,
infatti, come lo definiscono i vocabolari, è “una lingua speciale usata dai
membri di un gruppo che non vuole essere capito dal resto della comunità”,
oppure “linguaggio convenzionale limitato a una ristretta categoria sociale” e
per estensione “ogni linguaggio artificiosamente diverso dal linguaggio
comune”. Il gergo, insomma, si può definire una “lingua settoriale
incomprensibile agli estranei al settore”. In altre parole: una “lingua
convenzionale”, un linguaggio oscuro, per figure strane e lontane allusioni,
adoperato in ambienti particolari perché la gente estranea non comprenda.
Abbiamo, cosí, il gergo burocratico, il
gergo diplomatico, il gergo giornalistico, quello radiotelevisivo, quello
sindacale, curialesco e via dicendo. Come diceva Voltaire, insomma, “ogni scienza,
ogni disciplina ha il suo gergo incomprensibile, che sembra inventato solo per
tenere alla larga i profani”. Sotto l’aspetto “storico” l’esigenza
di un ‘parlare nascosto’ è antica quanto l’uomo: le pagine della
storia sono “zeppe” di codici e cifrari destinati esclusivamente agli addetti
ai lavori. La nascita ufficiale di questa lingua (il gergo) si può datare,
però, dal Medio Evo. In quel periodo, infatti, ebbe la massima fortuna. Perché?
È presto detto. Il mondo dell’epoca era popolato di ladri, vagabondi,
ciarlatani, giocolieri, bari, soldati, guaritori, indovini ecc., che
girovagavano da un luogo all’altro in cerca di “fortuna” o, meglio,
cercando di... campare alle spalle degli altri. Tutti questi personaggi,
dunque, per difendersi dagli intrusi che incontravano nel loro vagabondare si
servivano ciascuno del proprio linguaggio corporativo o, se preferite,
“settoriale”, fatto di allusioni o di parole convenzionali; parlavano, insomma,
il “linguaggio degli uccelli”, cioè il gergo, incomprensibile, per
tanto, agli estranei.
Antonio Broccardo, vissuto a metà del XVI
secolo, aveva addirittura compilato un “vocabolario” del gergo del tempo.
Possiamo cosí apprendere, per esempio, che “fortoso” indicava l’aceto; “chiaro”
il vino; “pelosa” la... barba; “ruspante” il pollo. Ogni tempo, insomma, ha il
suo gergo. Nel Risorgimento abbiamo i Carbonari e le Vendite, vale a dire le
loro sezioni, mentre le “baracche” indicavano i luoghi d’incontro.
Le persone non piú molto giovani
ricorderanno il gergo adoperato nell’ultimo conflitto mondiale: il “violino”,
vale a dire il prosciutto; la “roba nera”, cioè il caffè; il “tabacco chinato”,
ovverosia le cicche perché per raccoglierle da terra bisognava
chinarsi; la “roba bianca”, la farina, lo zucchero e il burro. E
concludiamo con alcune voci gergali dei giovani di oggi: le “care salme”, i
genitori; la “gigia”, la zia; il “caricone”, l’insegnante che dà
molti compiti per casa, quindi... “carica”; il “mammut”, la mamma;
il “secondino”, la moglie; il “biodegradabile”, colui che
è molto facile alle cotte; “lui”, il padre; il “gong”, l’intervallo
scolastico e altri che ora non ci sovvengono. Come si può notare è
una “lingua” il piú delle volte dissacrante ma ricca di immagini e
molto critica nei confronti della nostra società.
Due parole, infine, sul dialetto il
cui significato è noto: “linguaggio particolare di un ambito culturale e
geografico ristretto, con variazioni non sostanziali nei confronti della lingua
nazionale”. È “cosa” ben diversa, quindi, dal gergo. Il
dialetto, per tanto, si può definire una “lingua indigena”, vale a dire
una lingua locale, nel nostro caso regionale.
L’etimologia è chiarissima essendo il
latino “dialectus”, tratto dal greco “diàlektos”, ‘conversazione’,
quindi... dialetto, cioè “modo di parlare (locale)”. A questo punto è
necessario ricordare che il vernacolo non è – come molti ritengono – un
sinonimo del dialetto ma una “particolarità” dello stesso. È,
infatti, una “parlata di un determinato luogo che si differenzia per
alcune ‘particolarità’ dal dialetto della zona piú vasta alla quale quel luogo
appartiene”.
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