Il piccolo Maurizio, che era un “ marinaio” appassionato, lí per lí provò un
sentimento d’invidia quando apprese che un suo antenato – nell’Ottocento – fu condannato
ai bagni penali. La pena, tutto sommato, non era poi molto pesante – pensò – il
suo avo era stato fortunato: poteva stare “a bagno” tutto il tempo che voleva
senza che nessuno lo… rimproverasse. Non
era affatto cosí; se ne rese conto quando il padre gli narrò tutta la storia.
Marc’Antonio, questo il nome del condannato, durante un litigio provocò la
morte di un individuo e, per questo, fu condannato ai bagni penali, vale a dire
ai lavori forzati. Questo tipo di “punizione” trae origine dal fatto che anticamente i condannati al carcere duro
venivano impiegati a remare stipati nella sentina delle galere (di qui “galera” sinonimo di carcere), cioè
nel fondo della stiva dove le acque ricolano e stagnano, quindi erano sempre “a
bagno”. La sentina, cioè la fogna delle galere – sarà utile ricordarlo – trae il
nome, sembra, dal latino “sentina”, connesso a “sentis”, cioè a spina perché
fatta, appunto, a spina di pesce. Con il passare del tempo si chiamarono bagni
penali tutti i luoghi o edifici dove erano rinchiusi i condannati ai lavori
forzati. Nel nostro Paese esistevano
fino al 1891 – anno in cui furono chiamati “ergastolo” e “casa di reclusione” –
i bagni di porto Santo Stefano e di Alghero. Famosi anche i bagni di Livorno,
cioè il mastio della Fortezza Vecchia, in parte sotto il livello del mare
(quindi “a bagno”) dove erano rinchiusi gli schiavi turchi.
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