sabato 30 giugno 2018

Vendere all'asta o alla tromba


Gentilissimo dott. Raso,
 ho scoperto da poco il suo meraviglioso e istruttivo sito. Sarò telegrafico. Può spiegarmi che cosa significa "vendere alla tromba"? Grazie e complimenti per il suo impegno.
 Rosario T.
 Ragusa

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Cortese Rosario, sarò altrettanto telegrafico: clicchi qui.

venerdì 29 giugno 2018

Si diffida "da" o "di"?


Da un quotidiano in rete:


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È il caso di "ricordare" ai titolisti del giornale in rete che il verbo "diffidare" si costruisce con la preposizione "di" (semplice o articolata). Correttamente, quindi: diffidate delle imitazioni.


Diffidare significa non fidarsi, dubitare, sospettare e si costruisce - come i predetti verbi - con la preposizione "di": diffidate delle imitazioni (non 'dalle', come quasi sempre si sente o si legge). Adoperato transitivamente sta per intimare di fare o no una cosa e si fa seguire dalla preposizione "a", non "da": il bandito fu diffidato (gli fu intimato di) a presentarsi in caserma; lo studente fu diffidato a non fumare. Non dal fumare. Siamo in errore? Assolutamente no, anche se i vocabolari "piú attendibili" riportano il costrutto diffidare qualcuno “dal” fare qualcosa. La preposizione “da” articolata, dunque, è “tollerata” accanto al costrutto tradizionale (dato anche dal Tommaseo-Bellini) diffidare qualcuno “a”  fare qualcosa. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere... (da Il Cannocchiale).



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La parola proposta da questo portale: disgittare. Verbo che vale "perdersi d'animo", "demoralizzarsi" e simili. 


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Segnaliamo un sito per gli amanti dei libri e della cultura.

martedì 26 giugno 2018

Fare come il cuculo


L'espressione che avete appena letto (nel titolo) - forse non molto conosciuta - si riferisce alle persone che "campano" approfittando del lavoro altrui, che pretendono molto senza dare nulla in cambio; ma anche nei confronti di coloro che fanno esclusivamente il loro interesse danneggiando gli altri. La locuzione fa riferimento all'abitudine del cuculo* il quale deposita le uova da covare nel nido di altri uccelli, risparmiandosi, cosí, il... lavoro. E il neonato, appena venuto al mondo, provvede subito a buttar fuori dal nido le uova dell'altro uccello al fine di garantirsi la sicurezza del cibo.

* Si presti attenzione all'ortoepia, cioè alla corretta pronunzia che deve avere l'accentazione piana: cucúlo.

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«D'ascoltare»

È una canzone bellissima, ma d’ascoltare piú volte per ‘carpirne l’essenza’, cosí si esprimeva un noto critico musicale in un articolo per il suo giornale, commentando le canzoni presentate in uno spettacolo televisivo. Sarà il caso di ricordare che la preposizione “da” non si apostrofa mai per non confonderla con la sorella “di”. Il critico avrebbe dovuto scrivere, correttamente, “da ascoltare”. Fanno eccezione solo alcune locuzioni avverbiali: d’altronde, d’altra parte, d’allora, d’ora in poi, d’ora innanzi, e simili. Sono errate, quindi, le scritte che molto spesso, passeggiando, ci capita di leggere: d’affittare, d’asportare. È anche il caso di ricordare che quando la suddetta preposizione è in funzione di prefisso (“da-”) richiede il raddoppio della consonante della parola che segue: dappertutto, daccapo, davvero, dattorno, dappoi, dappoco, davvantaggio  ecc. Naturalmente solo se si fa l'univerbazione. Concludendo si può scrivere, per esempio, sia dappertutto sia  da per tutto.

sabato 23 giugno 2018

Blu...



Alcune persone - e tra queste dobbiamo annoverare, ahinoi, anche "gente di cultura" - sogliono mettere l’accento sull’aggettivo blu: è un errore grossolano. Vediamo il perché.

  C’è da dire, innanzi tutto, che questo aggettivo non è di nobili origini patrie, bensì francesi: bleu. L’uso erroneo dell’accento, quindi, potrebbe esser nato dal fatto che tutte le parole di origini francesi devono essere pronunciate con l’accento sull’ultima sillaba. Non è, però, il caso di blu che, oltre ad essere entrato a pieno titolo nel vocabolario della lingua italiana è, per giunta, un monosillabo e una “legge grammaticale” vieta l’uso dell’accento scritto sui monosillabi, tranne in casi particolari che esporremo per sommi capi cercando di non cadere nella pedanteria. Segneremo l’accento su alcuni monosillabi che hanno la medesima scrittura ma significato diverso: ‘dà’ (verbo) e ‘da’ (preposizione); ‘là’ (avverbio) e ‘la’ (articolo e pronome); ‘sé’ (pronome) e ‘se’(congiunzione); ‘dì’ (sostantivo, ‘giorno’) e ‘di’ (preposizione). Segneremo, altresì, l’accento sui monosillabi con dittongo ascendente: ciò, già, più, può eccetera. A questo proposito è bene ricordare che si chiama “ascendente” il dittongo in cui la vocale debole  ("i" e "u") precede quella forte ("a", "e", "o") in quanto la “sonorità” della pronuncia aumenta (‘ascende’) passando sulla seconda vocale: piove. Nel  caso contrario avremo un dittongo “discendente”: reuma. Tornando al nostro ‘blu’, dunque, non lo accenteremo salvo che nelle parole composte: gialloblù, rossoblù, biancoblù e via dicendo.

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E a proposito di blu, quindi di colore, ci piace riportare una massima di John Ruskin*: Le menti piú pure e piú pensose sono quelle che piú amano i colori.

* Qui.

venerdì 22 giugno 2018

Scrittoio e scrivania "pari non sono"


I due sostantivi (scrittoio e scrivania) - anche se i vocabolari ci smentiscono - non sono l’uno sinonimo dell’altro; non si “potrebbero”, quindi, adoperare indifferentemente. Il primo termine indica lo studio, la stanza, cioè, dove si scrive. Deriva, infatti, dal tardo latino “scriptorium”, di qui l’italiano antico “scrittorio”. Lo “scriptorium”, dunque, era la sala del convento dove i frati amanuensi copiavano i manoscritti. La scrivania, invece, indica il tavolino, la tavola, il mobile per scrivere ed è un denominale provenendo da “scrivano”, il “tavolino dello scrivano”. Dovremmo dire, per tanto, volendo essere particolarmente pedanti, rispettando l'etimologia, “che il dr Pasquali si è recato nello scrittoio per prendere gli occhiali dimenticati sulla scrivania”.

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La parola proposta da questo portale, non a lemma nei vocabolari dell'uso (dal "sapore" un po' volgare, di cui ci scusiamo): merdacchio. Sostantivo maschile, indica la parte terrosa dell'allume. Si veda anche qui.

giovedì 21 giugno 2018

Viaggiando nella sterminata foresta del vocabolario della lingua italiana


La pigrizia è il rifiuto di fare non soltanto ciò che annoia, ma anche quella moltitudine di atti che senza essere, a rigore, noiosi, sono tutti inutili; allora la pigrizia dev’essere considerata una fra le manifestazioni piú sicure dell’intelligenza.

 Questo pensiero di Montherlant ci ha dato lo spunto per intraprendere un breve viaggio attraverso la sterminata foresta del vocabolario della lingua italiana alla ricerca di parole “di tutti i giorni”, di parole che adoperiamo “per pratica” il cui significato “nascosto”, però, non sempre è noto. Questo viaggio fa tappa, dunque, alla voce “pigrizia”. Il significato “scoperto” è chiaro a tutti: “il non far nulla”; “stato di svogliatezza”; “stato d’animo” di chi non si dedica a nessuna attività fisica o intellettuale. Bene. Ma qual è il significato che sta “dentro” la parola? In altre… parole, donde viene questo sostantivo? Per scoprirlo occorre rifarsi al padre della nostra lingua, il solito nobile latino: “pigrizia”, derivato dell’aggettivo (latino, appunto) “piger” (pigro). Ma abbiamo scoperto ben poco…  Che fare? Poiché la pigrizia è un “deaggettivale”, vale a dire un sostantivo che discende da un aggettivo, dobbiamo “esaminare” il padre. Questo è, appunto, il latino “piger”, affine al verbo impersonale “piget” (essere increscioso, di peso, spiacersi, fare controvoglia). Il pigro quando fa una cosa, se la fa, non la fa controvoglia? Spesso non è “di peso” agli altri? Ma l’ “esame” non è finito. Ci sono alcuni Autori che vogliono il latino “piger” discendere dalla medesima radice di “pinguis” (pingue, grasso), donde il senso di “pesante”. La persona pigra non è moralmente “pesante”?  Dalle parole “di tutti i giorni” passiamo a due parole omofone e omografe (stessa pronuncia e stessa grafia) ma con significati distinti. La prima è il “collo” e – come la precedente pigrizia – viene anch’essa dal latino “collu(m)” il cui significato “principe” – chi non lo sa? – è la “parte del corpo che nell’uomo e negli animali vertebrati unisce la testa col busto”. In questa accezione si tende a dare al latino “collu(m)” il medesimo etimo di “columna” (colonna): “colonna che tiene la testa”. Ora, dato che i movimenti del collo si trasmettono al capo, in alcune frasi che indicano, appunto, tali movimenti il collo medesimo diventa sinonimo di  “testa”: abbassare il collo (umiliarsi); sollevare il collo (ardire) e via dicendo. A questo primo significato se ne aggiunge un altro completamente diverso (anche se è in relazione con il precedente): grosso involucro, bagaglio. Non vi è mai capitato di lasciare i vostri bagagli nei depositi delle stazioni ferroviarie dove la tariffa è un “tot a collo”? E perché “collo”? Perché in questo significato il “collo” è impiegato nel senso di fardello da portare in… collo. L’altra parola omofona e omografa di cui vogliamo occuparci è la provetta. Nel significato “primario” è il femminile singolare dell’aggettivo provetto (esperto, competente) e viene dal latino – sempre lui! –  “provectus”, participio passato del verbo “provehere”, composto con “pro” (avanti, prima) e “vehere” (portare) e alla lettera significa  “portare avanti”. La persona provetta non  “porta avanti” prima degli altri una determinata attività o un determinato studio? La persona provetta, insomma, è molto “avanzata” nella conoscenza (e nell’esperienza) di una disciplina. Di qui, per estensione – e solo in campo letterario – l’aggettivo provetto è diventato sinonimo di  “vecchio” (‘provetto’: che va “avanti negli anni”). La provetta nel significato di “piccolo e leggero cilindretto di vetro” è, invece, un prestito del francese “éprouvette”, derivato dal verbo “éprouver” (‘provare’). I chimici – per le loro esperienze di laboratorio – non “provano” le loro scoperte nella… provetta?

mercoledì 20 giugno 2018

Far la parte (o figura) del cappellone...



... vale a dire non fare una bella figura per ignoranza o per scarsa conoscenza dell'ambiente in cui ci si trova. La locuzione - forse poco conosciuta - fa  riferimento al tempo in cui il servizio militare era obbligatorio e la recluta, appena giunta in caserma, veniva chiamata "cappellone". I nuovi arrivati (i cappelloni) non conoscendo l'ambiente e gli usi si comportavano goffamente ed erano spesso oggetto di scherzi, a volte anche pesanti, da parte dei commilitoni anziani.


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"Punti di vista"...


Chiediamo scusa a tutti coloro che usano nei loro discorsi e nei loro scritti frasi tipo dal punto di vista letterario il libro non è interessante; oppure, dal punto di vista economico il Paese non ha fatto un passo avanti. Perché chiediamo scusa? Perché frasi del genere ci fanno ridere. È un francesismo ridicolo. Come si può parlare di fatti, di oggetti, di cose che non hanno occhi? Dal punto di vista letterario: dove sono gli occhi? Dal punto di vista economico: dove sono gli occhi? Ci siamo accorti che in questa ‘ridicolaggine’, purtroppo, alcune volte vi è caduto anche l’estensore di queste noterelle. Cercheremo, in futuro, di fare piú attenzione. Insomma, a nostro sommesso avviso, la locuzione dal punto di vista si può adoperare esclusivamente riferita a una persona (che ha occhi per vedere e, quindi, per giudicare): Dal punto di vista di Giovanni quel libro non ha nulla di letterario. Che cosa fare, allora, quando non ci si riferisce a una persona? Cambiare locuzione.
Quel libro non è interessante perché non ha alcun valore letterario; oppure: quanto a valore letterario quel libro non è interessante. In quanto all'economia questo Paese non ha fatto un passo avanti; oppure: per ciò che riguarda l'economia questo Paese non ha fatto un passo avanti (o locuzioni simili)

domenica 17 giugno 2018

Un altro esercizio sulla lingua italiana


Ecco un altro esercizio per gli amanti della lingua italiana.

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La parola proposta da questo portale: confetto. Aggettivo che vale, in senso figurato, "affranto", "angustiato" e simili.

sabato 16 giugno 2018

Patrocinio e patronato: un termine vale l'altro?


All'interessante interrogativo del titolo risponde Claudio Giovanardi, sul sito dell'Accademia della Crusca.

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Volete mettere alla prova la vostra conoscenza di alcune regole del nostro idioma? Rispondete a queste domande
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La parola proposta da questo portale: dirangolato. Aggettivo che sta per "disattento", "distratto", "spensierato" e simili.

venerdì 15 giugno 2018

«Ghosting»


Apprendiamo  dalla stampa che la Crusca ha accolto, tra i neologismi che saranno a lemma nelle prossime edizioni dei vocabolari, il termine barbaro "ghosting" (dall'inglese "ghost", fantasma). Con questo vocabolo si vuole designare la "scomparsa" - senza alcuna spiegazione - di una persona con la quale abbiamo avuto una relazione epistolare o telefonica. Ma l'Accademia della Crusca non era nata per difendere la purezza della lingua italiana? Onestamente siamo allibiti. Questa prestigiosa istituzione ha sempre condannato - se non ricordiamo male - i barbarismi che dilagano sulla carta stampata e no. Ora, invece, sembra che li accolga in pompa magna. Che cosa ne penserà il Divino?
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Qui, la notizia.

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Il prof. Marco Grosso, moderatore del sito Cruscate, propone "fantasmeria" o "fantasmizzazione" (termini italianissimi, se accettati).

mercoledì 13 giugno 2018

«Grammaticando»... (5)


Da un giornale: «Gli odii razziali». Il plurale di odio è odi, con una sola i in quanto la grammatica prescrive la doppia i solo per le parole in -io con la i tonica, come, per esempio, addio che fa addii oppure oblio che diventa oblii. E a proposito di razziale, molti adoperano il sostantivo razzista con valore aggettivale: politica razzista. In buona lingua è preferibile solo l'aggettivo razzistico: teoria razzistica.

Molti  non concorderanno su quanto stiamo per scrivere, anche perché siamo smentiti dai vocabolari e da illustri Autori (primo fra tutti il Manzoni). Ma tant’è. A nostro avviso gli avverbi in -oni (cavalcioni, ginocchioni, ecc.) – come tutti gli avverbi – non debbono essere preceduti dalla preposizione “a”: Giulio camminava carponi per non farsi vedere. Diciamo, per caso, a lentamente? Perché, dunque, a carponi, a ginocchioni, a tentoni e via dicendo?

Abbiamo notato che molti  testi (se non tutti) di lingua, anche quelli di autorevoli esponenti della  “lingua ufficiale”, tralasciano la trattazione del complemento di circostanza. Questo complemento, invece – anche se poco conosciuto, perché  “snobbato” da molti autori, appunto – è importantissimo in quanto compare di frequente nel quotidiano linguaggio familiare. Va conosciuto, quindi, e adoperato in modo corretto. I complementi, dunque, chiamati anche  “espansioni” o  “determinazioni”, lo dice la stessa parola che viene dal latino  “complère” (completare), servono a "completare", a  “determinare”, a “espandere” in modo piú ricco e dettagliato lo schema-base della frase, costituito dal soggetto e dal predicato (verbo). Quando diciamo, per esempio,  “Franco legge un libro”, con la parola  “libro” completiamo o  “espandiamo” in modo dettagliato lo schema-base della frase  “Franco legge”. In questo caso abbiamo il complemento oggetto (libro). Tra i complementi, dicevamo, bisogna includere quello di  “circostanza” che indica in quali circostanze (temporali, fisiche, ambientali ecc.), appunto, si verifica l’azione espressa dal predicato. Si riconosce facilmente perché risponde alla domanda (sottintesa)  “in quali circostanze?”,  “in quali condizioni?” ed è introdotto dalla preposizione  “con”: ho letto quel libro  “col ” mal di testa. In quali condizioni (ero quando) ho letto il libro?  “Col ” mal di testa (complemento di circostanza). Dimenticavamo, per concludere, di raccomandarvi di prestare attenzione al fatto che, a volte, il complemento di circostanza si può confondere con quello di causa, essendo, il primo complemento, affine a quest’ultimo: cammina con la testa bassa (complemento di circostanza); con tutti quegli acciacchi (complemento di causa) non potrà uscire di casa.

martedì 12 giugno 2018

(Essere) Una testa di turco


Quest'espressione - simile a quella, forse piú conosciuta, "essere (o fare) il capro espiatorio" - si riferisce a una persona sulla quale far ricadere tutte le colpe, vere o presunte, materiali e morali. La locuzione ci riporta al Medio Evo, quando i cavalieri si allenavano al combattimento... combattendo, lancia in resta, contro un fantoccio, girevole, raffigurante la testa di un turco, il... nemico. Questa "testa" venne anche usata come bersaglio , e per molto tempo, nei baracconi delle fiere e nei circhi. Sembra sia ancora in auge colpire il "turco" nelle sagre paesane.

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I titolisti del giornale ci perdoneranno ma non possiamo sottacere un'altra "linguaccia biforcuta": i bloccaruote. Questo sostantivo - e una volta tanto tutti i vocabolari che abbiamo consultato concordano - è invariabile: il bloccaruota / i bloccaruota. Perché invariabile? Perché i nomi composti di una voce verbale (bloccare) e di un sostantivo femminile singolare (ruota) - come abbiamo visto altre volte - non prendono la desinenza del plurale: lo scioglilingua / gli scioglilingua; lo spazzaneve / gli spazzaneve; il portacenere / i portacenere; l'aspirapolvere / gli aspirapolvere; il bloccaruota... i bloccaruota. Si può usare anche come aggettivo, e sempre invariabile: ceppi bloccaruota.


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Sempre a proposito di "lingua biforcuta"

Il caso

Il cardinale Ravasi cita il Vangelo sugli stranieri: e viene riempito di insulti (qui)

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Amici, amanti della "buona lingua", vi sembra corretto, in questo caso, l'uso del verbo "riempire"? A noi, francamente, fa ridere...

lunedì 11 giugno 2018

L'intensificatore (aggettivo)


Cortese dott. Raso,
 le sarei veramente grato se potesse spiegarmi come si riconosce (e che cosa è) un aggettivo cosiddetto intensificatore. La seguo sempre con molto interesse. Grazie in anticipo e un cordiale saluto.
 Giovanni P. 
Vicenza

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Gentile Giovanni, sarò telegrafico. Veda qui.



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Sulla lingua biforcuta della stampa 

Roma, occupato palazzo Nardini da associazioni di artisti   

All'interno del cortile di via del Governo Vecchio sono state portate anche capre, galline, oche e cani
(Qui)
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Ci piacerebbe che i titolisti del quotidiano in rete ci spiegassero come si può/possa ricavare un cortile in una via.

domenica 10 giugno 2018

Rimanere (o restare) col culo per terra

Questa locuzione - dal "sapore" un po' volgare (di cui ci scusiamo) - è nota, in senso metaforico, a quanti hanno subito, purtroppo, un tracollo finanziario, un fallimento. L'espressione si rifà al Medio Evo, quando i falliti e tutti coloro che rifiutavano un'eredità passiva venivano condannati a una singolare pena: dovevano farsi battere il sedere sopra una lastra di pietra, nel centro della piazza principale della località dove era avvenuto il fallimento.

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La parola proposta da questo portale: baderlare. Verbo che vale "indugiare".

sabato 9 giugno 2018

«Grammaticando»... (4)


Abbiamo notato che molte persone danno al verbo “prorogare” un significato che non ha: rimandare, differire, aggiornare, rinviare e simili. Il verbo in oggetto significa “prolungare nel tempo”, “continuare oltre il tempo stabilito”. È usato correttamente, quindi, in frasi tipo “i termini di scadenza sono stati prorogati al 5 settembre” (prima il termine fissato era il 28 agosto, per esempio). Non è usato correttamente, invece, in espressioni tipo “l’udienza è stata prorogata a data da destinarsi”* (come si legge spesso sulla stampa). In questi casi il verbo corretto da usare è “rinviare”, “rimandare”, “aggiornare”. Gli amatori del bel parlare e del bello scrivere cerchino di non cadere in questo… trabocchetto, tollerato da certi vocabolari.

* In questo caso è errata anche l'espressione "da destinarsi": la preposizione "da" davanti a un verbo di modo infinito rende quest'ultimo di forma passiva (che deve essere destinata); la particella "si", quindi, va omessa essendo "compresa" nella preposizione (da).

Dintorno, avverbio e sostantivo. Quando è in funzione avverbiale, con il significato di “intorno”, “da ogni parte”, “tutto in giro”, si può anche scrivere con la “d” apostrofata (d’intorno): gli sedevano tutti dintorno/d’intorno per festeggiarlo. Quando, invece, è in funzione di sostantivo e vale “vicinanza”, “luogo vicino”, la grafia deve essere tassativamente univerbata e si usa, per lo piú, nella forma plurale: i dintorni di Roma; il mio amico abita nei dintorni.

Riguardo a, non riguardo il.  Bisogna dire, correttamente, "riguardo a" perché questa locuzione introduce l'argomento del quale si sta parlano o si parlerà in seguito. Nel linguaggio burocratico si trova spesso "al riguardo" con il significato di "a questo proposito", "su ciò", "di questo" e simili, secondo i casi, naturalmente: la Società si riserva di rispondervi al riguardo. In buona lingua è un uso da respingere recisamente. Si dirà, correttamente: la Società si riserva di rispondervi a questo proposito.

Ritornare "alla francese". È un gallicismo e, per tanto, da evitare l'uso del verbo "ritornare" nelle accezioni di rimandare, ricambiare, rendere, restituire e simili: gentile amico, le ritorno il libro che mi ha prestato. Diremo, italianamente: gentile amico, le restituisco il libro che mi ha prestato.

Salace. Si presti attenzione all'uso di questo aggettivo perché molti gli danno un significato che non ha: arguto, spiritoso, acuto, erudito e simili. Salace* significa, esattamente, eccitante, piccante, osceno, scurrile, libidinoso, indecente e simili. Uno scritto salace, per tanto, non è uno scritto arguto o spiritoso, ma uno scritto volgare, scurrile, libidinoso, indecente.

* Qui e qui.



Due parole sul verbo "interpetrare" che, contrariamente a quanto riportano alcuni vocabolari, non è una forma errata ma una variante di uso prettamente letterario del piú comune "interpretare". Cosí anche per quanto attiene a "interpetre".

venerdì 8 giugno 2018

Curare con il sugo di bosco


Il modo di dire che avete appena letto (nel titolo) è, con molta probabilità, sconosciuto ai piú perché non fa parte del "linguaggio di tutti i giorni". Significa, in senso scherzoso, "prendere a bastonate", "percuotere" e simili. Si adopera, ovviamente in senso figurato,  nei confronti delle persone testarde, che non si lasciano convincere, che restano, insomma, ferme sulle loro posizioni. Il "sugo di bosco" è il legno (degli alberi del bosco) di cui è fatto il bastone e nella locuzione suddetta questo "sugo" è inteso come una sorta di farmaco atto a curare la cocciutaggine delle persone.

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La parola proposta da questo portale: celostomo. Sostantivo maschile. Si dice di persona che ha una voce nasale o gutturale.

giovedì 7 giugno 2018

«Grammaticando»... (3)


Sempre piú spesso capita di leggere, anche di scritti di ottimi autori, "erano le dieci e mezza" e simili, dove quel "mezza" non è corretto. Si deve dire le "dieci e mezzo", il "mezzo" deve rimanere invariato.
 Sperando di non cadere nella pedanteria riassumiamo la regola di "mezzo" in questo modo:
   a) se mezzo precede il sostantivo si comporta da aggettivo, si accorda, cioè, con il nome che segue: mezza mela; mezzo panino;
   b) se mezzo segue un aggettivo numerale accompagnato da un sostantivo resta invariato (perché è un aggettivo sostantivato, ossia sta per la "metà" di un tutto): cinque chili e mezzo di mele; tre chili e mezzo.
Stesso discorso, appunto, per le ore: le dieci e mezzo, cioè le dieci e una "metà" di un'ora.

CI è capitato di leggere, in un certificato medico, "malattia di natura da determinarsi".
A nostro avviso "da determinarsi" è uno strafalcione o, per lo meno, un uso non proprio corretto e la frase va... corretta in "da determinare". La preposizione "da" posta davanti a un verbo di modo infinito rende quest'ultimo di forma passiva (di conseguenza la particella "si" va omessa). Da determinare, vale a dire che deve essere determinata, che si deve determinare.

Due parole due su una locuzione avverbiale in uso il cui... uso non è proprio ortodosso: in effetti. La forma corretta e, quindi, da preferire ‘sarebbe’  “in effetto (di ciò)” che significa realmente, davvero, di fatto e simili: ho ascoltato con la massima attenzione il discorso di Giovanni e in effetto (di ciò, di quanto ha detto) ha ragione.

Agli amatori del bel parlare e del bello scrivere consigliamo di non adoperare i verbi “scordare” e “dimenticare” indifferentemente, anche se i vocabolari attestano i due verbi l’uno sinonimo dell’altro. Senza entrare nel merito prettamente etimologico diciamo che “scordare” significa ‘allontanare dal cuore’ ; “dimenticare”, invece, vuol dire “allontanare dalla mente”. Non si dice, infatti, che il primo amore non si “scorda” mai? (non si allontana dal cuore). In un certo senso si potrebbe dire, quindi, che le cose spirituali si scordano, le cose fisiche si dimenticano (ho ‘scordato’ la poesia; ho ‘dimenticato’ le chiavi).

Gli orchi e gli... orci. Si presti attenzione a questi due termini perché non sono sinonimi e hanno accezioni diverse. Il primo termine è il plurale di orco, vale a dire un mostro spaventoso. Il secondo è il plurale di orcio, un vaso di terracotta.

mercoledì 6 giugno 2018

Tranquillo, amico, ci rivedremo in pellicceria...


Giovanni e Pasquale erano conosciutissimi in tutto il quartiere per le loro bravate: intimorivano i commercianti, infastidivano i passanti e le fanciulle, “scippavano” gli anziani non appena questi uscivano dall’ufficio postale dopo aver ritirato i “quattro soldi” della pensione; erano, insomma, il terrore del rione. Un giorno, non trovandosi d’accordo sull’ultima impresa da compiere, litigarono violentemente e Pasquale che era il piú “duro” si rivolse a Giovanni in malo modo, dicendo: stai tranquillo, oggi è andata cosí, ma non è finita, ci rivedremo in pellicceria! Quest’espressione – probabilmente sconosciuta ai piú – si usa nei confronti di coloro che comportandosi con una certa astuzia e malvagità sono destinati a finire male come i loro… simili. Come nel caso, appunto, di Pasquale e Giovanni, i “bulli” del quartiere. Puccio Lamoni (1), nelle sue note al “Malmantile racquistato” (2) (un poema burlesco), cosí spiega l'espressione: “Questo è il commiato che noi finghiamo che si diano le volpi una con l’altra; perché sapendo che devono essere ammazzate, e le loro pelli vendute, dicono a’ loro figliuoli, quando da essi si separano: a rivederci in pellicceria”.

(1) Pseudonimo di Paolo Minucci
(2) Malmantile 


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La parola proposta da questo portale: trozzo. Sostantivo maschile con il quale si definisce un gruppo di persone armate, perlopiú a scopo sedizioso. Anche qui.

martedì 5 giugno 2018

«Non lucrativo»


Da questo portale abbiamo sempre condannato l’uso dei barbarismi perché la nostra lingua è ricca di vocaboli che fanno alla bisogna per ogni occorrenza. La stampa, imperterrita, continua a... “propinarceli” a ogni piè sospinto. Pazienza. Li adoperi, però, correttamente. Le pagine economiche dei quotidiani sono piene di “no-profit” la cui grafia corretta è, invece, nonprofit. Questo profit deriva dal latino proficere che significa “avvantaggiare” ed è confluito nella lingua anglosassone tra il Cinquecento e il Seicento per poi tornare, “imbarbarito”, in patria. Il vocabolo indica, in genere, quelle organizzazioni che nella loro missione non hanno come fine ultimo il raggiungimento del profitto (“avvantaggiarsene”): il termine piú adoperato è not for profit. Un’azienda, quindi, è nonprofit quando l’utile che consegue non è ripartito tra i soci ma reinvestito nella sua attività.



Non profit è una locuzione giuridica di derivazione  inglese a sua volta derivata dal latino che significa senza scopo di lucro e si applica ad  organizzazioni i cui avanzi di gestione utili sono interamente reinvestiti per gli scopi organizzativi. In italiano si traduce generalmente con non lucrativo o non a scopo di lucro.

(da Wikipedia)



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La parola proposta da questo portale: inzampognare. Verbo che vale "infinocchiare", "ingannare" e simili. Si veda anche qui.

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Troppi errori di grammatica, il Comune corre ai ripari con un corso di italiano per gli italiani

lunedì 4 giugno 2018

Giovare e giovarsi

Vittorio Coletti, in un pregevole articolo, spiega l'uso corretto dei verbi citati nel titolo.
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La parola proposta da questo portale, ripresa dal Palazzi: affocalistiare. Verbo transitivo, adoperato dai pittori per indicare il procedimento da seguire al fine di nascondere le imperfezioni. Si veda anche qui.


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Un dizionario etimologico consultabile in rete.

domenica 3 giugno 2018

«Grammaticando»... (2)

Due parole due sull’uso corretto di alcune preposizioni: “sotto”; “sopra”; “contro” e “dopo”. Tutte e quattro sono preposizioni improprie che “esigono”  la  “collega”  ‘di’ quando sono seguite da un pronome personale: sotto ‘di’ me; sopra ‘di’ voi; contro ‘di’ noi; dopo ‘di’ loro. Quando, invece, sono seguite da un sostantivo rifiutano categoricamente la “di ” o qualunque altra preposizione: sopra  “la” casa; contro  “il” nemico; sotto  “il” letto. Si uniscono, insomma, direttamente al sostantivo tramite, naturalmente, l’articolo. Alcuni vocabolari, però... e alcuni scrittori, per mero  “snobismo linguistico” adoperano la preposizione  “a” e scrivono, per esempio, sopra  “a” noi; sotto “al” letto e via dicendo. Chi vuole scrivere correttamente non segua questi esempi poco ortodossi linguisticamente.

È improprio l’uso del termine conseguente nell’accezione di coerente e simili (anche se questo “uso” ha la benedizione di qualche vocabolario). Il vocabolo significa che vien dietro a qualcosa. Non scriveremo o diremo, quindi, sii conseguente con quello che dici ma, correttamente: sii coerente con quello che dici.

Due parole due sul verbo “perdonare” perché abbiamo notato che non tutti sanno che può essere transitivo e intransitivo e con accezioni diverse. Nel primo caso ha il significato di condonare e si costruisce con il complemento oggetto: la legge non perdona le infrazioni. Nel secondo caso sta per risparmiare, avere riguardo e si costruisce con il complemento di termine: la morte non perdona a nessuno.



Giusta, preposizione impropria e prefisso. Come preposizione vale conformemente, secondo ed è di uso burocratico: giusta (secondo) la disposizione ministeriale; in funzione di prefisso significa vicino, accanto e richiede tassativamente il raddoppio della consonante della parola iniziale alla quale si unisce: giustapposto, participio passato di giustapporre (messo accanto, messo vicino).

  

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: etrioscopio. Sostantivo maschile con il quale si indica un apparecchio per "misurare" la frescura del primo mattino. Si veda anche qui.