sabato 2 maggio 2020

La disgregazione di una lingua e di un'identità


Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo


In difesa dell'italiano, eroso dagli anglicismi, ogni tanto qualcuno scende in campo, mosso dal legittimo desiderio di difendere la lingua nazionale; anche perché questa è il legame più forte che esista tra gli abitanti della penisola, spesso tormentati e divisi da una miriade di fattori conflittuali locali e nazionali.


Occorre dire che la capitale d’Italia, Roma, non è mai stata il centro linguistico del Paese come ad esempio Parigi è per la Francia. Nella penisola vi sono poi i dialetti, molto cari agli italiani, i quali hanno tutti un forte legame con il proprio angolino di terra e la sua parlata locale. La nostra identità, in effetti, poggia su un forte sentimento di attaccamento al paesello, alla cittadina, alla regione di provenienza. Questa appartenenza locale è molto più forte dell’attaccamento che noi in genere proviamo nei confronti dell’Italia tutt’intera.

Sul sentimento unitario nazionale, inoltre, agiscono negativamente i fattori divisivi dell’ideologismo, del contrasto Nord-Sud, del campanilismo e persino delle rivalità calcistiche. Un altro fattore che è di ostacolo a un normale sentimento di dignità e di unità nazionale è l’esterofilia, cui si accompagna uno sterile e ridicolo “compiacimento autodenigratorio” assai diffuso tra gli abitanti della penisola.

I dialetti hanno perso forza rispetto a un passato ancora recente. Il numero dei parlanti il dialetto diminuisce a vantaggio della lingua nazionale: lingua della pubblicità, del governo, della “modulistica”, della TV, dei giornali… I dialetti perdono la loro ricchezza d’origine a causa anche dei modi di vita non più legati all’angolino di nascita del parlante.

È da rilevare che la carica di autenticità, emotività, immediatezza posseduta dal dialetto non si è trasferita all’italiano, nato quest’ultimo soprattutto come lingua utilitaria ossia come strumento necessario per andare al di là dell’ambito familiare e dell’angolino di terra d’origine. Anche perché la lingua toscana, così aderente alle cose della vita, ha perso terreno nei confronti di un italiano di tipo amministrativo veicolato dalle istituzioni, dalla TV, e da coloro il cui idioma di nascita non era il toscano. A questo proposito stimo utile citare il commento inviatomi da un insigne studioso, Giovanni Caselli:

"La sola lingua italiana paragonabile al francese o all’inglese era la defunta lingua toscana. Infatti non esiste storicamente che la lingua toscana derivata dalla lingua di Dante e che mio nonno contadino parlava. Poi sono arrivati scrittori napoletani e abruzzesi che per campanilismo rifiutarono la lingua di Dante e infine Mike Bongiorno che segnò la morte di una gloriosa lingua. La lingua italiana è stata sputtanata dagli scrittori non toscani per motivi campanilistici.

Se la lingua italiana ha oggi il vocabolario più piccolo di ogni altra lingua non c’è da meravigliarsi e non mi meraviglio che i semianalfabeti, per scarsezza di vocabolario, attingano dall’inglese, che poco conoscono e per nulla sanno pronunciare."

L’italiano è, nella penisola, per molti anzi per moltissimi ormai, lingua materna; ma si tratta di una “madre” troppo collettiva e dai figli troppo disparati per riuscire ad esprimere un forte senso d’intimità tra coloro che la parlano, come invece avviene con il dialetto. Questo, anche se appare ostico e cacofonico a orecchie estranee, accarezza l’orecchio di chi lo ha imparato da bambino. Tanto è vero che il criterio del “suona bene” non è un criterio rigorosamente obiettivo per giudicare dell'eufonia del dialetto, che infatti esprime sempre musica armoniosa per chi l’ha avuto in eredità dai padri.

La lingua nazionale dà un forte contributo al senso di appartenenza e di comunanza di destino tra  coloro che la parlano vivendo entro gli stessi confini: i confini della Patria. Sarebbe doveroso e direi normale, pertanto, un minimo d’amore per il proprio paese e di rispetto per coloro che vennero prima di noi, onorando la lingua nazionale da loro trasmessaci.

La lingua italiana è assai simile a un fiume il cui letto sia stato in parte deviato e i cui argini siano stati soverchiati da rigagnoli, flussi, scarichi provenienti non solo dall’esterno dell’invaso ma addirittura d'oltreoceano. E difatti questa nostra lingua a causa del ricorso spesso ridicolo ed inutile di termini inglesi mal capiti e mal pronunciati diviene sempre più un “italianese”, idioma incontestabilmente comico che gli italiani trovano invece confacente al loro sentire.
Il non rispetto della lingua nazionale, con l’uso grottesco che in Italia, governo, organi d’informazione, intellettuali, e autorità di ogni ordine e grado in testa, fanno degli straripanti anglicismi è anche una conseguenza dello spirito d’indisciplina che ci contraddistingue come popolo. È inevitabile: la nostra refrattarietà alle regole è rivolta anche alle regole di grammatica e soprattutto alla regola basica che vorrebbe che gli italiani, governo e popolo, parlino l’italiano e non una lingua rabberciata: l’“italianese”, come è chiamata questa nostra nuova lingua nazionale farcita di termini e locuzioni inglesi. A ciò si aggiunge il fatto che siccome la lingua è un potente segno identitario collettivo, gli italiani, i quali in maggioranza sono imbevuti di spirito antinazionale, e godono nel proclamarsi "cittadini del mondo" (ma con il culto dello spaghetto al dente, della gesticolazione a tutto campo e del parlare spesso urlando)  manifestano un sentimento di fedeltà assai incerto nei confronti del prezioso bene collettivo che è la lingua dei padri. Ai frutti dell’indisciplina si aggiungono quindi i frutti dell’esterofilia.
Ma non basta. Vi è un ulteriore fattore “smobilitante” che danneggia la nostra lingua-bandiera. Esso è costituito dalla giustificazione “politica” invocata a difesa di questo sbracamento linguistico antinazionale, visto dai nostri “progressisti” come un generoso impegno antinazionalista e pertanto meritevole di approvazione e di appoggio.

Durante il ventennio fascista le autorità combatterono i forestierismi in favore della "purezza" della lingua nazionale. Ma diedero talvolta prova di zelo eccessivo. Il che sembrerebbe legittimare, oggi, l'atteggiamento opposto. Secondo i nostri benpensanti, difensori del "pensiero unico" da esprimere con una lingua unica il più possibile "internazionale", chi lotta contro la propria lingua dimostrerebbe apertura di spirito e senso democratico. Peccato solo che il troppo stroppia, specie quando il troppo equivale ad un’autocastrazione, come mi pare lecito definire quest’azione diretta alla disgregazione della nostra lingua nazionale e di conseguenza della nostra stessa identità.





















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