Dai giornali: “Lo smart working deve
diventare la regola…”. Ma cos’è questo “smart working”? Per gli
italiani è il “telelavoro” ovvero il “lavoro da casa”, il “lavoro
a distanza” reso possibile dalla telecomunicazione. Sempre dai giornali:
“Smart working obbligatorio per tutti ma a 11 milioni di italiani manca la
connessione”. Io non vedo come uno
spazzino potrà da casa sua, servendosi del computer, spazzare strade e piazze.
Ma il magico inglese maccheronico degli italiani sembra rendere tutto
possibile. La produttività in Italia non ha fatto che declinare in questi
ultimi lustri? In Italia si pensa che adottando lo “smart working” il
lavoratore della penisola riuscirà a recuperare, rimanendo a casa, il tempo fin
qui da lui perduto sul posto di lavoro.
In realtà, “smart working” indica nella lingua
originaria inglese il semplice lavorare in modo molto razionale in maniera da
aumentare i risultati e risparmiare gli sforzi. Certo che la tecnologia è
d’aiuto in questi casi, ma persino due taglialegna che sfruttando la coordinazione
del proprio lavoro riescono ad abbattere piu’ alberi in meno tempo fanno dello “smart
working”. Un altro esempio di “smart working” è quello del “lavoro
flessibile”, ossia di un lavoro i cui orari essendo elastici agevolano gli impegni familiari del lavoratore. Quindi “smart
working” ha un significato molto ampio in inglese poiché si riferisce al “lavorare
in maniera intelligente”, e non semplicemente al lavorare da casa usando la
tecnologia, come intendono gli italiani.
La Crusca propone “lavoro agile” al
posto di “smart working”. Ma l’espressione “lavoro agile” appare
adatta a descrivere più il lavoro
circense o quello dei borseggiatori che il lavoro fatto da casa col computer.
Ma cosa volete: “lavoro agile” è la traduzione in italiano sbagliata di
un’espressione inglese, “smart working”, intesa anch’essa in senso
sbagliato.
Il
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: “Lo Smart Working (o Lavoro
Agile) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato
caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o
spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita
mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il
lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la
crescita della sua produttività”.
Una
definizione di smart working molto più sintetica: “Lavorare da remoto
(usando ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone).” La perla
linguistica “lavorare da remoto” che i nostri burocrati usano al posto
di “lavorare da lontano”, “lavoro a distanza” sembra introdurre la nozione di un
“aldilà” lavorativo di cui certo non sospettavamo l’esistenza.
Il vero e proprio lavoro da casa è chiamato dagli
anglofoni “work, working from home”, “work-at-home”,“remote working”,
“telework”, “teleworking”, “telecommuting”, etc . I francofoni, da parte loro, usano il
termine “télétravail”.
Perché gli italiani non usano allora “telelavoro”
oppure “lavoro da casa”, “lavoro a distanza” invece di “smart
working”? Per la stessa ragione per cui chiamano “rider” il
galoppino o fattorino in bicicletta e “writer” il graffitaro o
imbrattamuri: usano un inglese mal masticato e mal inteso che dà loro, pero’,
un gran godimento.
A questo punto allora io oserei proporre un termine
inglese molto appropriato: “smart-ass”. Non c’è che dire: gli italiani
si rivelano degli “smart-ass” nel loro scimmiottamento della parlata
americana. E difatti essi parlano di “flash mob” per designare il divertente teatrino canoro dalle finestre
e dai balconi, che avviene in questi giorni di
forzata reclusione collettiva causata dal coronavirus.
Concludendo su una nota un po’ più ottimistica, osservo
con soddisfazione che in questo teatrino improvvisato in cui si suona e si
canta, e che non è un “flash mob”, è assente il lugubre “rap”, altra
manifestazione della ridicola fregola imitativa che infetta la Penisola.
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