sabato 28 maggio 2022

Sedere a scranna


 Gli amici lettori che ci onorano della loro attenzione sanno benissimo che non perdiamo occasione per fustigare gli operatori della carta stampata e no, i quali con i loro articoli fanno scempio della nostra bella lingua: abbiamo sempre sostenuto la tesi – e non ci interessa punto se ci ripetiamo – secondo la quale gli addetti all’informazione oltre che “informare”, appunto, debbono dispensare la “cultura linguistica” e ciò non avviene quasi mai. Anzi, senza il quasi.

Costoro fanno di tutto per storpiare la lingua confondendo le idee alle persone sprovvedute, nonostante i reiterati appelli dell’accademia della Crusca per un uso corretto della lingua di Dante.

L’ultima smarronata – ultima si fa per dire – è di qualche giorno fa: “Il deputato regionale ***  costretto ad abbandonare lo scranno”. Dov’è cotanto errore? Si dirà. Nel vocabolo scranno, che in buona lingua italiana non esiste. Diciamo subito, con buona pace dei soliti bastian contrari, che alcuni vocabolari registrano questa voce, ma ciò non toglie che l’uso sia scorretto o, per lo meno, raro e, quindi, da evitare. La voce corretta è “scanno”. Lo scanno (senza la “r”) propriamente vale “sgabello”, “panchetto” e discende dal latino “scamnum” (senza la consonante “r”, come si può ben vedere) divenuto in lingua volgare, l’italiano, “scanno”, appunto, per l’assimilazione della “m” e la trasformazione della desinenza “u” in “o”. Chi vuol parlare e scrivere correttamente deve rispettare, quindi, l’etimologia del termine e dire “scanno”. Un esempio stupendo lo abbiamo in alcuni versi di Dante: “così diversi scanni in nostra vita / rendono dolce armonia tra queste rote”. Ma anche nel Muratori, studioso di filologia, abbiamo un bellissimo esempio: “L’ignoranza occupava non solamente i bassi, ma anche i più sublimi scanni”.

A questo punto cerchiamo di trovare una spiegazione sull’uso “scorretto” e dilagante, ahinoi, di “scranno”. L’unica spiegazione possibile si può far risalire alla corruzione popolare del vocabolo “scranna” e fatta propria da alcuni dizionari della lingua italiana. La scranna, infatti, è un sinonimo di scanno ma, al contrario di quest’ultimo, è di origine barbara essendo il longobardo “skranna” (panca).

Originariamente era una sedia dottorale, di legno, con braccioli e con spalliera molto alta. E con questo preciso significato il termine si è mantenuto nella locuzione figurata “sedere a scranna”, vale a dire assumere un tono dottorale, ergersi a giudice di qualcuno o qualcosa senza averne l’autorità, ma soprattutto la capacità. Anche in questo caso abbiamo un esempio eccelso del divin toscano: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta di una spanna?”.

Concludendo, quindi, diciamo e scriviamo “scanno” o “scranna”, lasciando lo scranno solo a color che vogliono… sedere a scranna.

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La lingua "biforcuta" della stampa

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Ancora una prova (qualora ce ne fosse bisogno): i redattori titolisti non rileggono ciò che scrivono.






(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi: saranno prontamente rimosse)








1 commento:

V.Ppnr ha detto...

La migliore analisi relativa all'uso dei vocaboli trattati (scanno, scranno, scranna) si può trovare - e non è un caso - sul sito dell'Accademia della Crusca.
Informa e dispensa cultura linguistica, senza tirarla tanto per le lunghe.
Vittorio Pepe