Dal dr Claudio Antonelli riceviamo e pubblichiamo
Il coronavirus ha aggiunto al nostro vocabolario
nuovi anglicismi: cluster, lockdown, smart working… Ha popolarizzato parole
poco usate: virologo, infettivologo, epidemiologo, sanificare… Ha alterato
subdolamente il significato di altre: goccioline, isolamento, distanze sociali,
gregge, tampone... Ha dato un senso ristretto a certi termini fino allora “asintomatici”:
curva, focolaio, guanti, mascherine... Oggi una curva pericolosa è per tutti
una curva ascendente. In Italia si è bizantineggiato
sul termine “congiunti” contenuto nel Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri (DPCM). Ci si è chiesti: il fidanzato è un congiunto? No , ma è una
persona cui si è legati da “affetti stabili” – il Governo ha decretato. E la nozione di “affetti stabili” è divenuta
importante per i reclusi, seclusi, confinati del coronavirus, desiderosi di
uscire dalla tana. Molti, a dire il
vero, hanno sofferto ancor di più per la
carenza di affetti instabili e fugaci, in un periodo tanto lungo di coesistenza
forzata con la propria moglie.
Prima non c’erano parole che battessero in popolarità “condivisione”. Tutti
ci tenevano a condividere. Poi la condivisione è divenuta tabù. E i muri e la porta di casa sono tornati ad
essere il focolare domestico da difendere ad ogni costo contro i focolai
d’infezione.
«Tenere
alta la guardia!», «Mai abbassare la guardia!». Di fronte a un coronavirus che
richiede soprattutto l’efficienza della guardia medica, simili espressioni
hanno perso incisività e senso d’emergenza, anche per il troppo uso che se n’è
fatto. Al loro posto più d’uno usa espressioni come «Non allentiamo la presa!»,
«Non bisogna mollare la presa!» o ancora
«Non bisogna mollare!» .Tutte espressioni valide, ma una cosa è sicura: mai pronunciare «Boia
chi molla!» slogan condannato dalla storia.
A Bruxelles,
la polizia ha fatto irruzione in un appartamento e ha multato severamente gli
occupanti: 25 maschi impegnati in un’orgia gay. Il reato contestato ai presenti?
Aver violato le norme che in tempo di pandemia interdicono gli assembramenti e
limitano il numero degli invitati a un festino.
Che mi sia
permessa ora un’annotazione linguistica. Il coronavirus ha riattualizzato la
celebre frase che Pierre Trudeau, primo ministro del Canada, pronunciò nel 1968
in relazione al progetto di legge C-150: “Nous
n’enverrons pas de police dans les chambres à coucher pour voir ce qui se passe
entre adultes majeurs, consentants, en privé. […] Nous sortons l’idée de péché
du Code criminel.” Ebbene, in questi tempi di coronavirus gli “adultes
consentants” non possono più sbizzarrirsi in camera da letto se superano
l’assai ridotto numero di presenze oggi consentito dalle normative antivirus.
L’espressione
francese “adultes consentants”, ai quali adulti ogni acrobazia sessuale è
permesso, è stata messa in crisi dal coronavirus. In Italia, del rispetto delle
loro scelte di vita beneficiano invece non gli “adulti consenzienti” ma gli
“adulti vaccinati”. La lingua italiana presenta, quindi, un’inaspettata
superiorità su quella francese, grazie appunto al suo “adulti vaccinati”, alle
cui ammucchiate omo o etero sessuali né il coronavirus né la polizia possono
fare un baffo. E i 25 adulti di Bruxelles partecipanti all’orgia erano, sì, "consenzienti"
ma non ancora “vaccinati". E hanno così dovuto pagare il prezzo della loro
trasgressione igienico-sanitaria.
Una parola divenuta
trionfalmente di moda, in seguito alla pandemia, è criticità. Ormai tutti
ricorrono a questo termine che ha il vantaggio di coniugare la vaghezza
semantica e l’ufficialità. Dai giornali: “Vantaggi e criticità delle lezioni a
distanza”, “Coronavirus, il punto sulle criticità…” , “Coronavirus,
monitoraggio Rt: lieve aumento ma in Italia situazione ‘a bassa criticità’”,
“Sul tappeto ci sono tante criticità e problematiche da seguire.”
Ma cosa significa “criticità”?
Vuol dire “situazione critica”, “punto critico”, “carattere critico”,
“difficoltà”, “disfunzione”, “punti di debolezza”, “inconvenienti”… È un
termine quasi da linguaggio burocratico, e questo spiega la sua popolarità in un Paese come l’Italia dove alla parola
chiara e concreta, usata da sempre, si preferisce il termine evocante il
linguaggio degli addetti ai lavori chiusi nelle stanze del potere.
“Problema”, anche per chi
parla del problema delle proprie emorroidi, è sostituito ormai da
“problematica”. A “metodo” molti preferiscono “metodica” che fa più
scientifico. La "valenza" ha sostituito il
"valore", sempre più raro del resto in Italia. “Tipologia”
insidia “tipo”. Mi è capitato di trovare il termine
“emozionalità” al posto di emozione. Da
anni “programmazione” e “programma” sono stati rimpiazzati in Tv dal più nobile
"palinsesto", termine che per me fa tanto crollo dell'impero romano.
Prima non
c’erano parole che battessero in popolarità « condivisione ». Tutti
ci tenevano a condividere. Oggi, la condivisione è tabu. I muri e la porta di
casa sono tornati ad essere il focolare domestico, da difendere ad ogni costo
contro l’“Altro”, il “Diverso”: potenziale focolaio d’infezione.
L’emergenza causata da questo morbo invisibile che si trasmette soprattutto
attraverso il contatto o il “quasi contatto” fisico ha spinto le autorità dei
vari paesi ad imporre il “distanziamento sociale”. Formula quest’ultima
adottata in tutte le lingue – “social distancing”, “distanciation sociale” –
evocante però una realtà politico-sociologica che ha poco a che vedere con il
virus. L’espressione “distanziamento sociale” dovrebbe essere accoppiata a
“distanza interpersonale”, “distanziamento fisico”; in tal modo quel “sociale”
perderebbe la sua connotazione sociologica per designare invece chiaramente la
prossimità fisica sia individuale sia di gruppo, nelle feste e festicciole,
riunioni, assembramenti.
Ai giorni nostri, quando sul Web masse
di esibizionisti si tolgono anche le mutande mettendo ben in evidenza
oltre alle loro impudenti pudende il loro viso gongolante di soddisfazione
esibizionistica, il mettersi la maschera è ormai divenuto un obbligo. E,
nell’epoca degli insulti urlati, oggi è doveroso trattare il prossimo con i
guanti mantenendo le distanze. Dopo tutto “noblesse oblige”, perché questo è un
virus che porta una corona…
“Focolaio” era un termine che fino a ieri riscaldava il cuore. In un tempo
ormai lontano la famiglia si riuniva, si raccoglieva, si stringeva intorno al
focolare. Lì si parlava del presente, del passato e del futuro famigliare.
Si raccontavano storie, si ricordavano eventi reali ma anche eventi religiosi,
mitici, fantastici…
Dimora, nido, magione, focolaio,
focolare erano termini che evocavano i valori tradizionali, le virtù
domestiche, gli affetti familiari, la continuità, la condivisione. Dal
periodico La Voce del cuore di Gesù (Napoli 1892): “Tutta l’antichità proclama che il focolaio domestico è sacro al pari di
un santuario”. Nella poesia “Il focolare”, Giovanni Pascoli esprime così
la serenità del focolare domestico "non
li scalda il fuoco, ma quel loro soave essere insieme."
Questo fino a ieri. Oggi il termine
focolaio è associato a “infezione”. Pronunciando la parola focolaio si pensa
subito a un “focolaio d’infezione”. Lo stringersi, il “soave essere insieme”,
il “condividere” là dove c’è un “focolaio” rischierebbero di condurci difilato
al pronto soccorso. E purtroppo anche gli ospedali sono talvolta dei veri
focolai nel senso luttuoso del termine.
Anche questa perdita d’innocenza della
parola “focolaio”, un tempo a noi tanto cara, è un altro dei tanti danni del
coronavirus.
Generazione interrotta
Fino a ieri abbiamo avuto una sequela di
generazioni “perdute” o “sacrificate”, per usare queste espressioni pregnanti
molto care ai catastrofisti della stampa. Ogni generazione è stata proclamata perduta,
almeno una decina di volte e per le cause più disparate e ormai
dimenticate. Con il coronavirus abbiamo
oggi la “generazione interrotta”, per riprendere questo sintagma che trovo
molto indovinato. Proprio così: anch’io come tanti altri mi sento “interrotto”.
Spero solo che l’interruzione non duri troppo a lungo, perché noi a lungo non
dureremo…
Indice di riproduzione
Il tasso di
riproduzione in Italia è di nuovo alto. No, non l’indice di natalità che è
quasi da cimitero, ma il fattore di propagazione del virus o tasso di
contagiosità. Quest’ultimo è rappresentato dalla sigla Rt indicante la media
dei contagi di cui è capace un infettato.
Supertrasmettitori
del virus sono certi individui che hanno una vita notturna vivace, con incontri
ravvicinati, in locali affollati dove si canta, si balla, si urla, ci si tocca
e anche ci si bacia. Sono edonisti, amanti della trasgressione, che cercano
d’incontrare partner fugaci per brevi incontri erotici, dai quali non nascono
certamente figli. Nella Corea del Sud molti sono rimasti infettati
frequentando, di nascosto dalla famiglia e dagli amici, questi club
particolari.
Cosa dire su
questo “indice di riproduzione” rappresentato dal “valore” Rt, il quale è molto
alto in Italia e negli altri paesi in cui figli non se ne fanno più?
Semplicemente questo: il “valore” Rt, così alto da noi, indica semplicemente che
i “valori” sono veramente cambiati.
Si ricorre oggi al termine “negazionisti” per designare
coloro – sono una minoranza ma una minoranza vociante – che negano o
minimizzano il pericolo mortale del coronavirus, questo male assoluto causante
un numero così alto di decessi che non si ricorre più all’inumazione delle
salme ma ai forni crematori. Bisognerà comunque fare attenzione all’uso di certi
termini…
Quarantena e quarantina
Quando ci riferiamo
all’isolamento imposto dal coronavirus, noi, Italiani del Nord America, abbiamo
tendenza a usare il termine “quarantina” invece di “quarantena”. È un errore di
vocabolario. Ma cosa volete: quarantina suona meglio di quarantena. E per
l’Italiano, anche per l’Italiano espatriato, ciò che conta è il “suona bene”.
Anch’io, ormai giunto a una
certa età, preferirei dire “sono sulla quarantina” invece di “sono in
quarantena”. Ma non posso dirlo, perché l’anagrafe non me lo permette. In
inglese abbiamo invece l’implacabile “quarantine” da cui non si scappa. Gli
anglofoni, quindi, non confondono gli anni di età – forties, early 40s,
mid-40s, late 40s – con la “quarantine” imposta da quel morbo Covid 19 che
tanto ci ammorba.
Sanificare
Invece del verbo “disinfettare”, oggi si preferisce usare “igienizzare”, o
meglio ancora “sanificare”, termine esprimente l’idea che noi diventeremo
sani e felici dopo l’operazione di “disinfezione” pardon di “sanificazione”.
Sanifichiamo dunque gli ambienti, perché così rimarremo sani. Io rinuncio
comunque fin d’ora alla “santificazione”, alla quale, se il coronavirus dovesse
raggiungere nei miei confronti il suo malefico intento, avrei senz’altro
diritto per i miei tanti meriti, di cui vi risparmio il lungo elenco…
Scostamento
In Italia si è parlato di scostamento.
Io pensavo che lo scostamento fosse il distanziamento che ci è imposto per
evitare il contagio. “Lei si tiene troppo vicino a me. Non rispetta la distanza
di sicurezza. La pregherei di scostarsi…” Ma così come l’indice di riproduzione espresso dalla sigla Rt
non è un indice di natalità bensì è un indice di contagio, anche lo scostamento
ha un tutt’altro significato. “Scostamento” si riferisce al bilancio, ossia
alla manovra finanziaria. Ma non mi avventuro oltre nello spiegarvi questo
“scostamento di bilancio”, espressione con cui i nostri gran manovratori si
riempiono la bocca, ma di cui io non ho capito un bel nulla.
Spread
“Spread” è inteso in Italia
soprattutto in senso negativo. Ormai anche chi non è un esperto di finanza sa
che “spread” significa divario fra due quotazioni di un titolo o due tassi di
interesse. Un divario che penalizza l’Italia nei confronti di altri paesi più
virtuosi come la Germania.
Gli Italiani in grande maggioranza
ignorano un altro significato di spread, quello di diffusione: la diffusione
del virus. Fortunatamente c’è anche “to spread” che significa “spalmare”. Uno
spalmare associato al burro in Canada e alla Nutella in Italia.
Speriamo che tutto vada per il verso
giusto nel prossimo futuro facendo sì che quest’ultimo “spread” abbia
linguisticamente la meglio sui primi due “spread”, molto meno appetitosi.
Varianti
Dai Giornali: “Umbria in
ginocchio per la variante Covid Brasiliana.” La pandemia tra i tanti suoi mali
ha avuto quello di dare una connotazione negativa a un vocabolo nobile:
“variante”.
“Diversità”, “differenza”,
“varianti”, “variazioni” fino a ieri erano vocaboli cui noi associavamo una
realtà piacevole. “Il mondo è bello perché è vario”, “La diversità è la forza
della nostra società”, gorgheggiavano i “cittadini del mondo” avidi di “altro”,
“diverso”, diversità”, “varianti”. Ma ecco che il virus muta e si presenta a
noi con le sue varianti, tutte peggiori del ceppo d’origine. Si parla finora della
variante inglese, sudafricana, brasiliana … Spero di non scandalizzare dicendo
che in Italia gli amatori del “diverso” apprezzavano la variante brasiliana,
ben presente di notte nei luoghi frequentati dalle lavoratrici del sesso. Oggi
dalla variante brasiliana è meglio star lontani anche se si è adulti e
vaccinati, perché con lei il contagio è più rapido, e anche perché sembra che
il vaccino nei suoi confronti sia meno efficace.
3 commenti:
Ho smesso di leggere quando ho trovato dei pezzi in francese senza traduzione. Ma non era un blog di lingua italiana questo?
Accuso il colpo. Si rimetta dallo choc linguistico e riprenda la lettura.
Ecco la traduzione delle righe francesi incriminate: "Noi non manderemo la polizia nelle camere da letto per vedere cosa succede tra adulti maggioranni e consezienti, in privato. [...] Noi rimuoviamo l'idea del peccato dal Codice penale."
Prometto che nel futuro faro' come tutti gli Italiani: faro' ricorso all'inglese, visto che la lingua italiana è divenuta lingua italo-americana: "There's no place for the state in the bedrooms of the nation. What's done in private between adults doesn't concern the Criminal Code."
Rimanendo nell'ambito dell'impatto del coronoavirus sul nostro vocabolario, ecco una mia analisi del termine italiano "tampone" raffrontato ai termini francesi e inglesi, molto piu' precisi e chiari, usati in relazione al test di accertamento del virus.
Tampone, tamponare, test, testare, dépistage, screening.
Tutti gli italiani ormai conoscono il significato di “tampone”. I verbi variano. Innanzitutto fare, ma anche praticare, eseguire, effettuare il tampone, sottoporre al tampone. È invalso anche il verbo “tamponare” nel senso di “fare il tampone”. Ma pochi lo usano, per non creare incidenti linguistici…
Prima del coronavirus, il termine “tampone”, in campo medico farmaceutico, indicava semplicemente il bastoncino, l’asticella con all’estremità un batuffoletto compatto di cotone idrofilo che serve ad eseguire prelievi di sangue o di secrezioni organiche. Indicava, insomma, quell’oggetto che gli inglesi chiamano “swab” e i francesi “écouvillon” o “tampon”.
Nella lingua italiana, oggi, “tampone” indica non solo il bastoncino ma l’operazione di prelievo della secrezione organica per accertarsi della presenza o dell’assenza del virus. E non di un qualunque virus, ma del coronavirus. Sarebbe stato molto più semplice, per rispetto della lingua italiana, ricorrere ad altri termini, se non altro perché il fabbricante di tamponi non potrà più dire “io faccio i tamponi”, dal momento che nel senso particolare che l’espressione “fare i tamponi” ha ormai acquisito, lui non “fa” ma “fabbrica”, “produce”, “crea” i tamponi.
Quanto più precisa e ricca è la lingua francese in relazione ai test da coronavirus: “faire le test de la Covid”, “dépister le virus…”, “dépistage de la Covid-19”, “clinique de dépistage…”, “test rapide de dépistage covid”. In italiano si puo’ far ricorso a un baillame di termini, nessuno dei quali è però incisivo e univoco: accertamento, individuazione, rilevazione, identificazione del coronavirus… Questo spiega il trionfo di “tampone”.
Anche noi abbiamo “depistare”, “depistaggio”, come in francese, ma in italiano questi termini indicano lo “sviare”, il “mettere fuori pista” e non lo “stanare”, lo “scovare” del termine francese “dépister”. E proprio perché in italiano non esiste un termine capace di sostituirlo, i nostri dizionari contengono la parola francese “dépistage”. Io vorrei, invece, che si desse ufficialmente al nostro “depistaggio” anche l’accezione francese.
Oltre al termine francese “dépistage”, i dizionari italiani contengono il termine inglese “screening”. Entrambi questi termini sono usati anche in italiano. L’inglese ha inoltre il termine “test”, da cui “testing”, “testing center”, “to get tested”… E “test” è ormai parola anche italiana.
Ritorniamo all’italiano e al suo misero tampone. Ma perché non usare per il coronavirus “test” e “testare”? Dire “test col tampone” o “test del tampone” sarebbe, secondo me, un parlare chiaro e preciso. Si potrebbe dire “testare”, “sottoporre a test”, “fare il test del tampone”. Probabilmente, alle orecchie degli italiani, sensibilissimi ai suoni, “tampone” suona meglio di test e di testare.
E così, in italiano, è tutto un trionfo del sostantivo tampone, retto dai verbi più svariati, ma soprattutto da “fare”. “Fare il tampone” in genere significa quasi esclusivamente “sottoporsi al tampone”, ma potrebbe dopo tutto significare “sottoporre a tampone”…
All’anima della precisione e della chiarezza linguistica… Ma una lingua che identifica con un generico “nipote” sia il “nipote di zio’” che il “nipote di nonno” in fondo ben merita il suo “tampone”.
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