martedì 2 febbraio 2021

San Francesco e San Tommaso visti da Dante


 Dal prof. Aldo Onorati, dantista, riceviamo e volentieri pubblichiamo

  

È il settimo centenario della morte del nostro maggior Poeta. Ogni studioso di Dante porta un contributo all’immenso edificio della critica. Per quanto mi riguarda, voglio parlare di un argomento che mi sta molto a cuore: come l’Alighieri descriva san Francesco e di quanto egli si distacchi dalla teologia di san Tommaso.

    Al proposito, la storica Società Editrice Dante Alighieri (e mi scuso per la pubblicità, ma vuol essere solo una segnalazione semmai qualche lettore fosse interessato al tema) mi ha pubblicato, a gennaio, un breve libro dal titolo: “San Francesco e San Tommaso visti da Dante: una rivisitazione problematica”, con introduzione di Massimo Desideri e prefazione di Fabio Pierangeli dell’Università di Roma Tor Vergata. Perché “una rivisitazione problematica”?

    Sarebbe lunga la spiegazione, in quanto dovrebbe partire dalla “fortuna” della Commedia (per “fortuna”, si sa, viene inteso l’iter esegetico dell’opera dell’autore in vita e post mortem). Ebbene, basti dire che nel 1380 il cardinale Del Poggetto, adirato contro Dante dopo aver letto il suo Monarchia, fece bruciare l’opera dai domenicani in piazza a Bologna (anzi, voleva disseppellire i resti mortali dell’Alighieri per metterli sul rogo).

    Il fatto che il Sommo Poeta ponga all’Inferno qualche papa e diversi prìncipi della Chiesa in un’epoca in cui la Santa Inquisizione lavorava alacremente, la dice lunga sul coraggio del Nostro Padre. Ma poiché Petrarca fu preferito a lui nei secoli successivi alla sua dipartita, fino a metà Settecento (il Seicento vide solo tre edizioni del Poema Sacro), il Fiorentino dava meno fastidio perché sembrava che il suo “viaggio ultraterreno” cedesse “l’indice di gradimento” al Canzoniere, il quale divenne il testo esemplare soprattutto per la lingua, specie dal Cinquecento, quando il dittatore delle lettere, Pietro Bembo, vietò di imitare lo stile di Dante. Bembo era Cardinale.

  Tuttavia, poiché la Storia è lunga e rivede le cose, col Romanticismo l’Alighieri balzò a fondatore di civiltà e nacque il culto di Dante, in Germania. Allora si corse ai ripari, cercando di leggere la Commedia forzandone talvolta i significati “ad usum delphini”.

    Ciò premesso, il secolo da poco passato e i nostri giorni hanno trovato il coraggio di interpretare Dante fuori degli schemi. Allora, la prima domanda che mi sono posto è la seguente: perché l’Alighieri punta solo sulla povertà di Francesco, tralasciando quasi del tutto le altre virtù del Santo? Bisogna immettersi nei tempi in cui visse il Divino Poeta.

     La Chiesa non disdegnava le ricchezze, tanto che sorsero diverse “eresie” che volevano rivivere il dettato evangelico soprattutto in spirito di paupertas. Francesco operò in questo senso, ma restando al di dentro dell’istituto religioso cattolico. La necessità di una svolta la intuirono due grandi papi: Innocenzo III e Onorio III, i quali approvarono la regola francescana (il primo a parole; il secondo per iscritto). Il sogno profetico del pontefice che scorge un fraticello salvare dal crollo la basilica di San Giovanni in Laterano si avvera grazie all’azione del Poverello d’Assisi. E Dante era un “terziario francescano”, un fustigatore dei costumi corrotti di taluni vescovi e cardinali (e papi) i quali guardavano di più alla teologia della gloria che a quella della Croce.

     La cupidigia, che il Poeta simboleggia con la lupa  (la più pericolosa delle tre fiere incontrate nella selva oscura), era una realtà nell’ambito dei vertici ecclesiastici. Ecco che Dante sottolinea la grande rivoluzione di Francesco, il quale sposa Madonna Povertà rimasta vedova dalla morte di Cristo, il primo marito. Nessuno aveva voluto congiungersi in nozze con lei, perché la miseria è peggio della morte. Dante scrive che, al momento della crocefissione, solo la “sposa” salì con Cristo sulla croce, mentre la stessa Maria Vergine “rimase giuso”.  Quindi è un monito, quello del Poeta, nel soffermarsi soprattutto sulla prima virtù del Santo: la povertà evangelica.

    La seconda parte del mio breve testo, esamina il pensiero precedente a san Tommaso d’Aquino, nel difficile rapporto fede-ragione. Basta la seconda per arrivare a Dio e comprenderlo? È sufficiente aver fede per capire il mistero? La questione non era risolvibile, tanto che Tommaso, il maggior filosofo della Scolastica, cercherà una via di conciliazione.

     Leggiamo quanto scrive Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Fides et Ratio (1998), e capiremo lo sforzo di tenere sullo stesso piano i due termini che potrebbero essere, per taluni, antitetici: “La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, argomentava Tommaso; perciò non possono contraddirsi fra loro. Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la Grazia suppone la natura e la porta a compimento, così la fede suppone e perfeziona la ragione”.

    Dante è più chiaro in questo. Anche se nello scritto del papa trapela che la fede ingloba la ragione, tuttavia Dante è più esplicito. Cito alcuni versi dal terzo canto del Purgatorio: “Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer l’infinita via/ che tiene una sustanza in tre persone./ State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria…” Senza la Rivelazione, l’uomo resterebbe a un certo livello di conoscenza e non oltre, tant’è vero che i versi successivi parlano degli sforzi fatti da Aristotele e Platone, senza concludere nulla sul piano escatologico. Ma non basta questa esplicita dichiarazione.

    Anche nel simbolismo, nell’allegoria, possiamo leggere chiaro il pensiero del Poeta. Virgilio è emblema della ragione. Accompagna Dante fino al Paradiso Terrestre e poi scompare, ma a un certo punto del percorso, interviene Stazio, simbolo della fede, a sorreggere la ragione (Virgilio) in prossimità del Paradiso Terrestre. Da lì, la teologia (Beatrice) guiderà il Pellegrino in Paradiso.

    Ma anche qui avviene una modifica significativa: davanti alla Madonna, nell’Empireo, Beatrice lascia il posto a san Bernardo di Chiaravalle, allegoria del misticismo. Egli, e non la teologia, rivolge la preghiera alla Vergine perché ammetta Dante alla visione di Dio. La fede è sopra la stessa teologia che si avvale della speculazione razionale.




 












(Il testo è disponibile anche in e-book e costa 8 euro.)


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