La mia amica Preposizione mi ha
detto della sua squisita disponibilità ad accogliere lettere aperte destinate
agli amanti del bel parlare e del bello scrivere. Certo, quindi, di non
rimanere deluso chiedo anch’io un po’ di spazio. Questo Paese, egregio
Direttore — come lei mi insegna — si dice democratico e in una democrazia —
sempre come lei mi insegna — ciascuno può esprimere liberamente le proprie
idee. Ho fatto questa premessa in quanto sono sicurissimo del fatto che quanto
sto per esternare farà storcere la bocca ai numerosissimi soloni della lingua.
Ma io, con il suo permesso, me ne infischio, vado avanti e vengo al dunque.
Sono il prefisso Retro e come specifica chiaramente il mio stesso nome, e come riportano alcuni vocabolari, servo per la formazione di parole composte derivate dal latino o formate modernamente per indicare un movimento all’indietro o una posizione arretrata, in senso temporale o spaziale, rispetto a un altro oggetto o fatto rappresentato dall’elemento al quale sono prefissato come, per esempio, in retrocedere, retroguardia, retroattivo, retromarcia.
Mi sembra superfluo specificare, inoltre, che i miei natali sono nobili discendendo dall’avverbio latino retro (all’indietro, di dietro, dietro). E qui, purtroppo, nascono i problemi sulla mia... sessualità. Non amo essere un transessuale; una volta sono di sesso maschile, una volta di sesso femminile secondo la "capocchia" di chi mi adopera. Il mio sesso, vale a dire il mio genere, deve essere lo stesso di quello del termine al quale sono prefissato. Diremo, per tanto, la retrobottega non il retrobottega perché bottega è, appunto, di genere femminile. Coloro che dicono il retrobottega dovrebbero, per coerenza, dire anche il retromarcia o il retroguardia. Non vi pare? Così non è, però; allora perché questa discriminazione? Volendo trovare a tutti i costi una giustificazione si potrebbe ipotizzare il fatto che molti — senza saperlo — dicono il retrobottega per analogia con il locale: il vano dietro la bottega; o anche per effetto della sua abbreviazione, il retro, il cui uso — discutibilissimo — è estremamente comune. Retro, adoperato assoluto, cioè da solo, perde il valore di prefisso (io, infatti, non mi riconosco in lui) e diventa un sostantivo che sta per deretano.
C’è da dire, però — per amore della verità — che da solo Retro ha anche un significato più nobile: si adopera, infatti, in numismatica per indicare la faccia di una medaglia ma anche per indicare il dietro di un foglio. Tornando al mio uso corretto — cioè al prefisso — adoperatemi, quindi, secondo logica. Se sono prefissato a un nome maschile usate l’articolo maschile, se sono prefissato a un sostantivo femminile adoperate l’articolo femminile: il retroaltare; la retrobottega.
Ho notato, in proposito, che alcuni vocabolari per certe parole sono salomonici, per altre, invece, sono categorici. Mi spiego. Prendiamo il termine retroscena. Per alcuni dizionari il vocabolo è salomonicamente bisessuale o, se preferite, ermafrodito: il retroscena e la retroscena. Retrobocca, invece, categoricamente maschile. La bocca, fino a prova contraria, è di genere femminile. Se questo termine composto (retrobocca) non si vuole classificare di genere femminile lo si faccia, per lo meno, bisessuale: il retrobocca e la retrobocca. Perché due pesi e due misure?
Cosa ha da dire, in proposito, la Crusca? Approva questa aberrante discriminazione? Non attendo, certo, una risposta; però... non si sa mai. Tornando al o alla retroscena, non approvo affatto i distinguo che fanno certi vocabolari per giustificare la bisessualità del termine: femminile se indica la parte del palcoscenico che rimane invisibile agli spettatori; maschile, invece, per indicare ciò che accade dietro la scena e soprattutto, in senso figurato, l’insieme dei maneggi occulti che si nascondono dietro un affare.
Io, amici, ribadisco il fatto che desidero avere lo stesso sesso del sostantivo cui sono prefissato: la retrobottega. Grazie dell’attenzione e un caro saluto a tutti.
Il vostro amico
Prefisso Retro
Sono il prefisso Retro e come specifica chiaramente il mio stesso nome, e come riportano alcuni vocabolari, servo per la formazione di parole composte derivate dal latino o formate modernamente per indicare un movimento all’indietro o una posizione arretrata, in senso temporale o spaziale, rispetto a un altro oggetto o fatto rappresentato dall’elemento al quale sono prefissato come, per esempio, in retrocedere, retroguardia, retroattivo, retromarcia.
Mi sembra superfluo specificare, inoltre, che i miei natali sono nobili discendendo dall’avverbio latino retro (all’indietro, di dietro, dietro). E qui, purtroppo, nascono i problemi sulla mia... sessualità. Non amo essere un transessuale; una volta sono di sesso maschile, una volta di sesso femminile secondo la "capocchia" di chi mi adopera. Il mio sesso, vale a dire il mio genere, deve essere lo stesso di quello del termine al quale sono prefissato. Diremo, per tanto, la retrobottega non il retrobottega perché bottega è, appunto, di genere femminile. Coloro che dicono il retrobottega dovrebbero, per coerenza, dire anche il retromarcia o il retroguardia. Non vi pare? Così non è, però; allora perché questa discriminazione? Volendo trovare a tutti i costi una giustificazione si potrebbe ipotizzare il fatto che molti — senza saperlo — dicono il retrobottega per analogia con il locale: il vano dietro la bottega; o anche per effetto della sua abbreviazione, il retro, il cui uso — discutibilissimo — è estremamente comune. Retro, adoperato assoluto, cioè da solo, perde il valore di prefisso (io, infatti, non mi riconosco in lui) e diventa un sostantivo che sta per deretano.
C’è da dire, però — per amore della verità — che da solo Retro ha anche un significato più nobile: si adopera, infatti, in numismatica per indicare la faccia di una medaglia ma anche per indicare il dietro di un foglio. Tornando al mio uso corretto — cioè al prefisso — adoperatemi, quindi, secondo logica. Se sono prefissato a un nome maschile usate l’articolo maschile, se sono prefissato a un sostantivo femminile adoperate l’articolo femminile: il retroaltare; la retrobottega.
Ho notato, in proposito, che alcuni vocabolari per certe parole sono salomonici, per altre, invece, sono categorici. Mi spiego. Prendiamo il termine retroscena. Per alcuni dizionari il vocabolo è salomonicamente bisessuale o, se preferite, ermafrodito: il retroscena e la retroscena. Retrobocca, invece, categoricamente maschile. La bocca, fino a prova contraria, è di genere femminile. Se questo termine composto (retrobocca) non si vuole classificare di genere femminile lo si faccia, per lo meno, bisessuale: il retrobocca e la retrobocca. Perché due pesi e due misure?
Cosa ha da dire, in proposito, la Crusca? Approva questa aberrante discriminazione? Non attendo, certo, una risposta; però... non si sa mai. Tornando al o alla retroscena, non approvo affatto i distinguo che fanno certi vocabolari per giustificare la bisessualità del termine: femminile se indica la parte del palcoscenico che rimane invisibile agli spettatori; maschile, invece, per indicare ciò che accade dietro la scena e soprattutto, in senso figurato, l’insieme dei maneggi occulti che si nascondono dietro un affare.
Io, amici, ribadisco il fatto che desidero avere lo stesso sesso del sostantivo cui sono prefissato: la retrobottega. Grazie dell’attenzione e un caro saluto a tutti.
Il vostro amico
Prefisso Retro
***
Gli
operatori dell'informazione continuano, imperterriti, a ignorare le
"disposizioni linguistiche" dell'Accademia della Crusca (e dei
vocabolari).
Roma, la vigilessa: "Così
ho inseguito e bloccato il pirata della strada"
Il femminile "raccomandato" è "la
vigile", come la preside, la giudice, la presidente ecc. In proposito è
interessante la "Nota d'uso" di Sapere.it: (De Agostini): Il nome vigile, secondo le
normali regole della lingua italiana, è maschile o femminile secondo se si
riferisce a uomo o a donna: il vigile, la vigile. È in uso anche vigilessa, che però può avere anche tono scherzoso o valore
spregiativo, come tradizionalmente hanno avuto diversi femminili in -essa. Alcuni poi
preferiscono utilizzare il nome vigile al maschile anche per una donna. Si tratta di una
scelta che non ha basi linguistiche, ma sociologiche, e che comunque può
creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze. Il vigile urbano può avere
nomi diversi a livello regionale: per esempio ghisa a Milano (per allusione scherzosa al cappello alto e
rigido della divisa tradizionale), civico in alcune regioni dell’Italia settentrionale e pizzardone a Roma. Si
tratta però di denominazioni antiquate, sempre meno usate se non quando si vuol
fare del “colore locale”.
Nessun commento:
Posta un commento