“E’ con gioia che…” Tutti i periodi che cominciano con una
forma impersonale sono impropri e non si debbono adoperare in buona lingua
italiana. Non si dica e non si scriva (ci rivolgiamo soprattutto agli operatori
dell’informazione), per esempio, “è stato per te che l’ho fatto” ma,
correttamente, “l’ho fatto per te”. Oltre tutto non è più facile e…
“orecchiabile” la forma corretta?
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Tutti i giornali, quelli sportivi in
particolare, scrivono “gimcana” (con tanto di “m”) in luogo della “più
corretta” forma ‘gincana’ (con la “n”). Quest’ultima grafia, invece, è da
preferire (essendo “più corretta”) perché più vicina all’etimologia del
termine: l’indostano “gendkana”. Non lo sostiene l’illustre “signor nessuno”,
estensore di queste modeste noterelle, ma Aldo Gabrielli, la cui fama di “padre
della lingua” è nota a tutti. Nel suo vocabolario illustrato della lingua
italiana possiamo, infatti, leggere: “Inutili le forme ‘gimcana’ e (peggio,
ndr) ‘gimkana’. In origine campo di gioco destinato a vari esercizi di ginnastica;
oggi comunemente gara all’aperto, composta di giochi d’abilità e di destrezza;
gare automobilistiche o motociclistiche con percorso capriccioso e con ostacoli
stravaganti, corse nei sacchi, esercizi di equitazione eccetera. Dall’inglese
‘gymkhana’, derivato dell’indostano ‘gendkana’, composto di ‘gendu’ (palla) e
‘khana’ (campo di gioco), alterato sull’inglese ‘gymnastics’ (ginnastica).
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Contrariamente
alla consolante credenza, la verità non trionfa mai: un errore diventato di
dominio pubblico si perpetua; le opinioni si trasmettono ereditariamente come i
terreni – ci si costruisce – il tutto finisce col diventare una città.
Questa massima di Remy de Gourmont si può benissimo riferire alla nostra (amata e nel contempo bistrattata) lingua: la verità linguistica non trionfa mai; un errore diventato di dominio pubblico grazie alle “grandi firme” viene – per così dire – legalizzato finendo col fare la storia (errata) del nostro bellissimo idioma. Una prova? Quante “grandi firme” sanno, per esempio, che i sostantivi derivati da aggettivi terminanti in “re” si scrivono senza l’inserimento della vocale “e” nel corpo della parola? Leggiamo sempre “elementarietà”, “complementarietà”, “titolarietà” e via dicendo, con tanto di “e”, appunto, dentro la parola. Bene. Anzi, male, malissimo: quella “e” è maledettamente errata. Le forme corrette sono, per l'appunto, 'elementarità',' complementarità', 'titolarità'.
Questa massima di Remy de Gourmont si può benissimo riferire alla nostra (amata e nel contempo bistrattata) lingua: la verità linguistica non trionfa mai; un errore diventato di dominio pubblico grazie alle “grandi firme” viene – per così dire – legalizzato finendo col fare la storia (errata) del nostro bellissimo idioma. Una prova? Quante “grandi firme” sanno, per esempio, che i sostantivi derivati da aggettivi terminanti in “re” si scrivono senza l’inserimento della vocale “e” nel corpo della parola? Leggiamo sempre “elementarietà”, “complementarietà”, “titolarietà” e via dicendo, con tanto di “e”, appunto, dentro la parola. Bene. Anzi, male, malissimo: quella “e” è maledettamente errata. Le forme corrette sono, per l'appunto, 'elementarità',' complementarità', 'titolarità'.
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