mercoledì 30 aprile 2025

Sciacquando le parole: stupire o stupefare?

 

 I verbi "stupire" e "stupefare" appartengono alla medesima area semantica e trasmettono la sensazione di sorpresa, ma con intensità diverse. Ambedue derivano dal latino: "stupire" ha origine da ‘stupēre’, che designa uno stato di meraviglia o attonimento, mentre "stupefare" nasce dalla combinazione di ‘stupeo’, (presente indicativo di ‘stupere’) "essere sbalordito", e ‘facere’, "fare", suggerendo quindi un'azione che provoca un senso di stupore negli altri.

N
ella nostra lingua italiana "stupire" è più comune e delicato, associato alla meraviglia e alla sorpresa positiva. Si “mette in campo” quando qualcosa affascina o colpisce per la sua bellezza, originalità o eccezionalità. Nel Leopardi, per esempio, troviamo il verbo nella celebre Ginestra: "E stupisce, e rispetta il suo stato"; qui il poeta descrive la condizione umana di fronte alla natura e al tempo.

"S
tupefare", invece, ha un impatto più forte e può suggerire incredulità o sbalordimento. Quando qualcosa "stupefà", lascia senza parole e provoca una reazione intensa. Nel Decameron di Boccaccio spesso si trova il verbo in racconti in cui eventi inaspettati travolgono i personaggi: "Rimase stupefatto a tanta bellezza e ingegno", qui il protagonista è colpito al punto da perdere ogni facoltà di risposta immediata.

Q
uesti verbi, insomma, si adattano al parlare quotidiano in modi diversi. Dire "mi ha stupito la sua generosità" esprime una sorpresa piacevole e genuina, mentre "mi ha stupefatto la sua trasformazione" designa un cambiamento sorprendente e fuori dall’ordinario. Anche in ambito poetico e narrativo la scelta tra i due può modulare l’intensità del discorso: da una meraviglia spontanea a un impatto quasi incredulo.

Nella contemporaneità, l’uso di questi verbi si è evoluto, soprattutto nel giornalismo e nei “social media”. Gli editorialisti, molto spesso, utilizzano stupefacente per enfatizzare un evento sconvolgente o incredibile. Un giornale, per esempio, potrebbe scrivere Stupefacente scoperta: un nuovo esopianeta simile alla Terra!, mentre nei “social media” l’espressione Non ci stupisce più nulla è diventata quasi ironica, indicativa di un mondo che ci bombarda sempre più di informazioni straordinarie al punto da renderle quasi ordinarie.

Infine e concludiamo, possiamo notare l’influenza di questi verbi nel linguaggio pubblicitario. Spesso i marchi cercano di "stupire" i consumatori con innovazioni sorprendenti e campagne memorabili, mentre il termine stupefacente può avere un’associazione più forte e decisamente impattante, a volte legata persino a contesti farmacologici.




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lunedì 28 aprile 2025

L'enigma della lingua: offrire o oltrepassare? Un viaggio nelle profondità del lessico, tra ambiguità, confini e antichi segreti grammaticali

 


N
el Regno della Lingua, un luogo dove le parole avevano vita propria e venivano scelte con cura, vivevano due cugini molto particolari: Porgilo e Sporgilo. Entrambi discendevano da un’antica stirpe linguistica, ma col tempo il loro destino prese strade diverse, portandoli a incarnare significati distinti.

Porgilo era l’alfiere della cortesia e della misura. Quando un ambasciatore arrivava, porgeva i saluti con raffinata eleganza. Se un amico necessitava di aiuto, porgeva la mano con gentilezza. Mai invadente, sempre discreto, il suo motto era: "Ecco a te, con rispetto e grazia." La sua origine lo rendeva un campione di cortesia: dal latino ‘porrigere’, composto da ‘por-’ (variante di ‘pro-’ che indica "avanti") e ‘regere’ ("tendere, distendere"). Fin dalle sue origini, dunque, significava tendere qualcosa verso qualcuno, dunque un’azione misurata, volontaria e direzionata.

S
porgilo, invece, era un tipo vivace e intraprendente, incapace di rimanere fermo nei confini della compostezza. Se c’era un balcone, si sporgeva per vedere meglio. Se costruiva una casa, le terrazze sporgevano oltre il limite della facciata. Il suo motto? "Oltre il limite, più in là!" Ma la sua natura non era un’intensificazione di Porgilo. Il verbo sporgere, infatti, affonda le sue radici nel latino ‘exporrigere’, dove ‘ex-’ rafforza il significato di protendersi oltre. Qui la differenza è chiara: mentre ‘porrigere’ indica l’atto di offrire qualcosa in modo controllato, ‘exporrigere’ designa un movimento che supera il limite naturale, che esce fuori rispetto a un confine.

U
n giorno, il re, sua maestà Grammatica, celebre per la sua passione per la chiarezza espressiva, invitò i due cugini alla cerimonia di presentazione delle credenziali del nuovo ambasciatore. Porgilo, con il suo consueto garbo, porse una pergamena con le parole di benvenuto, mentre Sporgilo, incuriosito, si sporse da dietro il trono per vedere meglio il volto del diplomatico. Il re, divertito, colse l’occasione per una lezione importante: "Ecco la perfetta dimostrazione! Porgilo offre con rispetto, mentre Sporgilo supera un confine. Uno è un gesto volontario e misurato, l’altro è un movimento che va oltre!"

P
er rendere la distinzione tra i due cugini ancora più chiara, raccontò un aneddoto tramandato dai saggi della Biblioteca delle Parole Perdute. Durante una storica battaglia diplomatica, un re straniero ricevette un messaggio che avrebbe deciso la sorte di un prigioniero. Il testo recitava: "Si può porgere grazia, impossibile condannarlo."

M
a a causa di un errore di trascrizione di un copista la virgola fu spostata: "Si può porgere grazia impossibile, condannarlo."

L’
equivoco, purtroppo, costò caro: invece di ricevere clemenza, il prigioniero fu condannato, dimostrando che porgere non significava semplicemente “dare”, ma offrire con intenzione e misura, e che un minimo errore poteva ribaltare il significato di un’intera sentenza. Sporgilo, che fino ad allora aveva ritenuto la propria azione solo un’intensificazione di Porgilo, capì finalmente la sua vera natura. Lui non offriva, ma si spingeva oltre, superava i limiti. Il suo modo di essere era ben lontano dalla cortesia controllata del cugino.

Da quel giorno, nel Regno della Lingua, nessuno confuse più porgere con sporgere. Porgilo rimase il maestro dell’offerta gentile, colui che tende con misura e intenzione, mentre Sporgilo divenne il signore dell’espansione, colui che si protende oltre il limite. E così, la chiarezza vinse sulla confusione, e nel regno le parole vennero usate e misurate con la dovuta attenzione.

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

La tela della Meloni e il ruolo da pontiere tra Europa e Usa: "L'Italia è centrale"

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In buona lingua italiana (non cispadana): ruolo di pontiere. La preposizione “di” specifica il ruolo.  





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sabato 26 aprile 2025

Anellare e inanellare: quando l'uno e quando l'altro?

 

 Il verbo "anellare" deriva dal sostantivo "anello", il cui etimo risale al latino "anellus", diminutivo di "anus", che significa "cerchio" o "forma circolare". L'origine richiama quindi la forma caratteristica dell'anello, simbolo di continuità e circolarità. Analogamente, "inanellare" ha un’origine strettamente legata a "anello", con il prefisso "in-" che conferisce al verbo un'accezione di movimento o azione specifica, spesso indirizzata verso l’idea di mettere qualcosa in una sequenza di anelli.

L
e sfumature di significato dei due verbi, pur avendo una radice comune, si distinguono attraverso il loro uso in contesti specifici. "Anellare" si riferisce, più propriamente, al creare o disporre qualcosa in forma di anelli. Può indicare, per esempio, un movimento che avvolge, oppure una disposizione fisica, come nella frase: "Il fumo dell'incenso anellava l'aria, formando spirali delicatissime." Qui, il verbo "anellare" acquisisce un aspetto poetico, evocando l’immagine di cerchi sovrapposti e in movimento.

"I
nanellare", invece, estende il suo uso anche a un campo figurativo. Non si limita all’idea di disposizione in cerchi, ma si carica di una sfumatura dinamica, come l’atto di collegare elementi in sequenza, creando continuità. Questo verbo si presta bene nelle espressioni metaforiche e simboliche, come: "Ha inanellato una serie di successi nella sua carriera, dimostrando una dedizione impeccabile." Qui "inanellare" suggerisce l’idea di un percorso progressivo e continuo, in cui ogni successo è parte di una catena ben definita.

U
n'altra differenza emerge nei contesti più tecnici: il verbo "anellare" viene utilizzato in ambito botanico per descrivere la pratica dell'anellazione, una tecnica che consiste nel rimuovere un anello di corteccia per favorire specifici sviluppi nella crescita della pianta. "Inanellare", al contrario, è meno legato a usi specialistici e mantiene una versatilità espressiva nella comunicazione quotidiana.

U
n dettaglio curioso e affascinante sul linguaggio corrente: gli anelli non vengono “indossati” (come si legge e si sente dire), ma "calzati", proprio come si fa con un guanto o una scarpa. Questo termine sottolinea la perfetta simmetria tra l'oggetto e il corpo che lo accoglie, aggiungendo eleganza e precisione alla descrizione.

U
n esempio comparativo può aiutare a cogliere meglio la sfumatura tra i due verbi. Immaginiamo una collana fatta di perle: se si descrive l'azione di infilare ogni perla come "inanellare", si pone l’accento sulla progressione e sulla successione degli elementi. Se si parla di "anellare", l’attenzione si sposta più sulla forma circolare del filo o sulla disposizione delle perle.

I
n conclusione, sebbene "anellare" e "inanellare" siano legati dall'etimo e abbiano significati sovrapponibili in determinati contesti, le loro sfumature offrono un ricco ventaglio di applicazioni che spaziano dal tecnico al figurativo, dal poetico al quotidiano. La loro forza espressiva risiede proprio nella possibilità di evocare immagini e idee che oscillano tra il concreto e l’immaginario, arricchendo l’italico idioma di una profondità unica.


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La lingua “biforcuta” della stampa

Le scarpe nere (e consunte) che ha sempre indossato: così Francesco ha voluto essere sepolto

Una scelta d'altronde coerente con il suo pontificato e come si è sempre presentato ai fedeli, sugellato dalla decisione di essere sepolto “nella terra nuda” nella Basilica di Santa Maria Maggiore.

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Le scarpe “si calzano”, non “s’indossano”. Indossare e calzare.

 Correttamente: suggellato (doppia ‘g’).



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martedì 22 aprile 2025

Pelare non è sbucciare. Combattiamo un abuso linguistico


 Il verbo "pelare" ha origini precise e un significato ben delineato. Derivato dal latino tardo pĭlare, che a sua volta trae origine da pĭlus (pelo), "pelare" si riferisce all'azione di togliere il pelo o la pelliccia da un animale. Questo senso è chiaro e specifico, ed è il fondamento su cui si basa l'uso corretto della parola. La precisione semantica è cruciale per preservare la ricchezza della lingua italiana.

Lungo il cammino della storia linguistica, tuttavia, l'uso di "pelare" si è esteso impropriamente al contesto degli alimenti, dove spesso si vuole indicare l'azione di "sbucciare" o "spellare" frutta e verdura. Questo slittamento d'uso, benché ormai comune, rappresenta un errore, poiché confonde ambiti semantici distinti e può creare ambiguità. Il termine "sbucciare" indica chiaramente la rimozione della buccia; mentre "spellare" enfatizza la rimozione di uno strato superficiale che somiglia alla pelle.

Un esempio eloquente di questo uso improprio è la diffusa espressione "pomodori pelati". Sotto un profilo linguistico assai rigoroso, i pomodori non posseggono peli e, pertanto, non possono essere "pelati". Il verbo corretto in questo contesto è "spellare" o, in certi casi, "sbucciare", poiché si rimuove la sottile pellicola esterna che li ricopre. L'uso corretto consente di evitare confusioni e garantisce una comunicazione più precisa.

Per chiarire meglio, ecco alcuni esempi pratici: "La cuoca sta pelando il coniglio per prepararlo alla cottura." (Uso corretto: togliere il pelo); "Stasera spelliamo i pomodori per la salsa." (Uso corretto: togliere la pelle); "Per la macedonia, sbuccia le arance e i mandarini." (Uso corretto: togliere la buccia).

L'improprietà semantica è evidente quando si utilizzano espressioni come "pelare le patate" o "pelare le mele". In realtà, le patate vengono "sbucciate" e le mele altrettanto, poiché l'elemento che viene rimosso è la buccia. Per evitare confusioni, è bene prediligere i termini più appropriati e specifici.

Infine, mantenere la distinzione tra "pelare", "sbucciare" e "spellare" non è soltanto una questione di correttezza formale, ma un gesto d'amore verso la nostra lingua, che merita di essere usata con precisione e rispetto. Ogni parola ha il suo ambito e la sua funzione: mantenerli distinti significa arricchire la comunicazione e onorare l'eredità linguistica che abbiamo ricevuto dai nostri padri.


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La lingua “biforcuta” della stampa

“Mi diede un compito, deitalianizzare la Sala Stampa”. Parla la prima portavoce donna di Papa Francesco

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Secondo la lingua di Dante e di Manzoni: disitalianizzare. Ci può essere la prima portavoce uomo?  



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domenica 20 aprile 2025

Il dono pasquale del piccolo passero

 In un piccolo villaggio, circondato da colline verdi, viveva Pio, un passerotto. Non era un uccello forte né appariscente, ma aveva un cuore grande e gentile. Con l’arrivo della Pasqua, il villaggio si preparava a celebrare la rinascita, ma quell’anno una gelida primavera aveva portato carestia e tristezza.

P
io osservava gli abitanti: il panettiere, che non aveva farina per cuocere il pane; il contadino, che piangeva sui campi aridi; e i bambini, i cui occhi brillavano di fame più che di gioia. Il piccolo passero desiderava fare qualcosa, ma era solo un uccellino con poco da offrire.

Q
uella notte, mentre tutti dormivano, Pio pregò con tutto il cuore. "Dio, dammi la forza per aiutare questo villaggio. Non posso portar loro cibo o denaro, ma donami ciò che serve per portare speranza."

A
ll’alba, un bagliore dorato avvolse il piccolo passero. Le sue piume si trasformarono in fili d’oro puro, e, sapendo che era un dono divino, Pio volò di casa in casa, lasciando piccole piume d’oro davanti alle porte. I contadini usarono quell’oro per comprare i semi, i panettieri per procurarsi la farina, e i bambini ricevettero uova decorate, simbolo di nuova vita.

Q
uando il sole tramontò, Pio, ormai senza piume, si posò su un ramo nudo. Era debole, ma il suo cuore traboccava di gioia. L’intero villaggio si era riunito, portando con sé cibo e coperte. In quella Pasqua, sotto un cielo stellato, gli abitanti del villaggio promisero di prendersi cura l’uno dell’altro, proprio come il piccolo passero aveva fatto con loro.

I
l sacrificio di Pio divenne una leggenda, e ogni Pasqua, il villaggio celebrava non solo la rinascita, ma anche l’amore e la generosità che legavano tutti in un unico, luminoso abbraccio.


Buona Pasqua, amiche e amici del portale




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sabato 19 aprile 2025

Diritto d’autore, abbattiamo l’ambiguità: 'coperto' è la parola sbagliata


 Nella nostra bella e musicale lingua italiana precisione e chiarezza sono fondamentali, particolarmente quando ci si muove in ambiti tecnici, accademici o legali. In questi contesti ogni parola assume un peso specifico e ogni scelta lessicale può influire sull'interpretazione di un concetto. Per questo motivo chi scrive consiglia caldamente di evitare l'espressione "coperto dal diritto d'autore" in favore della forma più accurata "protetto dal diritto d'autore". Questa scelta non è solamente una questione stilistica, ma riguarda anche e soprattutto la trasmissione esatta dell'intento e del significato del messaggio.


I
l verbo "proteggere" affonda le sue radici nel latino ‘protegere’, che si compone di ‘pro-’ (davanti) e ‘tegere’ (coprire). L'etimologia stessa del lemma richiama l'idea di "mettere al riparo" o di "difendere attivamente". Questo verbo, dunque, porta con sé un significato forte e inequivocabile, che rimanda a una tutela concreta e intenzionale. Quando si parla di diritto d'autore il termine "protetto" sottolinea chiaramente la funzione di salvaguardia esercitata dalle norme a tutela delle opere creative.

A
l contrario, il verbo "coprire", dal latino ‘cooperire’, che significa "ricoprire" o "nascondere", sebbene abbia un significato molto ampio e variabile, non “veicola” in modo diretto l'idea di protezione attiva. Suggerisce, piuttosto, l’idea di un'azione di inclusione o di occultamento, che può risultare ambigua e non del tutto adeguata quando si tratta di descrivere il rapporto tra un'opera e il diritto d'autore. Utilizzare "coperto" in questo contesto potrebbe far pensare – secondo chi scrive - che l'opera sia semplicemente "compresa" nel diritto d'autore, senza evidenziare il livello di protezione legale offerto.

I
l diritto d'autore, infatti, non si limita a "ricoprire" le opere, ma agisce concretamente al fine di tutelare i diritti dei creatori, assicurando che il loro lavoro venga riconosciuto, rispettato e preservato da utilizzi non autorizzati. Dire che un'opera è "protetta dal diritto d'autore" significa, quindi, evidenziare il ruolo attivo del sistema legale nella sua salvaguardia. Ciò rende l'espressione "protetto dal diritto d'autore" più precisa, appropriata e chiaramente comprensibile.

È
importante sottolineare, infine, che il linguaggio giuridico, per sua natura, deve essere il più possibile privo di ambiguità, non deve dare adito a “differenti” interpretazioni. Ogni termine utilizzato in documenti legali o in contesti formali deve rispecchiare con esattezza il concetto che si intende esprimere. Per questo motivo, "protetto dal diritto d'autore" è la scelta più consigliabile e in linea con la funzione protettiva del diritto stesso, mentre "coperto" rischia di generare fraintendimenti.

C
oncludiamo queste noterelle ribadendo che la forma corretta e preferibile è "protetto dal diritto d'autore". Questa non è una semplice sfumatura linguistica, ma una questione di chiarezza, precisione e aderenza ai principi fondamentali della comunicazione in ambiti specialistici.



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venerdì 18 aprile 2025

Quando le parole ammaliano: La magia di 'Incantare'

 


Il verbo polisemico "incantare" è uno di quei termini che sembrano contenere una magia intrinseca, non solo per le sue accezioni, ma anche per la sua origine e per il modo in cui ha acquisito sfumature diverse col trascorrere del tempo. Proviene pari, pari dal latino ‘incantare’, composto da ‘in-’ (rafforzativo) e ‘cantare’ (cantare). Il significato originale, pertanto, era strettamente legato all'idea del canto come strumento per esercitare poteri magici o recitare formule incantatorie. Nell'antichità, il suono della voce umana, specialmente se modulato in canti o litanie, era ritenuto un mezzo capace di influenzare il mondo circostante, sia sul piano fisico sia su quello spirituale (o morale). Da questo nucleo primitivo, "incantare" ha sviluppato, con il tempo, una ricchezza di significati che lo rendono straordinariamente versatile.


N
el senso più antico e specifico il verbo in oggetto conserva tuttora un legame con la magia, intesa come l'atto di sottoporre qualcuno o qualcosa a un incantesimo. Frasi come "La strega incantò il castello" evocano scenari suggestivi e fiabeschi, dove il verbo assume la sua accezione più letterale. Questo uso, sebbene meno comune nel linguaggio corrente, persiste nella letteratura, nel folclore e nelle narrazioni fantastiche, mantenendo vivo il suo fascino arcaico.

C
on il trascorrere del tempo, "incantare" ha acquisito, però, un significato più figurativo e universale, che è quello di affascinare profondamente, suscitare un senso di meraviglia o catturare l'attenzione in modo irresistibile. Questo uso è riscontrabile in espressioni come "Il paesaggio incantava chiunque lo osservasse", dove non vi è alcun potere magico in gioco, ma solo la forza della bellezza o dell'intensità emotiva. Allo stesso modo, possiamo dire che un artista "incanta il suo pubblico" quando la sua ‘performance’ è talmente coinvolgente da assorbire completamente l'attenzione degli spettatori, lasciandoli sospesi in uno stato di ammirazione pura.

U
n'altra sfumatura, molto interessante, del verbp si manifesta nella sua capacità di descrivere il potere della parola o della musica. Frasi come "Il suo discorso incantava gli ascoltatori" o "Il violino incantava con la sua melodia" rimandano all'idea che suoni, parole o emozioni possano esercitare un'influenza ipnotica. Questo uso riconduce simbolicamente alle origini del verbo, richiamando il potere evocativo del canto e della voce umana.

"I
ncantare" può inoltre essere adoperato per designare uno stato di rapimento o sorpresa positiva. Quando si dice, pere esempio, "Rimase incantato davanti a quella scena", si evoca l'immagine di qualcuno colto di sorpresa e immerso in un momento di contemplazione, come se il tempo si fosse fermato. In questo caso, l'accento è posto sull'effetto, più che sull'azione, mostrando come il verbo sia in grado di rappresentare sia chi agisce sia chi subisce la meraviglia.

I
n tutte le sue accezioni, insomma, "incantare" conserva una connessione profonda con l'idea di qualcosa che trascende il quotidiano e ci avvicina a un'esperienza unica, sia essa legata alla bellezza, all'arte o alla magia. È un verbo che, al di là delle parole, continua a "incantare" chiunque lo esplori, offrendo una finestra sull'universo umano di emozioni e stupore.



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giovedì 17 aprile 2025

Semplicità ed eleganza: Comperare e Acquistare si raccontano


C’
erano una volta, nel magico Regno delle Parole, due cugini: Comperare e Acquistare; sebbene simili nel significato, ciascuno aveva un’origine e una personalità propria. Comperare era il più anziano dei due, nato dal latino volgare ‘comparare’, che significa “procurarsi” o “ottenere”. Acquistare, più raffinato, proveniva anche lui dal latino ‘acquisitare’, a sua volta da ‘acquirere’ (ottenere, aggiungere). Le loro radici diverse li rendevano, dunque, unici e complementari.

Comperare era amato per la sua semplicità e colloquialità, sempre presente tra la gente comune. Lo si poteva udire al mercato: “Vado a comperare il pane” o “Ho comperato dei fiori per il terrazzo.” Acquistare, invece, preferiva i contesti formali e professionali, come nei discorsi ufficiali: “Ho acquistato un immobile” o “Consiglio di acquistare i biglietti in Rete.”

U
n giorno, i cugini decisero di partecipare a un concorso per il Verbo più Versatile del Regno. La giudice unica, la Regina Lingua, propose loro di dimostrare la propria utilità con esempi pratici. Comperare prese la parola per primo: “Io sono il verbo della quotidianità! Si può dire:
Ho comperato un giocattolo per mio figlio.
Vuoi comperare qualcosa prima di andare al cinema?”

A
cquistare intervenne con raffinata eleganza: “Io sono il verbo delle grandi occasioni. Eccone alcuni esempi:
Ho acquistato una nuova auto di lusso.
È importante acquistare il ‘software’ aziendale.”

L
a Regina Lingua, dopo un interessante dibattito, soddisfatta, dichiarò: “Carissimi cugini, siete entrambi indispensabili! Comperare, tu porti calore e semplicità. Acquistare, tu aggiungi eleganza e formalità. Siete una coppia preziosissima, e il Regno delle Parole non sarebbe completo senza di voi.”

S
ia comperare sia acquistare esprimono, dunque, l’azione di ottenere qualcosa in cambio di denaro, ma si adattano a contesti diversi: comperare alla quotidianità e alla colloquialità, acquistare alla formalità e alle situazioni professionali.



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domenica 13 aprile 2025

Motivare: il guardiano delle ragioni. Spiegare senza causare, una lezione di armonia linguistica

 

 Viveva una volta, nel florido regno di Linguaglia, un verbo giovane e brillante, Motivare; nato dal nobile casato latino, portava nel cuore un dono speciale: la capacità di spiegare e illustrare con chiarezza i motivi (e le ragioni) delle cose. Non c'era decisione, giudizio o richiesta che non trovasse chiarezza (e giustificazione) grazie a lui. Quando un giudice doveva emettere una sentenza, Motivare era chiamato per spiegare con rigore le prove e i fatti, così che tutti potessero comprendere. Quando uno studente aveva bisogno di più tempo per completare un compito o un progetto, Motivare accorreva per aiutarlo a spiegare chiaramente all'insegnante i problemi personali che giustificavano la richiesta di proroga.

Motivare viveva felice, ma un giorno fu turbato dall’arrivo, dal lontano regno di Francofonia, di un verbo straniero, Motiver. Questi era affascinante e portava con sé un'idea rivoluzionaria: nella sua Terra, il verbo aveva assunto anche il compito di causare o provocare eventi. Disse a Motivare: "Perché ti limiti a spiegare le cose? Guarda come lo faccio io! In Francofonia, diciamo che ‘la pioggia motiva il ritardo del treno’ o che ‘l'inflazione motiva l'aumento dei prezzi’. Non è fantastico? Dovresti provare anche tu!"

Il giovane M
otivare, incuriosito e desideroso di ampliare i propri orizzonti, decise di provare questa nuova accezione. Cominciò, quindi, a dire che “la neve motivava il ritardo del treno" e che "la crisi economica motivava l'aumento delle tasse”. Ma i cittadini di Linguaglia rimasero alquanto perplessi. "Che cosa sta succedendo?" si chiesero. "Motivare non dovrebbe spiegare i motivi (e le cause) delle cose? Queste frasi sembrano opera di Causare o Provocare, non di Motivare!"

F
u allora che il conte Forbito, consigliere di re Cosimo, si accorse del problema e convocò Motivare al palazzo reale. "Mio caro verbo," gli disse con voce gentile ma ferma, "tu hai un dono unico e speciale. Sei nato per chiarire, spiegare e illustrare i motivi delle cose, non per causare direttamente gli eventi. Lascia che Causare, Provocare, Determinare e simili svolgano i loro ruoli. Se insisti nel seguire l'esempio di Motiver, rischi di perdere il tuo scopo e la tua identità."

M
otivare abbassò lo sguardo, turbato dalle parole del conte. Si recò allora dal re, il supremo custode della lingua, per chiedere consiglio. "Sire," disse, "voglio fare del mio meglio per servire il regno, ma non so quale sia il mio vero compito. Dovrei seguire Motiver o restare fedele al mio ruolo?"

R
e Cosimo, con la sua proverbiale saggezza e pacatezza, rispose: "Motivare, mio caro suddito e amico, tu sei il custode delle ragioni. Il tuo compito è illustrare con chiarezza i 'perché' e rendere il mondo più comprensibile. Non sei nato per causare o provocare eventi, ma per spiegare con eleganza le loro motivazioni. Ciascun verbo ha il suo ruolo, e la forza della nostra lingua sta proprio nella sua precisione e armonia."

M
otivare comprese il messaggio del monarca. Tornò, quindi, al suo compito per cui era nato e si impegnò ancora di più per aiutare i cittadini a chiarire e spiegare le loro azioni e decisioni. Quando il giudice motivava la sentenza con un'analisi dettagliata delle prove, o quando lo studente motivava la richiesta di proroga illustrando i suoi problemi personali, i cittadini di Linguaglia capivano l'importanza del suo ruolo. Quanto agli equivoci causati dall'influenza di Motiver, Motivare decise di lasciarli alle cure di Causare e Provocare, che si occuparono di dire che "la pioggia causava il ritardo" e che "la crisi economica provocava l'aumento delle tasse".

I
l regno tornò in perfetta armonia, e Motivare fu celebrato come uno dei verbi più preziosi e distintivi della lingua italiana: aveva ritrovato il suo ruolo, e con esso, la sua vera essenza.


















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giovedì 10 aprile 2025

Alloquio: il fascino di una parola "abbandonata"

 


 Il lemma "alloquio" non è attestato nei vocabolari dell'uso corrente e non compare nelle principali opere lessicografiche. Risale al latino ‘alloquium’, derivato dal verbo ‘alloqui’, composto da ‘ad-’ (a, verso) e ‘loqui’ (parlare). In epoca latina il sintagma in oggetto si riferiva a un discorso rivolto direttamente a qualcuno, un atto di comunicazione intenzionale e diretto. Sebbene il termine non sia entrato nell'uso consolidato dell'italiano moderno, esso conserva un fascino e una profondità che – secondo chi scrive - meritano di essere recuperati.


R
iscoprire "alloquio" sarebbe un gesto di valorizzazione del patrimonio linguistico, poiché questo lemma potrebbe arricchire il lessico italiano con sfumature che lo distinguono dalle più comuni alternative, come "colloquio" o "discorso." La sua solennità offre un tocco di raffinatezza e di significato in particolari contesti. Pensiamo, per esempio, a un incontro diplomatico: "L'alloquio tra i capi di Stato si è svolto all'insegna di una rinnovata amicizia, gettando le basi per un futuro accordo commerciale." Qui, il termine aggiunge una sorta di “gravità” che amplifica l'importanza dell'evento.

A
nche in una narrazione storica o epica, "alloquio" potrebbe richiamare immagini di momenti intensi e simbolici: "L'alloquio tra il comandante e le sue truppe, alla vigilia della battaglia, risuonò come un forte richiamo alla gloria e al coraggio." In questo caso il termine non descrive solo un dialogo, ma sottolinea il valore emotivo e l'urgenza del momento. In ambito accademico o filosofico il sintagma in oggetto potrebbe essere impiegato per esplorare concetti di introspezione e riflessione profonda: "Nel suo ultimo saggio, l’insigne docente ha definito l'alloquio come una forma di dialogo interiore, in cui l'anima si rivolge alla propria coscienza." Questo uso accresce la dimensione speculativa e meditativa, conferendo profondità al contenuto.

P
er quanto attiene all’ambito artistico, "alloquio" potrebbe essere reintrodotto come termine pregno di significati e sfumature letterarie: "Nel romanzo, l'alloquio tra la regina e il poeta si fa veicolo di verità nascoste, sussurrate in un linguaggio colmo di simbolismi." Oppure, in una scena teatrale, il suo utilizzo potrebbe arricchire l'atmosfera e il tono della rappresentazione: "Protagonista A: Come osi, ministro, dissimulare i fatti? Protagonista B: Oserei ben altro, signore, se l'alloquio fosse franco e privo di reticenze!" Questo uso elevato del termine conferisce al dialogo una sfumatura arcaica e solenni accenti drammatici.

L
a lingua italiana, insomma, nella sua ricchezza e complessità, trova la propria bellezza nella varietà e nella capacità di reinventarsi. Riportare in auge "alloquio" rappresenterebbe non solo un atto di recupero culturale, ma anche un invito ad ampliare il ventaglio espressivo disponibile per gli scrittori, i poeti e i conferenzieri di oggi. Un piccolo gesto che potrebbe valorizzare maggiormente la profondità della nostra lingua, invitando a una riscoperta delle sue radici e offrendo nuove possibilità creative per il futuro. Sarebbe una dimostrazione di amore per la parola e per le sue infinite sfumature.
















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mercoledì 9 aprile 2025

Tra corpo e anima: il magico dialogo di Inspirare e Ispirare

 

 Vivevano una volta, nel Regno dei Respiri, due cugini con radici comuni, ma personalità molto diverse: Inspirare e Ispirare. Ambedue provenivano dal latino ‘in-’ (dentro) e ‘spirare’ (soffiare, respirare), ma mentre uno si dedicava al corpo, l'altro parlava all'anima.

I
nspirare aveva una natura concreta. Il suo compito era semplice, ma vitale: insegnare agli uomini a inspirare aria per vivere. Per lui, il gesto di respirare rappresentava la vita, l'energia che riempiva il corpo. Amava mettersi in luce nei momenti di fatica: quando un atleta si fermava per inspirare profondamente dopo una corsa, o quando un lavoratore prendeva un attimo per inspirare aria fresca dopo una giornata molto impegnativa. Questo gesto fisico era la base della forza e della sopravvivenza.

D
all'altra parte, il cugino Ispirare era il sognatore, colui che accendeva l'immaginazione e stimolava la creatività. Amava la bellezza delle emozioni e l'intensità delle idee. Si presentava nei momenti magici: quando un pittore, osservando un tramonto dorato, trovava l'ispirazione per creare un quadro straordinario; o quando un musicista, ascoltando la melodia del vento tra gli alberi, iniziava a comporre una nuova sinfonia. Ispirare era, insomma, il soffio dell'arte, il nutrimento dell'anima.

U
n giorno di primavera, sotto il cielo stellato del Regno dei Respiri, Inspirare disse al cugino: "Io porto vita al corpo, ma tu dai un senso al cuore. Se le persone imparassero a distinguerci - perché spesso ci ritengono delle varianti - capirebbero quanto siamo entrambi essenziali." Ispirare rifletté, a lungo, e aggiunse: "Quando una persona respira profondamente, si prepara a vivere; quando sogna, si prepara a creare. Noi siamo le due facce di uno stesso spirito."

C
on il trascorrere del tempo, nel Regno dei Respiri, le persone impararono che inspirare era il gesto che le manteneva vive e piene di energia, mentre ispirare era il soffio che le rendeva creative e capaci di trasformare il mondo. Ogni respiro profondo diventava un passo verso l'ispirazione, e ogni ispirazione si nutriva del respiro della vita.

C
osì, i due cugini continuarono a camminare sempre insieme, insegnando agli uomini che mentre inspirare riempie il corpo, ispirare accende l'anima. Nel loro equilibrio risiedeva la magia di un'esistenza completa.



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lunedì 7 aprile 2025

Procedere non è provvedere: un invito alla chiarezza linguistica

 

 Nella nostra bella e musicale lingua italiana, il verbo "procedere" merita una riflessione approfondita per comprendere appieno il suo significato originario e, quindi, l'uso corretto. Il verbo in oggetto è pari, pari, il latino ‘procedere’, formato da "pro-" (avanti) e "cedere" (andare), e richiama l'idea di avanzare, proseguire, inoltrarsi in un'azione (in senso figurato) o in un luogo. Si tratta, pertanto, di un significato dinamico, che porta con sé un senso di movimento e progresso.

C
on il trascorrere del tempo, tuttavia, si è diffusa una tendenza a utilizzare "procedere" con un significato diverso, che si avvicina a quello di "provvedere", "effettuare" o "disporre". Esempi di questo uso si trovano frequentemente in frasi come "Abbiamo proceduto alla spedizione di quanto richiesto" o "Si è proceduto alla registrazione dei dati". Sebbene alcuni vocabolari dell'uso moderno abbiano accolto questa accezione come legittima, è importante porsi la domanda: è compatibile con un uso accurato e raffinato della lingua italiana?

A nostro avviso, l'uso di "procedere" in questo senso può essere considerato discutibile. La ricchezza della lingua italiana si basa sulla precisione e sulla chiarezza espressiva, e sovraccaricare un verbo con significati non propriamente suoi rischia di indebolire l'efficacia comunicativa. Se l'intento è quello di comunicare un'azione concreta come provvedere, disporre o effettuare, sarebbe opportuno scegliere il verbo più adatto, evitando ambiguità.

D
el resto, il nostro vocabolario è ricco di alternative precise e appropriate: invece di "procedere alla spedizione", perché non dire semplicemente "abbiamo spedito quanto richiesto"? Oppure, al posto di "procedere alla registrazione", usare "si è provveduto a registrare"? Scegliendo i verbi più appropriati si salvaguarda il vero significato di 'procedere' e si ottiene una comunicazione più precisa e raffinata, senza rischi di fraintendimenti.


I
n conclusione, pur riconoscendo l'evoluzione dell'uso linguistico, chi scrive invita alla riflessione sull'importanza di conservare vivo il senso autentico delle parole. La bellezza dell’italico idioma sta anche nella possibilità di utilizzare termini che rispecchino fedelmente il loro significato storico ed etimologico. E in un mondo dove la comunicazione è sempre più rapida e immediata, scegliere con cura le parole è un atto di attenzione e rispetto per la lingua e per i suoi interlocutori.



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domenica 6 aprile 2025

Quando si cade e quando si casca: storie di lingua e sfumature

 

 Viveva una volta, nella vasta Valle del Linguaggio, una coppia di verbi che abitava lì dai tempi dei tempi: Cadere e Cascare. Sebbene sembrassero simili, ciascuno portava con sé una storia personale, radici profonde e sfumature diverse.

I
l primo verbo, Cadere nacque nobile e austero. Le sue radici affondavano nel latino classico, nel verbo ‘cadere’, che significa "precipitare, scendere improvvisamente". Era  adoperato dai poeti e dagli oratori per descrivere momenti gravi e solenni: la fine degli imperi, la sconfitta in battaglia, il crollo delle speranze. Cadere si muoveva con passo elegante tra i discorsi importanti e i pensieri profondi, portando con sé un’aura di universalità e gravità.

D
all’altra parte, Cascare aveva avuto un’origine più popolare e mondana. Non proveniva dalla lingua colta, ma dal latino parlato, forse da ‘casicare’, che designava il cadere in modo più familiare, colloquiale e, molto spesso, buffo. Era un verbo cresciuto tra le risate delle piazze, tra le persone comuni che narravano piccole disavventure quotidiane, trovando conforto nel raccontarle con leggerezza.

U
n giorno d’autunno, nella Valle del Linguaggio, un giovane viandante camminava assorto nei suoi pensieri. Essendo un po’ distratto non si accorse di una radice che spuntava dal terreno: inciampò finendo rovinosamente al suolo. Tutti i presenti trattennero il fiato e qualcuno esclamò: “Cadde, poveretto,” come se quell’azione avesse qualcosa di importante e inevitabile.

Pochi giorni dopo, lo stesso giovanotto, passando di lì, inciampò di nuovo. Questa volta, però, un fanciullo che lo osservava rise e commentò: “Ah, sei cascato ancora!” E con quella frase, trasformò l’evento in una scena comica. Il giovane, seduto a terra, sporco di fango, non poté fare a meno di ridere con lui.

C
osì, i valligiani cominciarono a distinguere tra cadere e cascare. Capirono che cadere era il verbo ideale per i momenti solenni, quelli che portavano una lezione o un significato profondo: “È caduto in disgrazia,” oppure, “Il vaso cadde e si ruppe in mille pezzi.” Cascare, al contrario, era perfetto per le situazioni leggere o ironiche, quelle in cui l’accento era posto più sulla goffaggine che sulla gravità dell’evento: “Sono cascato dalle scale con tutte le borse della spesa,” o “quando l’ho visto, sono cascato dalle nuvole!”

C
adere e Cascare non erano nemici, ma alleati. Ciascuno trovava il suo posto a seconda dello spirito della narrazione. E così, nella Valle del Linguaggio, si imparò che scegliere il verbo giusto significa donare al racconto la sfumatura perfetta.


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venerdì 4 aprile 2025

Sgroi - 195 - Sull’uso indebito delle parole, gli anglicismi e il "gruppo Explicit"

  




di Salvatore Claudio Sgroi 

 

  

1. L’evento giornalistico  


Nando Dalla Chiesa in un articolo su “Il fatto quotidiano” di lunedì 31 marzo p. 11, suggestivamente intitolato “Povera lingua italiana da ‘mecciare’ all’Inps borbonica: ridateci Nanni Moretti”, ha denunciato il comportamento scorretto, una vera e propria sopraffazione, dell’Inps e un uso invero neopuristico di un anglicismo. 

 

  1. 1.1. Sopraffazione linguistica 


Il noto sociologo, figlio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa assassinato dalla mafia, aveva ricevuto dall’Inps una ingiunzione di pagamento “entro 30 giorni” per “somme indebitamente percepite”. In realtà, l’Inps, sbagliando, gli aveva corrisposto circa 600 euro in più. Ma anziché scusarsi per il proprio errore col conseguente fastidio creato al contribuente per la restituzione, aveva, come si dice dalle mie parti, “preso di sopra”, attribuendogli un comportamento illecito, di cui era responsabile proprio l’Inps. 

 

1.2. L’anglicismo 


Da un altro punto di vista, lo stesso Dalla Chiesa ha lamentato (invero neopuristicamente) l’uso dell’anglicismo adattato mecciare, dall’ingl. to match ‘combaciare’, ovvero 'confrontare (sovrapponendo)', colto in bocca a uno studente durante una seduta di laurea: “se noi mecciamo questi due elementi”, che a lui ha fatto pensare quasi a un derivato del nome del cantante Gianni Meccia, autore di due noti brani quali “Il barattolo” e “il pullover”. 

 

1.3. Una invenzione non proprio recente 


Invero, il verbo mecciare, o matchare, non è un neologismo recentissimo. Stando a Google, il termine aveva attirato l’attenzione fin dal luglio 2012, in quanto vocabolo “coniato dall’ex-calciatore Beppe Dossena: “Dobbiamo mecciare le situazioni”, nelle telecronache calcistiche: “occorre mecciare i reparti”. E nel 1997 Beppe Severgnini ne L’inglese. Nuove lezioni semiserie (Rizzoli, pp. 42-43) aveva scritto: 

Nell’ottobre 1996 il presidente dell’Inter [Massimo Moratti] annunciò, che ‘non poteva mecciare l’offerta per Ronaldo”, nel senso di ‘far [coincidere] la stessa offerta per Ronaldo’. Senza dire che mecciare viene usato in ambito informatico da tempo immemorabile.

 

2. Il "gruppo Explicit "


È di qualche giorno fa la notiziaNasce il gruppo Explicit per la restituzione dei prestiti linguistici di Antonio Zoppetti. <https://italofonia.info/nasce-il-gruppo-explicit-per-la-restituzione-dei-prestiti-linguistici/>, pubblicato nel blog Diciamolo in italiano. 

Invero il "gruppo Explicit" è una garbata presa in giro del "gruppo Incipit", nato parecchio tempo fa, cui rifà ironicamente il verso.   

L’intento è quello di “esprimere un parere sulla sopportabilità – quantitativa e qualitativa – delle parole inglesi che stanno ibridando l’italiano, per es. whatsappare, computerizzare, clownterapia, libro-game, shampista. Attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile, [si] vuole de-anglicizzare il lessico degli operatori della comunicazione, dei giornalisti, dei politici e di tutti i collaborazionisti della dittatura dell’inglese imposta alle masse e alla lingua comune. 

Il "gruppo Explicit" rileva che “La maggior parte [degli anglicismi] arrivano dagli Stati Uniti, ma non mancano anche i vocaboli inglesi (come tunnel, meeting o sandwich) e altri ancora che provengono da Israele (green pass, Gaza City, West Bank) o da altri Paesi anglofoni o anglicizzati (come apartheid che proviene dal neerlandese o boomerang dall’Australia). E osserva ancora la duplice pronuncia, rispettivamente inglese e americana, nel caso di privacy: prìvasi” e “pràivasi. E pone anche il problema degli “pseudoanglicismi” quali beauty case, smartworking, autostop, autogrill, footing. Così nel caso di basket mentre  anglofoni parlano di basketball – noi lo usiamo al posto di pallacanestro; mobbing, che in inglese non indica affatto una persecuzione nell’ambiente lavorativo, o come dressing che sarebbe un condimento per l’insalata e non il modo di vestire (cioè il dresscode)”.  

 

2.1. I prestiti di necessità 


Dinanzi ai prestiti di necessità, che come tutti i linguisti sanno sono appunto necessari e dunque non se ne può fare a meno”, es. mouse, la trovata, puramente logicistica, del "gruppo Explicit", è contrabbandata come “soluzione rivoluzionaria”, ed è quella di creare nuove parole italiane; ovvero sostituirlo con “topo inglese”, sull’esempio di chiave inglese o zuppa inglese, se non quella  ditopo americano” sul modello di sogno americano. 

 

2.2. E i calchi? 


Invece, in maniera non poco contraddittoria il "gruppo Explicit" e i neopuristi non si scandalizzano dei calchi, ovvero prestiti semantici e strutturali, camuffati fono-graficamente e di più difficile identificazione, come il termine anglosfera nell’espressione Le reazioni dell’anglosfera” lì adoperata. Come indicato in Treccani, si tratta di un “composto dal confisso anglo- aggiunto al s. f. sfera, ricalcando l’ingl. anglosphere", o per meglio dire, si tratta del calco strutturale sull'ingl, anglosphere, composto dal confisso anglo- col sost. sphere, "attestato per la prima volta in quella lingua nel romanzo di fantascienza The Diamond Age di Neal Stephenson (1995). 

 

 

2.3. Auto-ironia 


Ma l’art. del "gruppo Explicit" non sembra privo di auto-ironia in più luoghi quando sottolinea “La trattativa sulla responsabilità dei prestiti tra il primo ministro inglese Keir Sturmer (<Starmer) e Donald Trump” a proposito della pronuncia inglese e americana di privacy (ovvero privasi e praivasi). 

O quando presenta “L’accordo Italia-Albania per i centri di stoccaggio delle parole ibride come chattare (libro rosso) degli pseudoanglicismi come autogrill (libro blu)”, con le foto della Meloni e del presidente dell’Albania. 

 

2.4. Auto-ironia al colmo 


L’auto-ironia sembra giungere al colmo quando lo stesso art. illustra “Le contromisure degli USA” ovvero “La risposta di Trump: il decreto di deportazione degli italianismi (poi sospeso per non aver raggiunto il numero legale)”, con la foto di Trump che mostra “Pizza, Mandolino, Cappuccino, Mafia .. back in Rome!”. 

“Per ogni anglicismo che sarà restituito, deporteremo dieci italianismi a Roma” ha dichiarato Trump che sta valutando l’idea di introdurre anche i dazi lessicali. I suoi consiglieri, tuttavia, premono per evitare questa soluzione che si esaurirebbe nel giro di pochi minuti, visto che a parte pizza, mandolino e cappuccino gli italianismi sono stati di solito adattati in inglese e dunque non sono tecnicamente restituibili. 

“La trovata di Trump rischia insomma di rivelarsi un boomerang, perché parole come design, sketch, novel, bank, mascara e tutte le altre derivano certamente da disegno, schizzo, novella, banca e maschera, ma dopo il restyling sono diventate a tutti gli effetti inglesi, e dunque se non si possono considerare parole “italian sounding” non possono essere restituite, anzi, a norma di legge siamo noi che dovremmo rispedirle al mittente, invece di farne il plus del made in Italy. Inoltre – mentre da noi tra gli addetti ai lavori dilaga l’idea che esistano i “prestiti di necessità”, il concetto di “italianismi di necessità” non trova corrispondenza nella mentalità anglofona. “Italianismi di necessità? Ma che cavolo state dicendo?” ha chiosato il responsabile della comunicazione di Eleno (<Elon) Mask – come da oggi si dirà in Italia – estremamente preoccupato dal fatto che dovrà cambiare tutta la terminologia delle sue interfacce a partire da X e tradurle in italiano, invece di colonizzare il mondo con i followers, gli hashtag, le newsletter e tutte le altre espressioni itanglesi con cui le multinazionali d’oltreoceano ci stanno rimbecillendo da decenni”. 

 

Sommario 

1. L’evento giornalistico  

1.1. Sopraffazione linguistica 

1.2. L’anglicismo 

1.3. Una invenzione non proprio recente 

2. Il "gruppo Explicit "

2.1. I prestiti di necessi 

2.2. E i calchi? 

2.3. Auto-ironia 

2.4. Auto-ironia al colmo 






















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