martedì 30 giugno 2015
Estatare e appulcrare
Ci piace
segnalare, agli amici che seguono le nostre noterelle, due verbi forse poco
conosciuti: "estatare" e
"appulcrare". Il primo è attuale perché significa trascorrere l'estate
in una località diversa da quella "usuale"; il secondo, dal
"sapore" antico, significa "abbellire". Vediamo, in
proposito, il Treccani e il Tommaseo-Bellini.
lunedì 29 giugno 2015
Passare in razza
A proposito
di "dirazzare", di cui abbiamo parlato giovedí scorso, per
associazione di idee ci è venuto alla mente il modo di dire "passare in
razza". Questa locuzione è affine a quella latina "promoveatur ut
amoveatur" (gli si dia una promozione per rimuoverlo). Chi passa in razza,
dunque? Colui (o colei) che viene insignito di un'alta carica puramente
onorifica che in realtà, però, comporta l'allontanamento dai compiti
importantissimi espletati dall'interessato. Si dice, insomma, di personaggi che
vengono promossi di grado perché cessino di occuparsi di determinate e
importanti attività. L'espressione allude al trattamento riservato agli animali
da competizione - in particolare cavalli e cani - i quali al tramonto della
loro carriera agonistica vengono adibiti esclusivamente alla riproduzione;
passano, quindi, in... razza. Di qui, per l'appunto, l'uso figurato della
locuzione, adoperata anche in senso ironico o scherzoso.
***
Alcuni sacri
testi grammaticali classificano certi "sostantivi festivi" quali
Natale, Pasqua ed Epifania tra i cosí detti nomi difettivi, nomi, cioè, privi o
di singolare o di plurale. Natale, Pasqua ed Epifania non avrebbero la forma
plurale. Francamente non riusciamo a capire perché dovrebbero essere solo
singolari. Non diciamo, per esempio, tutti i Natali trascorsi insieme? Oppure,
nei tempi andati non si era soliti, nelle Epifanie, fare dei regali ai vigili
urbani? Ancora. Quante Pasque, amico mio, sono trascorse da quando ci
conosciamo? Naturalmente attendiamo gli strali del solito linguista "d'assalto".
domenica 28 giugno 2015
Far le pile
Questo modo
di dire dovrebbe esser noto agli appassionati di ippica in quanto la locuzione
che - in senso figurato - significa "provare a fare qualcosa senza
riuscirvi " è tratta proprio dal mondo equino. Ma vediamo di spiegarci
meglio. L'espressione si riferiva, in origine, ai cavalli che si rifiutavano di
trascinare una vettura su una strada in salita perché il percorso era troppo
faticoso. Questa locuzione sembra sia nata a Roma e deriverebbe - con molta
probabilità - dall'usanza di provare la resistenza dei cavalli sulla
"Salita delle tre pile", alla destra della cordonata del Campidoglio.
Questa "via", infatti, un tempo era impervia e pressoché
inaccessibile ai carri trainati dai cavalli i quali si mostravano restii a
proseguire il cammino. Con il trascorrere del tempo l'espressione - attraverso
il solito passaggio semantico - ha acquisito l'accezione sopra riportata:
tentare di fare qualcosa ottenendo un risultato negativo.
***
Due parole
sull'uso corretto della preposizione "a". Quando concorre alla
formazione di alcune locuzioni avverbiali va sempre ripetuta. Chi vuole usare
la lingua correttamente dovrà, quindi, dire e scrivere "a mano a mano";
"a poco a poco"; "a passo a passo"; "a tre a
tre"; "a spalla a spalla"; "a goccia a goccia";
"a faccia a faccia" ecc. Chi non ripete la preposizione e dice, per
esempio, "corpo a corpo" incorre, se non in un errore, in un
gallicismo che in buona lingua italiana è da evitare. Come sono da evitare le
espressioni - anche se cristallizzate nell'uso - "pasta 'al' sugo";
"gelato 'al' cioccolato"; "risotto 'ai' funghi" e simili.
La preposizione "a", in questi casi, va sostituita con la sorella
"con" (riso "con" i funghi) in quanto è l'unica autorizzata
a introdurre il complemento d'unione. Pasta "con" il sugo, dunque,
non pasta "al" sugo, vale a dire pasta "unita" al sugo. E gelato al cioccolato vuol dire che è un gelato "unito" al cioccolato? No amici, a nostro modo di vedere siamo in presenza di un complemento di mezzo o strumento: con che cosa è fatto il gelato? Con il cioccolato. Probabilmente il solito linguista "d'assalto"- se si dovesse imbattere in questo portale - dissentirà. Ma tant'è.
sabato 27 giugno 2015
Complemento di moto da luogo: di o da?
I classici,
di gran lunga piú autorevoli dell'estensore di queste noterelle, facevano
differenza nell'uso delle due preposizioni ("di" e "da")
adoperate per introdurre il complemento di moto da luogo. Riservavano la
preposizione "da" (il latino "ab") per indicare
propriamente l'allontanarsi dall'esterno di un luogo; la preposizione
"di", invece (il latino "ex") per indicare piú spesso il
partire dall'interno di un luogo, insomma l' "uscirne fuori". Secondo
questa 'regola classica' la preposizione "di" si adoperava con i
verbi "partire", "fuggire", "uscire",
"cadere", "guarire";
la sorella "da" con i verbi "nascere",
"dipendere", "derivare", "degenerare",
"tralignare", "scampare". L'uso del "di" nel moto
da luogo, insomma, fa parte di quelle "cosucce linguistiche" che
ancora oggi - se impiegate correttamente - mettono all'occhiello dello
scrivente o del parlante un bellissimo distintivo di classicità. E Giacomo
Leopardi non mancò di... fregiarsene. E
con la medesima logica - i classici - distinguevano i costrutti "lontano
da...", "lontano a...". Nel primo modo si percepisce lo spazio
dal punto piú lontano da noi a quello piú vicino; nel secondo dal punto a noi
piú vicino a quello a noi piú lontano. Sono solo... divagazioni linguistiche.
venerdì 26 giugno 2015
La goezia
La parola
proposta da questo portale: goezia. Sostantivo femminile che designa una magia
nociva, una stregoneria altamente dannosa e pericolosa.
E quella proposta da "unaparolaalgiorno.it": carpire.
giovedì 25 giugno 2015
Sdirazzare? No, dirazzare
Il verbo corretto non è "sdirazzare"
(come si legge e si sente dire spesso) ma "dirazzare" che, come si può leggere in un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, significa "perdere i caratteri della propria razza" tanto in senso fisico quanto in senso morale. In quest'ultimo caso si perdono le qualità morali della razza di appartenenza. È un cosí detto verbo parasintetico, vale a dire derivato da un sostantivo con l'aggiunta di un prefisso e di un suffisso. In questo caso il sostantivo è "razza" (l'insieme di individui appartenenti alla medesima specie, che si contraddistinguono per uno o più caratteri comuni, trasmissibili ai discendenti) con l'aggiunta del prefisso "di(s)-" (che indica allontanamento, separazione) e del suffisso "-are", proprio dell'infinito presente dei verbi della prima coniugazione. Nei tempi composti si coniuga con l'ausiliare avere. Si dirà correttamente, per tanto, che «Giovanni 'ha' dirazzato».
(come si legge e si sente dire spesso) ma "dirazzare" che, come si può leggere in un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, significa "perdere i caratteri della propria razza" tanto in senso fisico quanto in senso morale. In quest'ultimo caso si perdono le qualità morali della razza di appartenenza. È un cosí detto verbo parasintetico, vale a dire derivato da un sostantivo con l'aggiunta di un prefisso e di un suffisso. In questo caso il sostantivo è "razza" (l'insieme di individui appartenenti alla medesima specie, che si contraddistinguono per uno o più caratteri comuni, trasmissibili ai discendenti) con l'aggiunta del prefisso "di(s)-" (che indica allontanamento, separazione) e del suffisso "-are", proprio dell'infinito presente dei verbi della prima coniugazione. Nei tempi composti si coniuga con l'ausiliare avere. Si dirà correttamente, per tanto, che «Giovanni 'ha' dirazzato».
mercoledì 24 giugno 2015
Dirangolato
La parola proposta da questo portale, anche se
relegata nella "soffitta della lingua", è "dirangolato". Si
dice di una persona spensierata e disattenta. Vediamo, in proposito, anche, il
Tommaseo-Bellini: «Agg. Contrario di Rangoloso,
e vale Disattento, Spensierato. Rangolo, aff. di suono all'antiq. Rancura,
e al lat. Angor, che ha com. orig. con Angustia. Tratt. pecc.
mort. (C) Sono elli assai rangolosi alle bisogne del mondo, ma elli sono
dirangolati e addormentati nel servizio di Dio».
martedì 23 giugno 2015
I rompighiaccio o i rompighiacci?
Facciamo un
po' di chiarezza su questo sostantivo perché non tutti i vocabolari concordano
sulla sua variabilità o invariabilità nella forma plurale. Alcuni lo danno tassativamente invariabile (i
rompighiaccio); altri variabile (i rompighiacci). Una ricerca con Googlelibri sembra prediligere l'invariabilità: 120 occorrenze per "i
rompighiaccio" e 10 per "i rompighiacci". A nostro modesto avviso
si pluralizza perché è un nome composto di una forma verbale (rompere) e di un
sostantivo maschile singolare (ghiaccio) e i nomi cosí formati si pluralizzano
regolarmente: Il passaporto/i passaporti; il parafango/i parafanghi; il
grattacapo/i grattacapi; il rompighiaccio/i rompighiacci. Resterà invariato nel
plurale solo quando è in funzione aggettivale: nave rompighiaccio/navi
rompighiaccio.
lunedì 22 giugno 2015
Non capire un acca (o un'acca)
Chi non conosce questa locuzione che
significa "non capire nulla"? Ma perché si adopera l'«acca» come
sinonimo di "nulla", "niente"? La spiegazione ci sembra
intuitiva e non abbisognevole di... spiegazioni. Coloro che sanno un po' di
"latinorum" sanno anche che l'identificazione della consonante con
"nulla", "niente" si deve al fatto che la predetta
consonante in origine si pronunciava aspirata, poi, con il trascorrere del
tempo si attenuò fino a perdere completamente il "valore" di
aspirazione non incidendo piú sulla
pronuncia, non valendo, quindi, nulla. Anche in italiano, del resto, la
consonante è presente in alcune voci del verbo avere e in alcune esclamazioni -
che testimoniano la derivazione latina - ma non vale nulla agli effetti della
pronuncia. A questo proposito ci è venuta alla mente un'altra locuzione - ormai
desueta e, per tanto, poco conosciuta - "non valere un ette", in cui 'ette'
sta per nulla, niente. Anche qui occorre rifarsi al latino per capire la 'meccanica'
dell'accezione di 'ette' come sinonimo di nulla. "Ette" è, infatti,
la pronuncia italianizzata della congiunzione latina "et" (e) con il
significato di "parte del discorso priva di importanza e, quindi, di
nessun valore".
***
Ci piacerebbe che i lessicografi o
vocabolaristi prendessero in considerazione il neologismo sprimaverare e lo mettessero a lemma nei dizionari. Come da inverno
si ha "svernare" (trascorrere l'inverno in un'altra località), cosí
da primavera possiamo avere "sprimaverare".
domenica 21 giugno 2015
Il "prodotto" della scuola
Dal prof. Gianni Pardo riceviamo e pubblichiamo.
Della riforma della scuola si è parlato molto, fino ad arrivare ad insoliti scontri fra l’intera classe docente (progressista) e un governo di sinistra. La materia del contendere riguarda l’assunzione - non per esami, Dio guardi! - di migliaia di docenti, il potere dei presidi, ed altro ancora, ma non si parla affatto del “prodotto” dell’impresa, cioè del livello culturale dei discenti. Anche se, da anni ed anni, in tutte le valutazioni internazionali otteniamo punteggi da retrocessione. Ancora nel 2013 abbiamo letto che, secondo i risultati del Programme for the International Assessment of Adult Competencies, sette italiani su dieci “non sanno né leggere né far di conto” e che “su ventiquattro Paesi siamo ultimi nelle competenze linguistiche e al penultimo posto in quelle matematiche”. “Non sanno leggere”, precisiamo, nel senso che non capiscono appieno il significato di ciò che leggono. Naturalmente non siamo geneticamente inferiori agli altri europei, ma la nostra scuola riflette i peggiori difetti nazionali e i risultati si vedono. Questo è il massimo male cui bisognerebbe mettere rimedio, e invece ci si occupa dell’assunzione di migliaia di docenti invecchiati in cattedra senza titolo, di presidi che o sono dei Re Travicello o rischiano di diventare dei dittatori, di stipendi e di mille cose che non sono la ragione per cui esiste la scuola. La scuola è più uno stipendificio che un’istituzione culturale: non importa chi insegna e che cosa insegna, importa quanto prende al mese e se il suo impiego è stabile. La scuola è un’istituzione strutturalmente in perdita. Essa forma i lavoratori e i cittadini: e questa funzione è talmente necessaria, che guardare ai suoi costi sembra blasfemo. Ad una condizione, tuttavia, che quella istruzione sia impartita. Noi invece abbiamo una macchina gigantesca che ha un rendimento pietoso, e dunque il denaro che spendiamo per l’educazione è quasi uno spreco. La nostra scuola è un disastro economico e culturale. La riforma di cui si parla non è una cosa seria, perché non si occupa dell’essenziale. L’insegnamento fornito ai discenti è troppo carente. Seguendo la nostra mentalità, più retorica che scientifica, ci convinciamo che non ci sia modo di valutare seriamente né i docenti né i discenti. Due cose false ma molto utili a chi rischia di essere giudicato severamente. In Italia nessuno vuol essere valutato perché praticamente tutti abbiamo paura. I docenti sono longanimi con gli alunni perché sanno che loro stessi, se valutati seriamente, sarebbero bocciati. E non parliamo di ciò che avverrebbe se si comparassero i loro risultati di insegnanti con i mitologici programmi ministeriali per le varie classi. I nostri professori da ragazzi hanno copiato ed hanno un occhio di comprensione per ragazzi che copiano. Da ragazzi non capivano la matematica ed erano lo stesso promossi, e ora vanno coralmente contro il collega di matematica che vuole bocciare qualche somaro. Perché si riconoscono in esso. Infine, quando ci sono prove mandate da altri – esami di maturità, prove Invalsi – suggeriscono le soluzioni agli alunni, come chiedevano loro di fare ai loro docenti, quando erano ragazzi. Insomma, a scuola abbiamo una sorridente tradizione di disonestà e complicità. Per questo, se c’è il rischio di una valutazione, ci rifugiamo in perorazioni astratte sul valore della formazione rispetto all’informazione, della valutazione critica rispetto alla nozione, come se non si sapesse che ai ragazzi mancano le une e le altre. E comunque, a che scopo affrontare la collera dei genitori dei ragazzi bocciati, se del “prodotto” della scuola non importa niente a nessuno? Siamo così giunti al totale abbandono di ogni sforzo e di ogni regola. L’analfabetismo è diffuso. Ne abbiamo conferma ogni giorno, sentendo parlare i giornalisti in televisione. Ecco la riforma della scuola di cui si dovrebbe discutere, ricordando che un professore bravissimo, che promuove invariabilmente tutti, avrà in media tre alunni su trenta che studiano. Un professore mediocre, che nemmeno spiega, ma boccia chi non sa, avrà ventisette alunni che studiano e imparano. Per paura, ma imparano. Dunque, fra il professore buono e il professore cattivo, a scuola il più pericoloso è il primo, se guardiamo al “prodotto”. Per una riforma veloce, bisogna partire dall’idea che esistono eccellenti sistemi scientifici di valutazione sia dei professori sia degli alunni. A questi ultimi bisogna dire: per essere promossi dovete sapere questo, questo e questo. Se non sapete il necessario, sarete bocciati con valutazione tecnologica, quand’anche il professore non vi avesse insegnato ciò che vi viene chiesto. Controllate i programmi ministeriali (da rendere realistici) e se non vi si attiene, denunciatelo. Poco importa che vi metta bei voti. Infatti il sistema dovrebbe anche licenziare senza esitazione il professore che non ha insegnato ciò che doveva insegnare. La fila dei postulanti è lunghissima e non si rischia di rimanere senza. La nostra scuola è sbracata, buonista e ignorante, e abbiamo bisogno di un periodo in cui sia severa, spietata e culturalmente migliore. Ormai chiedere che tempo, che modo e che persona è il verbo “sarebbero” è divenuto materia di quiz televisivi. Stiamo esagerando.
----------
Il prof. Pardo, nella sua ottima disamina del "problema scuola", scrive che «L’analfabetismo è diffuso. Ne abbiamo conferma ogni giorno, sentendo parlare i giornalisti in televisione». E i giornalisti della carta stampata? Qui l'analfabetismo è ancora più rilevante perché un conto è il linguaggio parlato e un conto quello scritto. Nel parlato molto spesso si improvvisa, l' "orrore", quindi, può scappare; non è ammissibile, invece, nel linguaggio scritto dove si "pensa" prima di scrivere e si guarda e riguarda il testo prima di darlo alle stampe. Qualche giorno fa abbiamo letto, in un giornale "che fa opinione": «Un'altro scandalo». Poiché si presume che l'articolo, per la precisione il titolo, sia stato visto e rivisto colui che lo ha partorito era (è) convinto della correttezza dell' un apostrofato.
Della riforma della scuola si è parlato molto, fino ad arrivare ad insoliti scontri fra l’intera classe docente (progressista) e un governo di sinistra. La materia del contendere riguarda l’assunzione - non per esami, Dio guardi! - di migliaia di docenti, il potere dei presidi, ed altro ancora, ma non si parla affatto del “prodotto” dell’impresa, cioè del livello culturale dei discenti. Anche se, da anni ed anni, in tutte le valutazioni internazionali otteniamo punteggi da retrocessione. Ancora nel 2013 abbiamo letto che, secondo i risultati del Programme for the International Assessment of Adult Competencies, sette italiani su dieci “non sanno né leggere né far di conto” e che “su ventiquattro Paesi siamo ultimi nelle competenze linguistiche e al penultimo posto in quelle matematiche”. “Non sanno leggere”, precisiamo, nel senso che non capiscono appieno il significato di ciò che leggono. Naturalmente non siamo geneticamente inferiori agli altri europei, ma la nostra scuola riflette i peggiori difetti nazionali e i risultati si vedono. Questo è il massimo male cui bisognerebbe mettere rimedio, e invece ci si occupa dell’assunzione di migliaia di docenti invecchiati in cattedra senza titolo, di presidi che o sono dei Re Travicello o rischiano di diventare dei dittatori, di stipendi e di mille cose che non sono la ragione per cui esiste la scuola. La scuola è più uno stipendificio che un’istituzione culturale: non importa chi insegna e che cosa insegna, importa quanto prende al mese e se il suo impiego è stabile. La scuola è un’istituzione strutturalmente in perdita. Essa forma i lavoratori e i cittadini: e questa funzione è talmente necessaria, che guardare ai suoi costi sembra blasfemo. Ad una condizione, tuttavia, che quella istruzione sia impartita. Noi invece abbiamo una macchina gigantesca che ha un rendimento pietoso, e dunque il denaro che spendiamo per l’educazione è quasi uno spreco. La nostra scuola è un disastro economico e culturale. La riforma di cui si parla non è una cosa seria, perché non si occupa dell’essenziale. L’insegnamento fornito ai discenti è troppo carente. Seguendo la nostra mentalità, più retorica che scientifica, ci convinciamo che non ci sia modo di valutare seriamente né i docenti né i discenti. Due cose false ma molto utili a chi rischia di essere giudicato severamente. In Italia nessuno vuol essere valutato perché praticamente tutti abbiamo paura. I docenti sono longanimi con gli alunni perché sanno che loro stessi, se valutati seriamente, sarebbero bocciati. E non parliamo di ciò che avverrebbe se si comparassero i loro risultati di insegnanti con i mitologici programmi ministeriali per le varie classi. I nostri professori da ragazzi hanno copiato ed hanno un occhio di comprensione per ragazzi che copiano. Da ragazzi non capivano la matematica ed erano lo stesso promossi, e ora vanno coralmente contro il collega di matematica che vuole bocciare qualche somaro. Perché si riconoscono in esso. Infine, quando ci sono prove mandate da altri – esami di maturità, prove Invalsi – suggeriscono le soluzioni agli alunni, come chiedevano loro di fare ai loro docenti, quando erano ragazzi. Insomma, a scuola abbiamo una sorridente tradizione di disonestà e complicità. Per questo, se c’è il rischio di una valutazione, ci rifugiamo in perorazioni astratte sul valore della formazione rispetto all’informazione, della valutazione critica rispetto alla nozione, come se non si sapesse che ai ragazzi mancano le une e le altre. E comunque, a che scopo affrontare la collera dei genitori dei ragazzi bocciati, se del “prodotto” della scuola non importa niente a nessuno? Siamo così giunti al totale abbandono di ogni sforzo e di ogni regola. L’analfabetismo è diffuso. Ne abbiamo conferma ogni giorno, sentendo parlare i giornalisti in televisione. Ecco la riforma della scuola di cui si dovrebbe discutere, ricordando che un professore bravissimo, che promuove invariabilmente tutti, avrà in media tre alunni su trenta che studiano. Un professore mediocre, che nemmeno spiega, ma boccia chi non sa, avrà ventisette alunni che studiano e imparano. Per paura, ma imparano. Dunque, fra il professore buono e il professore cattivo, a scuola il più pericoloso è il primo, se guardiamo al “prodotto”. Per una riforma veloce, bisogna partire dall’idea che esistono eccellenti sistemi scientifici di valutazione sia dei professori sia degli alunni. A questi ultimi bisogna dire: per essere promossi dovete sapere questo, questo e questo. Se non sapete il necessario, sarete bocciati con valutazione tecnologica, quand’anche il professore non vi avesse insegnato ciò che vi viene chiesto. Controllate i programmi ministeriali (da rendere realistici) e se non vi si attiene, denunciatelo. Poco importa che vi metta bei voti. Infatti il sistema dovrebbe anche licenziare senza esitazione il professore che non ha insegnato ciò che doveva insegnare. La fila dei postulanti è lunghissima e non si rischia di rimanere senza. La nostra scuola è sbracata, buonista e ignorante, e abbiamo bisogno di un periodo in cui sia severa, spietata e culturalmente migliore. Ormai chiedere che tempo, che modo e che persona è il verbo “sarebbero” è divenuto materia di quiz televisivi. Stiamo esagerando.
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Il prof. Pardo, nella sua ottima disamina del "problema scuola", scrive che «L’analfabetismo è diffuso. Ne abbiamo conferma ogni giorno, sentendo parlare i giornalisti in televisione». E i giornalisti della carta stampata? Qui l'analfabetismo è ancora più rilevante perché un conto è il linguaggio parlato e un conto quello scritto. Nel parlato molto spesso si improvvisa, l' "orrore", quindi, può scappare; non è ammissibile, invece, nel linguaggio scritto dove si "pensa" prima di scrivere e si guarda e riguarda il testo prima di darlo alle stampe. Qualche giorno fa abbiamo letto, in un giornale "che fa opinione": «Un'altro scandalo». Poiché si presume che l'articolo, per la precisione il titolo, sia stato visto e rivisto colui che lo ha partorito era (è) convinto della correttezza dell' un apostrofato.
sabato 20 giugno 2015
Fuorviante o forviante?
Dal sito "comesiscrive.it":
Ci spiace non concordare con i responsabili del portale sopra citato. È preferibile, per non dire "piú corretto", scrivere 'forviante' (senza la 'u') per la "legge del dittongo mobile".
Fuorviante
Forviante
Approfondimenti
Si scrive FUORVIANTE,
con la U. Fuorviante è il participio passato
del verbo fuorviare e vuol dire "che
induce a sbagliare".
-------------Ci spiace non concordare con i responsabili del portale sopra citato. È preferibile, per non dire "piú corretto", scrivere 'forviante' (senza la 'u') per la "legge del dittongo mobile".
giovedì 18 giugno 2015
Inflativo: inglese o italiano?
La persona che cerca l' «origine etimologica» di
inflativo consultando il Treccani in rete, se non è ben ferrata in lingua,
resta interdetta: l'enciclopedia dà una versione, il vocabolario un'altra.
La forma corretta di questo aggettivo, che significa ‘relativo all’inflazione’, è inflativo, perché la parola deriva dall’inglese inflative.
Enciclopedia
INFLATIVO O INFLATTIVO?
La forma corretta di questo aggettivo, che significa ‘relativo all’inflazione’, è inflativo, perché la parola deriva dall’inglese inflative.
La forma inflattivo, scorretta
ma molto diffusa, è dovuta al modello degli aggettivi che derivano da parole in
-zione, come attivo da azione, correttivo da correzione, selettivo da selezione.
Vocabolario
inflativo agg. [tratto da inflazione]. – Relativo all’inflazione, come fatto economico. ◆ È frequente nell’uso anche la forma meno corretta inflattivo, coniata per
analogia con altri aggettivi correlati a sostantivi in -zione (attivo-azione, ricettivo-ricezione, adottivo-adozione, ecc.).
----------
La versione corretta è quella del
vocabolario. L'aggettivo in questione è tratto da "inflazione", e
questa dal latino "inflatus".
***
La parola
proposta da questo portale è l'aggettivo "sontico". Il significato l'
apprendiamo dal Tommaseo-Bellini: «Torbido; e propriamente grave e Tardo per malattia. Sonticus, in
Plin.; Sonticus morbus; Mal caduco. Sannaz. Arcad. egl. 12. (M.)
Mostransi l'erbe e i fior languidi e mucidi; I pesci per li fiumi infermi e
sontici; E gli animai nei boschi incolti…».
martedì 16 giugno 2015
L'«arte magirica»
Cortesi
lettori, quando invitate i vostri amici al ristorante assicuratevi, prima, che nel
locale scelto sia rispettata in tutto e per tutto l' "arte magirica",
arte che non ha nulla che vedere con la... magía. Molte persone, probabilmente,
sentiranno per la prima volta il termine "magirica" perché non è registrato nei comuni
vocabolari dell'uso. Cos'è, dunque, quest'arte? È l'arte, potremmo dire, della
buona cucina. Leggiamo nel vocabolario del Tommaseo-Bellini: «Agg. Dal gr. Μάγειρος, Cuoco, Appartenente a cuoco. Magira leggono in Cat.; Magiriscium
è in Plin., cuochetto, sguatterello; in un'iscr. Magirus. Pros. fior.
par. 3. v. 1. p. 91. (Gh.) Mill'altre insomma delicate
e sontuose vivande, ultimo sforzo dell'arte magirica,…».
***
***
Verso – non si costruisce mai con la preposizione di, tranne che, a seconda del gusto di chi scrive, con i pronomi
personali: corse verso casa; venne verso (di) noi.
***
La parola del giorno proposta da "unaparolaalgiorno.it": conturbante.
***
La parola del giorno proposta da "unaparolaalgiorno.it": conturbante.
domenica 14 giugno 2015
Zubbare
Ecco un
altro verbo "snobbato" dai vocabolari: zubbare. Chi zubba? Colui che saltella o barcolla.
***
Quanto
meno - errato l'uso di questa locuzione
nell'accezione di almeno, per lo meno. Non diremo, quindi, gli
scriverò o quanto meno gli
telefonerò, ma, correttamente, gli scriverò o per lo meno (almeno) gli telefonerò. Attendiamo smentite dai soliti "linguisti
d'assalto". sabato 13 giugno 2015
Essere della stessa risma...
... vale a
dire dello stesso genere, della medesima categoria e simili. Il modo di dire si
adopera - in senso figurato - per lo piú con valore spregiativo. La locuzione
viene dall'arabo "rizma" ed è un'unità di conteggio commerciale per
la carta: 500 fogli per la carta da stampa e 400 per quella da cancelleria. I
fogli di una stessa risma sono uguali e per il formato e per il tipo. Di qui,
per l'appunto, il modo di dire.
***
Segnaliamo
un verbo che ci piacerebbe fosse rimesso a lemma nei vocabolari: morfire. Significa mangiare avidamente,
con ingordigia. Leggiamo nel Tommaseo-Bellini: «V. n. ass. Voce di
gergo, che vien da Morfia, Bocca;
e vale Mangiare o Mangiare assai. Voce triviale tuttavia viva in Fir. – Matt.
Franz. Rim. burl. 2. 194. (C) Mercore
stemmo in Viterbo a morfire, E dopo pranzo possette chi volse E comprar sproni,
ed alquanto dormire».
venerdì 12 giugno 2015
Irruente o irruento?
Dalla grammatica del TRECCANI in rete:
IRRUENTE O IRRUENTO?
Entrambe le forme possono considerarsi
corrette.
• Irruente rimane
più vicina all’etimo latino irruentem
(participio presente del verbo latino irrùere ‘correre
verso’) ed è assimilata ad altri participi presenti usati con valore di
aggettivo, come corrente, dirompente, vincente
La gioia della folla gli esplose in
faccia, irruente (A.
Moravia, Il conformista)
• La forma irruento
(femminile irruenta), altrettanto
diffusa nell’italiano contemporaneo, è modellata sulle desinenze più comuni
degli aggettivi italiani: -o per il
maschile e -a per il
femminile. Mancando in italiano il verbo da cui originariamente deriva, la
funzione d’uso (aggettivo) ha prevalso su quella etimologica di participio
presente
Un carattere energico e irruento (S.
Vitale, La casa di ghiaccio).
---------------
Ancora una volta dobbiamo dissentire - e
ci dispiace - su ciò che scrive il portale del Treccani. La forma
"irruento" non è corretta al pari di irruente che, in buona lingua
italiana, è la sola grafia corretta. Lo stesso DOP, Dizionario di Ortografia e
di Pronunzia, marca il lemma irruento come "meno bene". E in
"Sapere.it" (De Agostini) nella nota d'uso si può leggere: «Nel dubbio se si debba scrivere irruente o
*irruento, può
essere di aiuto ricordare che la parola deriva dal latino irruente(m), che finisce con una -e. La forma irruento è piuttosto diffusa ma scorretta». E
per finire vediamo ciò che dice, in proposito, il linguista Aldo Gabrielli:
IRRUENTE
·
Si dice “una folla irruenta” o “una folla irruente”? “Parlava con tono irruento” o “con tono irruente”? Si dice folla irruente, tono irruente, per la semplice
ragione che un maschile singolare “irruento” e un femminile “irruenta”, coi
rispettivi plurali “irruenti” e “irruente”, nella lingua italiana non esistono.
Esiste solo la forma irruente, unica per il maschile e il femminile,
e di conseguenza un solo plurale, irruenti. Volete una
spiegazione più convincente? Eccola: irruente è un aggettivo
modellato sul latino irruentem, caso accusativo del participio
presente del verbo irrùere, correre contro, irrompere.
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Nota bene: nell’etimologia latina di nomi e aggettivi quasi sempre dobbiamo
risalire al caso accusativo: per chi conosca un po’ di analisi logica, è il caso del complemento
oggetto. Esempio: vedente deriva da videntem, participio presente accusativo di video; amante viene da amantem, participio presente accusativo di amo eccetera.
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Tornando a irruente, in italiano segue la forma di qualsiasi participio presente della seconda
coniugazione come ad esempio, corrente, vincente, che nessuno
penserebbe mai di mutare in “corrento”, “vincento”.
martedì 9 giugno 2015
Prendere il proprio trentuno (e andar via)
Gli amici toscani conosceranno il modo di dire suddetto, per la verità non molto "fine" e particolarmente adoperato, appunto, in quella regione. La locuzione, dunque, si riferisce a colui che, avendo capito di non essere gradito, abbandona un luogo senza tante cerimonie né saluti. L'espressione, molto colorita, ha una duplice origine. Alcuni autori la fanno derivare dal trentuno inteso come ultimo giorno del mese: avrebbe, cosí, il senso di prendere la paga e "dimissionarsi". Per altri, invece, il modo di dire deriverebbe - e secondo noi è la versione "piú veritiera" - dall'antico termine francese "trentain" con il quale si indicava uno speciale tessuto - molto fitto - adoperato per farne abiti da sera. La persona non gradita, quindi, prende il "trentuno" (potremmo dire il soprabito) e se ne va senza salutare.
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Prendere atto – questa locuzione verbale si costruisce con la preposizione di, non con la congiunzione che. Si prende atto di qualcosa: prendo atto della tua buona fede. Quando – per motivi fono-sintattico-grammaticali – non è possibile adoperare la preposizione di si ricorre all’espressione “prendere atto del fatto che”: prendo atto del fatto che hai sbagliato (non prendo atto che hai sbagliato). Lo stesso discorso per quanto attiene all’espressione dare atto. Per onestà dobbiamo dire, però, che i cosí detti linguisti d'assalto ci smentiscono. Ma tant'è.
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Prendere atto – questa locuzione verbale si costruisce con la preposizione di, non con la congiunzione che. Si prende atto di qualcosa: prendo atto della tua buona fede. Quando – per motivi fono-sintattico-grammaticali – non è possibile adoperare la preposizione di si ricorre all’espressione “prendere atto del fatto che”: prendo atto del fatto che hai sbagliato (non prendo atto che hai sbagliato). Lo stesso discorso per quanto attiene all’espressione dare atto. Per onestà dobbiamo dire, però, che i cosí detti linguisti d'assalto ci smentiscono. Ma tant'è.
lunedì 8 giugno 2015
Calare la tela
Il modo di
dire in oggetto - che significa
"porre fine a un argomento, a una discussione, a una situazione" e
via dicendo - dovrebbe esser noto agli appassionati di teatro. La locuzione
viene, infatti, dal gergo teatrale: si cala la tela, cioè il sipario, quando è
finita la rappresentazione. Un tempo il sipario era costituito da una tela,
ossia da un drappo, arrotolato su sé stesso, che veniva calato dall'alto. Solo
piú tardi fu sostituito dalla coppia di tende che scorrono lateralmente. Ancora
oggi nei copioni si adopera la dicitura "cala la tela" per indicare
il cambio di una scena o la fine di un atto.
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Segnaliamo,
agli interessati, il Dizionario di Pronuncia Italiana, consultabile in Rete,
redatto dal prof. Luciano Canepari dell'università di Venezia.domenica 7 giugno 2015
Farsi infinocchiare
Tutti conosciamo questo modo di dire che
significa “farsi ingannare, farsi raggirare con astuzia e grossolanità”. Non
tutti, forse, sanno come è nato. Vogliamo vederlo assieme? Nel periodo
medievale gli osti veneti, in particolare quelli veneziani, erano soliti
offrire ai loro clienti dei rametti di finocchio prima di servire loro del vino
di pessima qualità. Cosí facendo erano sicuri che gli avventori non si
sarebbero accorti del vino... “scadente”. Il forte aroma del finocchio, infatti,
ingannava il palato, e l’ospite veniva così “infinocchiato”, ingannato, perché
è risaputo che il finocchio, particolarmente quello selvatico, ha il “potere”
di camuffare il sapore delle bevande e dei cibi.
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Pregiatissimo dr Raso,
un dubbio atroce mi assilla e nessun vocabolario, in mio possesso, mi è stato di aiuto. La locuzione "sottosopra" si può scrivere in due parole (sotto sopra)? Mio figlio, in un componimento in classe, ha usato la grafia scissa ed è stato redarguito dall'insegnante perché, a suo dire, questa locuzione avverbiale deve essere univerbata. Che lei sappia, è proprio così? Spero che la sua risposta mi sia di conforto.
un dubbio atroce mi assilla e nessun vocabolario, in mio possesso, mi è stato di aiuto. La locuzione "sottosopra" si può scrivere in due parole (sotto sopra)? Mio figlio, in un componimento in classe, ha usato la grafia scissa ed è stato redarguito dall'insegnante perché, a suo dire, questa locuzione avverbiale deve essere univerbata. Che lei sappia, è proprio così? Spero che la sua risposta mi sia di conforto.
Grazie in anticipo e un cordiale saluto.
Oliviero B.
Prato
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Gentile Oliviero, il DOP e tutti i vocabolari, mi sembra,
concordano: sottosopra si scrive in grafia unita. I linguisti Valeria Della
Valle e Giuseppe Patota, però, nel loro volumetto "Ciliegie o ciliege?"
ammettono entrambe le grafie: "sottosopra" e "sotto sopra".
sabato 6 giugno 2015
Divisione sillabica "speciale"
I grammatici usano dividere le sillabe in “aperte” quando finiscono con una vocale: ma-re; te-so-ro e in “chiuse” quando, invece, finiscono con una consonante: al-cher-mes. Una parola può essere costituita, quindi, di tutte sillabe aperte o di tutte sillabe chiuse; la maggior parte dei vocaboli, però, è composta di sillabe che chiameremo “miste” (aperte e chiuse): bab-bo; sin-da-co; mam-ma; sol-do. A questo punto il discorso ci porta a spendere due… parole sulla divisione delle sillabe in fin di riga (o di rigo); come si va “a capo”, insomma, con le parole formate con prefissi “speciali”: ben-, in-, mal-, cis-, dis-, pos-, trans- o tras-. Le parole così composte possono dividersi in sillaba senza tener conto del prefisso (che fa sillaba a sé) oppure considerare il prefisso parte integrante della parola. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Dispiacere si può dividere considerando il prefisso sillaba a sé; avremo, quindi, dis-pia-ce-re, oppure, “normalmente”, di-spia-ce-re. Trastevere – altro esempio – si può dividere secondo l’una o l’altra “regola”: Tras-te-ve-re o Tra-ste-ve-re. Consigliamo vivamente, a coloro che non sono in grado di distinguere con assoluta certezza i prefissi componenti, di attenersi – nell’andare “a capo” – alla normale divisione sillabica. Eviteranno, in questo modo, di incorrere in spiacevoli strafalcioni. In caso di dubbio si può consultare una buona grammatica dove, nel “sillabo”*, sono riportati tutti gli argomenti trattati, messi anche in ordine alfabetico.
* Sillabo
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Ancora un verbo da rispolverare - perché relegato nella soffitta della lingua - e da rimettere a lemma - a nostro avviso - nei vocabolari dell'uso: approvecciare. Verbo denominale intransitivo, tratto da proveccio, che vale "trarre profitto, guadagno, vantaggio" e simili.
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Il verbo “adulare”, sarà bene ricordarlo, deve avere l’accentazione piana, non sdrucciola: io adúlo. La pronuncia sdrucciola (àdulo) è di uso prettamente regionale e, quindi, da evitare in buona lingua italiana.
venerdì 5 giugno 2015
Che bel rabacchio
La parola proposta da questo portale: rabacchio (o rabocchio). Sostantivo maschile: fanciullo, giovinetto.
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Alcune osservazioni "orto-sintattico-grammaticali" ignorate o quasi dai testi di lingua italiana. L'avverbio "alfine" si scrive in grafia univerbata (tutta una parola) quando sta per "infine", "finalmente" e simili: il tanto sospirato giorno alfine arrivò; in grafia rigorosamente scissa allorché vale "allo scopo di...": i gentili clienti sono pregati di rispettare il proprio turno al fine di evitare un cortese rifiuto.
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L'aggettivo "capace", nell'accezione di "essere in grado", quando è seguito da un verbo di modo infinito può reggere, indifferentemente, le preposizioni "di" e "a". In uno scritto formale, però, è consigliabile la preposizione "di": neanche in quell'occasione sei stato capace di reagire. La preposizione "a", infatti, è di uso prettamente colloquiale o regionale. Si adopererà tassativamente la preposizione "di" quando l'aggettivo in oggetto è seguito da un complemento di specificazione: Giovanni è capace di atti inconsulti.
martedì 2 giugno 2015
Sbolognare...
...vale a dire "togliersi di torno", andar via. Per arrivare all'accezione figurata del verbo (andar via) occorre passare attraverso quella propria (anche se impropria sotto il profilo etimologico) che è "appioppare monete false o fuori corso". In questo viaggio ci farà da guida Enzo La Stella. «Non se la prendano i Bolognesi, di cui amiamo la nobile e cordiale città, l'antichissimo "Studium", la spiritosa parlata e la saporita cucina, ma pare che il verbo "sbolognare", ossia appioppare a qualcuno una cosa falsa oppure sgradita, derivi proprio dal nome dell'antica Felsina (o Bonomia o Bologna che dir si voglia). Nelle fiere medievali, ma certo non solo a Bologna, i contadini erano sovente vittime dell'intraprendenza mercantile e della spregiudicatezza dei piú astuti cittadini e, spesso, credendo di aver comprato un oggetto d'oro a prezzo vilissimo, si accorgevano poi, al ritorno a casa, di essere stati imbrogliati e di aver ricevuto "or de Bologna, ch'l diventa ross per la vergogna", ossia che arrossisce per l'imbarazzo di essere falso. (...)». Sotto il profilo prettamente etimologico, dunque, "sbolognare" dovrebbe significare "fuori di Bologna" ('s', con valore di 'allontanamento' e Bologna). Nell'accezione ormai consolidata, però, significa, e lo abbiamo visto, "appioppare una cosa sgradita", di qui, in senso figurato, "sbolognare" nel senso di "andar via", "togliersi di torno" perché (come l'oro di Bologna) persona non gradita. Questa la nostra personale interpretazione o, se preferite, supposizione.
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La parola proposta, per l'esattezza un verbo, da questo portale: tragiogare. Si dice di chi tira da una parte e l'altro dalla parte opposta. È di "origine bovina", come si può leggere anche nel Tommaseo: «V. n. ass. Detto di buoi e d'altri animali aggiogati, che si contrariano nel giogo, e l'uno tira in qua e l'altro in là. Salvin. Pros. Tosc. 2. 249. (Man.) Pone (Platone) la similitudine de' due cavalli, uno buono, e l'altro a quello contrario; i quali cavalli tragiogano, e uno tira in qua e l'altro in là. 2. † Fig. Salvin. Disc. 2. 468. (C) Il tirare, come si dice, uno in qua e l'altro in là, che i Greci… tragiogare appellarono, un tal giogo per se stesso dolce ed amabile, rende aspro, odioso, importabile».
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La parola proposta, per l'esattezza un verbo, da questo portale: tragiogare. Si dice di chi tira da una parte e l'altro dalla parte opposta. È di "origine bovina", come si può leggere anche nel Tommaseo: «V. n. ass. Detto di buoi e d'altri animali aggiogati, che si contrariano nel giogo, e l'uno tira in qua e l'altro in là. Salvin. Pros. Tosc. 2. 249. (Man.) Pone (Platone) la similitudine de' due cavalli, uno buono, e l'altro a quello contrario; i quali cavalli tragiogano, e uno tira in qua e l'altro in là. 2. † Fig. Salvin. Disc. 2. 468. (C) Il tirare, come si dice, uno in qua e l'altro in là, che i Greci… tragiogare appellarono, un tal giogo per se stesso dolce ed amabile, rende aspro, odioso, importabile».
lunedì 1 giugno 2015
Disutile e inutile
I due termini apparentemente sembrano l'uno sinonimo dell'altro, ma a un'attenta analisi non lo sono. «Disutile - leggiamo da Aldo Gabrielli - non è lo stesso che inutile; ché questo indica superfluità solamente (un uomo inutile, una fatica inutile: uomo, fatica che non servono, e quindi superflui); mentre disutile implica un concetto di necessità e di incapacità ad esserlo (un operaio disutile, una cameriera disutile). "Il disutile - spiega il Tommaseo - non giova a quel che dovrebbe giovare, e collo stesso non fare impedisce"; quindi anche il significato di 'dannoso', 'nocivo' e, a volte, di 'ozioso'. (...)».
Sentiamo anche il Tommaseo:
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La parola proposta da questo portale: ceffautto. Sostantivo maschile con il quale si indica un ritratto dipinto, generalmente, sui vasi o su altri utensíli.
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La parola proposta da "unaparolaalgiorno.it": mistificare.
Sentiamo anche il Tommaseo:
Agg. com. Senza utilità. T. Suona più spregio o biasimo che inutile. Disutile ha talvolta più grave senso che Inutile. Inutile può essere superfluo, o vano in parte perchè insufficiente, o poco utile. Il disutile non giova a quel che dovrebbe giovare, e collo stesso non fare impedisce. Persona disutile è tale per inerzia che tiene talvolta della nequizia. Siamo servi inutili: consiglia Cristo che dicano i suoi discepoli operosissimi, non, disutili. = Vit. SS. Pad. 4. 236. Ediz. Silves. (Gh.) Sua inutile e disutile ancilla. G. V. 1. 19. 6. (C) Il detto Ilderico re, siccome uomo disutile al reame, fu disposto (deposto) della signoria. M. V. 1. 37. Perdè tempo cinque mesi al disutile assedio.Stor. Eur. 1. 8. Avendoci presentato a' giorni passati molte volte l'occasione di liberarci dagli Alamanni, poichè non abbiamo saputo pigliarla…, ci reca ora uno travaglio nuovo, spaventoso per avventura al vulgo disutile, a chi è proprio sempre il temere. Bern. Orl. 3. 1. 43. E fino ad ora ogni combattitore C'è rïuscito disutile e tristo. Bellinc. son. 134. Disutil, matto, tristo, unto, poltrone, Uom senza faccia, e spalle da bastone. Red. Cons. 1. 251. L'erbe disutili e malefiche allignano con facilità, e si mantengono per le strade solitarie e non praticate.
Talvolta vale Dannoso. Mor. S. Greg. (C) Sicchè intendendo la mente tutta sola nell'amor di Dio, da niuna disutile tentazione possa esser dilacerata. Morell. G. Ricord. in Deliz. Erud. tos. 19. 6. (Gh.) In questi tempi fece messer Maso degli Albizi lega co'l Re di Francia per noi, con certi disutili patti per noi.
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La parola proposta da questo portale: ceffautto. Sostantivo maschile con il quale si indica un ritratto dipinto, generalmente, sui vasi o su altri utensíli.
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La parola proposta da "unaparolaalgiorno.it": mistificare.
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