Dal prof. Gianni Pardo riceviamo e pubblichiamo.
Della riforma della scuola si è parlato molto, fino ad arrivare ad
insoliti scontri fra l’intera classe docente (progressista) e un
governo di sinistra. La materia del contendere riguarda l’assunzione -
non per esami, Dio guardi! - di migliaia di docenti, il potere dei
presidi, ed altro ancora, ma non si parla affatto del “prodotto”
dell’impresa, cioè del livello culturale dei discenti. Anche se, da anni
ed anni, in tutte le valutazioni internazionali otteniamo punteggi da
retrocessione. Ancora nel 2013 abbiamo letto che, secondo i risultati
del Programme for the International Assessment of Adult Competencies,
sette italiani su dieci “non sanno né leggere né far di conto” e che “su
ventiquattro Paesi siamo ultimi nelle competenze linguistiche e al
penultimo posto in quelle matematiche”. “Non sanno leggere”, precisiamo,
nel senso che non capiscono appieno il significato di ciò che leggono.
Naturalmente non siamo geneticamente inferiori agli altri europei, ma la
nostra scuola riflette i peggiori difetti nazionali e i risultati si vedono.
Questo è il massimo male cui bisognerebbe mettere rimedio, e invece ci
si occupa dell’assunzione di migliaia di docenti invecchiati in cattedra
senza titolo, di presidi che o sono dei Re Travicello o rischiano di
diventare dei dittatori, di stipendi e di mille cose che non sono la
ragione per cui esiste la scuola. La scuola è più uno stipendificio che
un’istituzione culturale: non importa chi insegna e che cosa insegna,
importa quanto prende al mese e se il suo impiego è stabile.
La scuola è un’istituzione strutturalmente in perdita. Essa forma i
lavoratori e i cittadini: e questa funzione è talmente necessaria, che
guardare ai suoi costi sembra blasfemo. Ad una condizione, tuttavia, che
quella istruzione sia impartita. Noi invece abbiamo una macchina
gigantesca che ha un rendimento pietoso, e dunque il denaro che
spendiamo per l’educazione è quasi uno spreco. La nostra scuola è un
disastro economico e culturale.
La riforma di cui si parla non è una cosa seria, perché non si occupa
dell’essenziale. L’insegnamento fornito ai discenti è troppo carente.
Seguendo la nostra mentalità, più retorica che scientifica, ci
convinciamo che non ci sia modo di valutare seriamente né i docenti né i
discenti. Due cose false ma molto utili a chi rischia di essere
giudicato severamente. In Italia nessuno vuol essere valutato perché
praticamente tutti abbiamo paura. I docenti sono longanimi con gli
alunni perché sanno che loro stessi, se valutati seriamente, sarebbero
bocciati. E non parliamo di ciò che avverrebbe se si comparassero i loro
risultati di insegnanti con i mitologici programmi ministeriali per le
varie classi.
I nostri professori da ragazzi hanno copiato ed hanno un occhio di
comprensione per ragazzi che copiano. Da ragazzi non capivano la
matematica ed erano lo stesso promossi, e ora vanno coralmente contro il
collega di matematica che vuole bocciare qualche somaro. Perché si
riconoscono in esso. Infine, quando ci sono prove mandate da altri –
esami di maturità, prove Invalsi – suggeriscono le soluzioni agli
alunni, come chiedevano loro di fare ai loro docenti, quando erano
ragazzi. Insomma, a scuola abbiamo una sorridente tradizione di
disonestà e complicità. Per questo, se c’è il rischio di una
valutazione, ci rifugiamo in perorazioni astratte sul valore della
formazione rispetto all’informazione, della valutazione critica rispetto
alla nozione, come se non si sapesse che ai ragazzi mancano le une e le
altre. E comunque, a che scopo affrontare la collera dei genitori dei
ragazzi bocciati, se del “prodotto” della scuola non importa niente a
nessuno?
Siamo così giunti al totale abbandono di ogni sforzo e di ogni regola.
L’analfabetismo è diffuso. Ne abbiamo conferma ogni giorno, sentendo
parlare i giornalisti in televisione.
Ecco la riforma della scuola di cui si dovrebbe discutere, ricordando
che un professore bravissimo, che promuove invariabilmente tutti, avrà
in media tre alunni su trenta che studiano. Un professore mediocre, che
nemmeno spiega, ma boccia chi non sa, avrà ventisette alunni che
studiano e imparano. Per paura, ma imparano. Dunque, fra il professore
buono e il professore cattivo, a scuola il più pericoloso è il primo, se
guardiamo al “prodotto”.
Per una riforma veloce, bisogna partire dall’idea che esistono
eccellenti sistemi scientifici di valutazione sia dei professori sia
degli alunni. A questi ultimi bisogna dire: per essere promossi dovete
sapere questo, questo e questo. Se non sapete il necessario, sarete
bocciati con valutazione tecnologica, quand’anche il professore non vi
avesse insegnato ciò che vi viene chiesto. Controllate i programmi
ministeriali (da rendere realistici) e se non vi si attiene,
denunciatelo. Poco importa che vi metta bei voti. Infatti il sistema
dovrebbe anche licenziare senza esitazione il professore che non ha
insegnato ciò che doveva insegnare. La fila dei postulanti è lunghissima
e non si rischia di rimanere senza.
La nostra scuola è sbracata, buonista e ignorante, e abbiamo bisogno di
un periodo in cui sia severa, spietata e culturalmente migliore. Ormai
chiedere che tempo, che modo e che persona è il verbo “sarebbero” è
divenuto materia di quiz televisivi. Stiamo esagerando.
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Il prof. Pardo, nella sua ottima disamina del "problema scuola", scrive che «L’analfabetismo è diffuso. Ne abbiamo conferma ogni giorno, sentendo parlare i giornalisti in televisione». E i giornalisti della carta stampata? Qui l'analfabetismo è ancora più rilevante perché un conto è il linguaggio
parlato e un conto quello scritto. Nel parlato molto spesso si improvvisa, l' "orrore", quindi, può scappare; non è ammissibile, invece, nel linguaggio scritto dove si "pensa" prima di scrivere e si guarda e riguarda il testo prima di darlo alle stampe. Qualche giorno fa abbiamo letto, in un giornale "che fa opinione": «Un'altro scandalo». Poiché si presume che l'articolo, per la precisione il titolo, sia stato visto e rivisto colui che lo ha partorito era (è) convinto della correttezza dell' un apostrofato.
domenica 21 giugno 2015
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