domenica 30 giugno 2013

I due punti

Non abbiamo intenzione alcuna di urtare la suscettibilità dei nostri Lettori, che conoscono perfettamente l’uso della punteggiatura, in particolare dei due punti. Trattiamo questo argomento perché abbiamo notato che i cosí detti operatori dell’informazione adoperano questi segni d’interpunzione – che sono basilari – “ad capochiam”, inducendo in errore i lettori sprovveduti. Vediamo, dunque, sia pure per sommi capi, il loro uso corretto. La funzione principale di questi segni è quella di introdurre un discorso diretto, un’elencazione o una spiegazione (in quest’ultimo caso stanno per “cioè”, “ossia”). E qui sorge il problema sul loro uso corretto. Molti dimenticano, infatti, che questi segni – cosí come gli altri – non possono mai separare o dividere il soggetto dal complemento oggetto. È pertanto errato scrivere, per esempio, «Giovanna è andata al mercato e ha comprato: patate, cipolle, fagioli e pere». In questo caso la merce acquistata costituisce la serie dei complementi diretti  introdotti dal verbo “ha comperato”, che non può assolutamente essere seguito dai due punti separando, in tal modo, il soggetto (Giovanna) dai complementi. Ma non avevamo detto che i due punti introducono un’elencazione? E la merce acquistata non è un elenco? In casi del genere – per non andare contro la legge linguistica – basta far seguire il verbo da “questo”, seguito a sua volta, e giustamente, dai due punti. Cosí facendo non si separa il soggetto dal complemento oggetto: «Giovanna è andata al mercato e ha comperato questo: patate, cipolle, fagioli e pere». Abbiamo notato, inoltre, che è invalso l’uso sulla stampa – quella sportiva in particolare – di non mettere le virgolette dopo i due punti quando si riportano le parole di un personaggio. Ci capita sovente di leggere frasi del tipo, «l’allenatore: Ci rifaremo la prossima volta». È superfluo ricordare, dunque, che i due punti introducono un discorso diretto, le virgolette sono, quindi, obbligatorie (non basta far cominciare la prima parola del discorso diretto – le frasi riportate – con la maiuscola). Non seguite questi esempi che insozzano il nostro bell’idioma. Ma ormai lo sapete: i mezzi di comunicazione di massa “non fanno la lingua”, anzi… I due punti, insomma, leggiamo sul “Grande libro della lingua italiana”, sono «come due chiodi col moschettone, messi uno al di qua e uno al di là di un ostacolo da superare, per farci passare la fune quando manca l’appoggio per i piedi. I due punti infatti stanno sempre dove dovrebbe esserci una congiunzione, di qualsiasi tipo, e invece non c’è, cosí che il discorso deve fare un salto aiutandosi coi due punti come può. Per questo nella lettura i due punti seguono una pausa forte, e di solito anche un cambiamento di tono, come se, per continuare con l’esempio della camminata in montagna, da questo lato del crepaccio ci fosse un prato e di là un terreno sassoso».   

sabato 29 giugno 2013

La "e" e la "discrezione"

Due parole due, sulla congiunzione "e" e sulla "discrezione", che , nel caso specifico, non ha il significato di "moderazione", "senso di opportunità" e simili. Cominciamo con la "e", che, come dice la stessa parola, ha valore "congiuntivo" e "aggiuntivo": noi e voi. Alcune volte ruba il posto alla collega "ma" assumendo un significato avversativo: ha parlato per tre ore e non ha detto nulla. È un pleonasmo "obbligatorio" quando forma locuzioni interponendosi fra "tutti" e un aggettivo numerale cardinale (tutti e cinque) o fra un participio passato e l'aggettivo bello: bell'e detto. È un pleonasmo inutile, invece, quando viene collocata tra due numerali: cento e sette. Molto meglio: centosette. Unita a un avverbio richiede il cosí detto raddoppiamento sintattico: eccome, eppure, ebbene, epperciò.
E veniamo alla "discrezione". Il termine viene dal tardo latino "discretio", derivato di "discretus", participio passato di "discernere" (separare, distinguere) e si ha, in linguistica, nei casi in cui la consonante iniziale "l" di un sostantivo viene scambiata per articolo, sí da separarla ('discrezione'), nella scrittura, dal corpo del vocabolo. Alcuni esempi di discrezione provengono dalle voci latine "lusciniolus" e "labellun" in cui la "l" iniziale, appunto, durante il "trasporto" in italiano è stata scambiata per l'articolo e separata ('discrezione') dal resto della parola: usignolo e avello.

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Il femminicidio?  Ce ne parla Matilde Paoli, della redazione consulenza linguistica della Crusca.








venerdì 28 giugno 2013

I lungoteveri

Ci piacerebbe conoscere dai lessicografi di "Sapere.it" (De Agostini) per quale motivo ritengono invariabile "lungotevere" e pluralizzano, invece, "lungarno" e "lungadige". Tutti e tre i sostantivi sono composti con la preposizione impropria "lungo" e il nome in questione. I sostantivi cosí composti formano il plurale secondo la regola generale, mutando, cioè, la desinenza del sostantivo: lungofiume, lungofiumi; lungolago, lungolaghi; lungotevere, lungoteveri. 

lungotevere

n.m. invar. strada che costeggia il fiume Tevere
¶ Comp. di lungo, prep., e Tevere.

lungarno

n.m. [pl. -i] strada che costeggia il fiume Arno
¶ Comp. di lungo, prep., e Arno.

lungadige

n.m. [pl. -i] strada che costeggia il fiume Adige
¶ Comp. di lungo, prep., e Adige.

giovedì 27 giugno 2013

Tranciare e trinciare

Si presti attenzione all'uso corretto dei due verbi, spesso si confondono l'uno con l'altro. Non sono "uguali". Il primo sta per tagliare di netto, a freddo (da trancio o trancia, l'utensile usato, appunto per tagliare a misura barre, lastre o profilati, in genere di metallo). Trinciare, invece, significa tagliare a strisce, a pezzetti, come si faceva con il tabacco. Da qui, trinciare giudizi.
Ottorino Pianigiani, stranamente, riporta solo trinciare:



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Volete rilassarvi un po'? Guardate come il coniugatore dei verbi della "Scuola elettrica" coniuga il verbo 'ribadire'. Dopo aver cliccato sul collegamento digitate il verbo in questione.
http://www.scuolaelettrica.it/quiz/media/classe2/italiano/coniugatore.php

mercoledì 26 giugno 2013

L'uso di "essere" e di "avere"

Cortese dr Raso,
la ringrazio di cuore per la risposta sulla corretta accentazione di “calcàre”. Mi permetto, ora, di rivolgerle un altro quesito, vista la sua non comune disponibilità e cortesia. Esiste una regola da seguire circa l’uso dei verbi ausiliari “essere” ed “avere” quando occorre formare i tempi composti? Per esempio: ho corso o sono corso? È prevalso o ha prevalso?
Grazie e molte cordialità
Ottavio L.
Terni

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Gentile Ottavio, non è possibile dare una regola specifica, solo un buon vocabolario ci può aiutare. Possiamo dire, però, in linea di massima, che il verbo essere si usa con i verbi impersonali, con i verbi riflessivi e per formare la coniugazione passiva dei verbi transitivi. Avere si adopera per la formazione dei tempi composti di tutti i verbi transitivi, con i verbi intransitivi che indicano un movimento o moto fine a sé stesso (ho volato, ho corso) e con quelli intransitivi che esprimono un’attività dello spirito e del corpo (ho pensato, ho dormito). Da notare, infine, che spesso l’uso dell’ausiliare fa cambiare di significato il verbo “principale”: ho mancato (ho commesso una colpa); sono mancato (non ero presente).

martedì 25 giugno 2013

Il latinorum

Avete mai provato a vedere quante volte, nel parlare e nello scrivere, adoperiamo termini latini o di provenienza latina senza che ce ne accorgiamo? Provate a farlo ora e vedrete, con stupore, che anche coloro che non sanno di latino usano con la massima disinvoltura i cosí detti latinismi che – come si sa – sono quelle parole o locuzioni o costrutti particolari ripresi direttamente dal latino o imitati dal latino ed entrati, a pieno titolo, nella nostra lingua. Insomma – come recita il titolo di un libro di Cesare Marchi – siamo tutti latinisti. Chi consciamente, chi inconsciamente. Vogliamo una “prova provata”? Basta sfogliare un libro di poesie, per averla. In questo campo, infatti, i latinismi la fanno da padroni. Vediamone qualcuno a mo’ di esempio: ‘colubro’, da ‘coluber’ (serpente); ‘imago’ (immagine); ‘simulacro’ (statua, immagine); ‘aere’ (aria) e qui è doveroso aprire una parentesi per ricordare che tutti i sostantivi composti con “aer” non prendono la “e” dopo la “r”: aeroporto (non aereoporto); aerazione; aeratore; aeronautica; aerofobia e via dicendo. Ancora: ‘espungere’ (ripulire); ‘edotto’ (informato). Ora vediamo, invece, le parole o locuzioni passate direttamente nell’italiano nella loro forma originaria (il latino classico) o attraverso il latino medievale che – come dicevamo – adoperiamo tutti i giorni e, con molta probabilità, senza rendercene conto. Anche in questo caso le “parole latine” sono moltissime, citiamo quelle che – a nostro avviso – sono le piú comuni. Cominciamo con ‘ad libitum’, che significa a piacere, a volontà: prendine ad libitum; ‘ad honorem’, a titolo d’onore: laurea ad honorem; ‘mea culpa’; ‘pro memoria’; ‘ad personam’; ‘coram populo’, in pubblico, di fronte a tutti; ‘ex aequo’; ‘more solito’, secondo l’usanza, il costume; ‘brevi manu’; ‘motu proprio’, di propria iniziativa; ‘a posteriori’; ‘pro domo sua’, per il suo tornaconto; ‘sub iudice’, in attesa di giudizio (attenzione: non si scrive con la “j”, come spesso ci capita di leggere anche in scritti delle cosí dette grandi firme, ma con la “i” normale); ‘in toto’, in tutto e per tutto;  ‘inter nos’, in confidenza; ‘sui generis’, particolare; ‘factotum’, chi fa tutto; ‘ad hoc’, appropriato, a proposito; ‘ad maiora’, a cose maggiori (anche in questo caso si deve usare la “i” normale, non la “j”); ‘alter ego’, un sostituto; ‘in medias res’, nel vivo delle cose, della narrazione. Potremmo continuare ancora nell’elenco, ma non vogliamo tediarvi oltre misura.

lunedì 24 giugno 2013

Tra il dire e il fare c'è di mezzo il.... gusto

Due parole, gentili amici, sul verbo 'fare' che, come usa dire, viene... usato in tutte le salse. Ciò non è bello sotto il profilo del gusto stilistico e non è affatto ortodosso sotto quello grammaticale. Fare, insomma, non è un verbo "tuttofare". L'uso di fare, per esempio, in sostituzione del verbo dire è linguisticamente accettabile soltanto quando nel corso di un dialogo o di una narrazione sottintende anche l'azione del gestire e vuole esprimere il concetto o, meglio, l'idea di un intervento repentino: m'incontra per strada, per caso, e mi fa (cioè: mi dice): Quando sei tornato? È bene evitare, inoltre - sempre che si voglia parlare e scrivere rispettando le "leggi" della lingua - alcune locuzioni in cui il verbo fare è adoperato nella forma riflessiva apparente: farsi l'automobile e simili; farsi i baffi; farsi la barba; farsi i capelli; farsi le unghie; farsi un dovere; farsi cattivo sangue; farsene una passione; farsene una malattia e simili. In tutte le espressioni su dette il verbo fare può essere sostituito benissimo con un altro che faccia alla bisogna (piú appropriato). Farsi la barba, per esempio, si può sostituire con il verbo "radersi".


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Cortese dr Raso,
un suo parere. Mi è stato detto che "calcare" cambia di significato secondo la posizione dell'accento. Se questo cade sulla seconda "a" è verbo e significa "premere"; se cade sulla prima, invece, è sostantivo e significa "roccia".
Grazie
Ottavio L.
Terni
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Gentile Ottavio, nulla di piú "falso". Calcàre, tanto verbo quanto sostantivo, ha solo l'accentazione piana. L'argomento è stato trattato sul "Cannocchiale". Le do il collegamento: http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2007/11/03/calcare_o_calcare.html

sabato 22 giugno 2013

Il troppo "stroppia" o "storpia"?

Alla domanda del titolo rispondono Angela Frati e Stefania Iannizzotto, della redazione consulenza linguistica della Crusca.

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/troppo-stroppia-storpia


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Il professor Giuliano Merz, dell'Università di Zurigo, ci onora della sua attenzione citando, come si può leggere cliccando sul collegamento in calce (verso la fine dell'articolo), il nostro sito e il nostro libro.

http://www.culturitalia.info/EMPORIO%20della%20LINGUA/2008/01.2008_La%20nostra%20lingua_parliamo%20di%20strumenti%20(3).pdf



venerdì 21 giugno 2013

La linguistica

I non  “addetti ai lavori” quando sentono parlare di linguistica storcono il naso e pensano a un argomento noioso e non “degno” di essere preso in considerazione, tutt’al piú si limitano a dire che è “un qualcosa che riguarda la lingua”. Queste modeste noterelle si prefiggono lo scopo – se possibile – di avvicinare anche i piú riottosi allo studio (o, se preferite, alla conoscenza) di questa meravigliosa scienza che ci consente di parlare e scrivere senza commettere errori e, per di piú, con un certo “tocco”. Sí, conveniamo, di primo acchito l’argomento può risultare “fastidioso”, ma a mano a mano che andiamo avanti nella lettura ci imbattiamo in “scoperte” che ci invogliano a proseguire in quanto, come dice Ferdinand de Saussure, «ogni teoria chiara, e quanto piú è chiara, è inesprimibile in linguistica; perché (…) non esiste un solo termine in questa scienza che abbia mai riposato su un’idea chiara». E non possiamo non essere d’accordo con de Saussure – anche se può sembrare un contro senso – quando vediamo che alcuni linguisti si accapigliano nel far prevalere le proprie teorie linguistiche. Un esempio per tutti: taluni sostengono (e noi con loro) che il pronome personale sé deve essere sempre accentato, anche quando è seguito da stesso o medesimo, altri – come è noto – sostengono il contrario. Chi ha ragione? Ma torniamo alla linguistica che è, come la definiscono i vocabolari, la “scienza del linguaggio”. E come ogni scienza moderna, in linguistica, si possono distinguere piú “campi di ricerca” che corrispondono a modi di suddividere l’analisi linguistica. Insomma, che cosa studia la linguistica? A questa domanda tenteranno di dare una risposta queste modestissime noterelle. Abbiamo detto che la linguistica è una scienza suddivisa in vari campi di ricerca; vediamo, quindi, i vari campi cosí avremo il “quadro” completo di tutto ciò che riguarda (e studia) questa scienza. Essa si suddivide, dunque,  in linguistica generale (e in questo “campo” possiamo metterci la fonologia, la morfologia, la sintassi e la semantica) la quale analizza il linguaggio per accertare i modi generali della sua organizzazione, la sua funzione e la sua “posizione” rispetto ad altre facoltà dell’uomo. A sua volta la linguistica generale si suole suddividere il linguistica “interna” ed “esterna”; la prima si occupa del funzionamento e dell’evolversi della lingua, la seconda si interessa, invece, come dice la stessa parola, dell’influenza del mondo esterno, vale a dire della storia e della società, sulla lingua. Abbiamo, poi, la linguistica applicata, che prende in considerazione l’applicazione, appunto, dei vari princípi linguistici e tecniche particolari: la traduzione, l’uso dei calcolatori, l’insegnamento delle cosí dette lingue vive; la linguistica storica il cui fine è la “ricostruzione” delle fasi antiche di una o piú lingue. Rientra in questo campo la linguistica comparata: allorché si vogliono mettere in luce i rapporti fra lingue che appartengono alla medesima famiglia (si pensi alla famiglia indeuropea e a tutte le lingue romanze). Abbiamo, infine, due “campi” che potremmo definire moderni: la sociolinguistica e la psicolinguistica. La prima si occupa delle diversità e delle varietà della lingua che si manifestano in rapporto alle differenze sociali, culturali ed economiche degli uomini, quindi della società; la seconda studia i rapporti che intercorrono fra la lingua e il pensiero, esaminando i problemi della comprensione del linguaggio, della memoria e dell’apprendimento della lingua da parte del fanciullo. In questo caso si potrebbe azzardare il termine “linguistica infantile”. Non va dimenticato, inoltre, ed è forse la cosa piú importante, il fatto che la linguistica ha strettissimi rapporti con lo studio sistematico dei testi letterari. Come non ricordare, quindi, quella branca della linguistica che va sotto il nome di “stilistica”? La stilistica cos’è, infatti, se non lo studio dello “stile” di un autore, di un’epoca, di una scuola? Non sappiamo, francamente, se siamo riusciti nell’intento prefissoci: di avvicinare alla lingua anche i piú restii. Ma tant’è. Abbiamo cercato di essere concisi al massimo per non appesantire il tutto sforzandoci, nel contempo, di essere chiari. Se non ci siamo riusciti confidiamo nel vostro… “perdono”. E concludiamo citando una massima di Ferdinand de Saussure: «Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica».

PS. Visto che parliamo di lingua diamo la "parola" a Ottorino Pianigiani per ciò che attiene al linguaggio:

giovedì 20 giugno 2013

Che farsa!

Riprendiamo il nostro viaggio alla ricerca di parole (o frasi) di uso comune il cui significato recondito non sempre è chiaro a tutti. Vi sarà capitato un'infinità di volte di sentire (o dire voi stessi) che «tutto si è risolto in una farsa», cioè in un nulla di fatto. Per comprenderne il significato e l'origine è necessario tornare indietro nel tempo e fermarsi al XIV secolo. In quel periodo storico non esistevano ancora i teatri, gli spettacoli si tenevano all'aperto - nelle piazze - e i soggetti erano tratti dalla storia sacra: i cosí detti misteri. Con il trascorrere del tempo si pensò di rappresentare, come "intermezzo" ai suddetti  misteri, brevi scene di contenuto profano (non sacre, quindi) allo scopo di alleggerire l'austerità e la "pesantezza" dello spettacolo principale, la storia sacra, per l'appunto. E, sempre con il trascorrere del tempo, queste scenette assunsero via via il carattere scherzoso, allegro, fino a diventare addirittura volgari. Bene. In Francia, dove ebbe origine questo "intermezzo", la scenetta inserita tra un atto e l'altro dello spettacolo prese il nome di "farce" (ripieno, imbottitura) e questa dal latino (sempre lui!) "farcire" (riempire, imbottire, infarcire), vale a dire «scenetta introdotta nello spettacolo come 'ripieno'». Dal francese "farce" è stato coniato il termine italiano "farsa". Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, lo Zingarelli per esempio, alla voce "farsa" possiamo, infatti, leggere: «Genere teatrale risalente al XV secolo ancor oggi vivo, di carattere comico e grossolano e, in senso figurato, serie di avvenimenti o imprese sciocche e ridicole».
Sentiamo anche Ottorino Pianigiani:

mercoledì 19 giugno 2013

Stuzzichevole

Ciò che stiamo per scrivere – siamo sicuri – avrà la censura di buona parte dei linguisti, quelli “doc”. Intendiamo parlare di un aggettivo non attestato nei cosí detti vocabolari dell’uso: stuzzichevole. I dizionari riportano, infatti, stuzzicante, che significa «eccitante», «stimolante», «allettante»: è una proposta stuzzicante. A nostro modo di vedere sarebbe, invece, “piú corretto” stuzzichevole, per analogia con piacevole. L’aggettivo che proponiamo è, infatti, in regola con le “leggi” che… regolano la nostra lingua perché è formato con il verbo “stuzzicare” e il suffisso “-evole” che serve per la formazione di aggettivi derivati da sostantivi o da verbi di significato attivo o passivo: gradevole, amichevole, colpevole, ammirevole. Insomma, se da “piacere” si può avere tanto ‘piacente’ quanto ‘piacevole” non capiamo perché da “stuzzicare” non si possa avere sia ‘stuzzicante’ sia ‘stuzzichevole’. Quest’aggettivo, per tanto, si potrebbe classificare tra quelli deverbali. Abbiamo fatto un veloce giro in rete e, con sorpresa, abbiamo visto che la nostra proposta non è peregrina, anzi… Qualcuno ci ha preceduto perché stuzzichevole è già stato coniato e diffuso. Si veda questo collegamento: https://www.google.it/search?q=%22stuzzichevole%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it


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Viepiú o vieppiú?

Ancora una contraddizione tra il vocabolario Gabrielli in rete e il "Dizionario Linguistico Moderno", dello stesso linguista, a proposito dell'avverbio "viepiú". Il vocabolario, "ritoccato", ammette la grafia "vieppiú" , il "Dizionario" la condanna.
Leggiamo dal vocabolario in rete: «viepiù
[vie-più] o vie più, vieppiù
avv.
lett. Sempre più, molto più: vidi Sansone / vie più forte che saggio (Petrarca)».

Nel "Dizionario Linguistico Moderno", invece, possiamo leggere: «Attenti a non scrivere "vieppiú" (...) e simili, perché dopo "vie" non è sottintesa una congiunzione "e" che giustificherebbe il raddoppiamento».

Ma non basta, leggiamo da "Si dice o non si dice?", sempre di Aldo Gabrielli: «dipiù, viepiù...
Volendo fare della locuzione avverbiale di più una parola sola, bisogna scrivere dipiù, con una sola p e non “dippiù”. E questo per la semplice ragione che la preposizione di non vuole in nessun caso il raddoppiamento fonosintattico. E scriveremo anche digià e non “diggià”, anche se è meglio continuare a scrivere di già; scriveremo difatti e non “diffatti” invece del più usato e preferibile di fatti; didietro e non “diddietro” (ma anche di dietro), dipoi o di poi, ma non “dippoi”, disopra e disotto, o di sopra e di sotto, ma non “dissopra” e “dissotto”.
Un errore simile molti lo commettono con l’avverbio composto viepiù che assai spesso vediamo scritto vieppiù (inutile ripetere che funziona anche la forma separata vie più, anche se è meno usata). Questo vie, infatti, antica alterazione di via usata come rafforzativo del comparativo, non richiede mai il raddoppiamento della consonante successiva. Analogamente scriveremmo viepeggio (o vie peggio) e viemeglio (o vie meglio), e non “vieppeggio” e “viemmeglio”: ma qui l’errore consisterebbe nell’usare espressioni vetuste e pedantesche».

"Sapere it" (De Agostini) attesta "vieppiú" addirittura come prima forma: «vieppiù, o viepiù, vie più, avv. ( lett.) sempre più, molto più».





martedì 18 giugno 2013

Sull'uso corretto della congiunzione «se»

Due parole due sul corretto uso della congiunzione “se”, perché non necessariamente deve reggere un verbo al modo congiuntivo, come imparammo ai tempi della scuola. Innanzi tutto si può apostrofare davanti ai pronomi personali: s’egli m’amasse, s’io parlassi; negli altri casi è preferibile non  eliderla: se anche, se una. Quando è in “compagnia” di alcuni avverbi subisce il cosí detto rafforzamento sintattico: semmai, sennonché, sennò, seppure. Se queste forme non piacciono si possono adoperare quelle staccate: se mai, se no, se pure, se non che. Cosa importante, è bene ribadirlo, in grafia univerbata la consonante che segue la congiunzione “se” deve essere raddoppiata. Per quanto attiene al verbo introdotto dalla congiunzione “se” – come dicevamo all’inizio – non sempre è obbligatorio il congiuntivo, anzi, in alcuni casi è addirittura errato. Quando introduce un periodo ipotetico il verbo che segue la congiunzione deve essere di modo indicativo se anche il verbo della proposizione principale è all’indicativo: se pensi ciò, sei in errore. Se, invece, il verbo della proposizione principale, chiamata apodosi, è al condizionale il verbo che segue deve essere al congiuntivo: se pensassi ciò, saresti in errore. Ci sono due casi in cui la congiunzione “se” va d’amore e d’accordo – ecco il punto “cruciale” – con il condizionale: 1) quando introduce una proposizione concessiva: anche se potrei aiutarlo, non voglio farlo; 2) quando regge una proposizione interrogativa indiretta: non so se riuscirei anch’io a fare ciò che ha fatto il mio amico.
In questi due casi il congiuntivo sarebbe errato: anche se *potessi aiutarlo, non voglio farlo; non so se *riuscissi anch'io a fare ciò che ha fatto il mio amico.

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Un manuale per risolvere i dubbi linguistico-grammaticali più frequenti. Pensato per i giornalisti e utile per tutti coloro che quotidianamente "combattono", per lavoro, con la lingua italiana. Edito da Gangemi, Roma.


Volume vincitore, per la manualistica, alla III edizione del premio letterario nazionale "L'Intruso in Costa Smeralda".



domenica 16 giugno 2013

La dama

Ieri abbiamo visto come è “nato” il cavaliere, oggi parleremo della “dama”. Il termine, dunque, è l’antico francese ‘dame’, derivato – guarda caso – dal… latino “domina” (‘signora’). Piú esattamente è la forma “accorciata” di “madame” (‘ma-dame’, ‘mia-signora’). La dama, quindi, in senso lato è la signora per antonomasia, la gentildonna. Nel ballo, la donna che fa coppia con il ballerino si chiama, per analogia con il ‘cavaliere’, “dama”, vale a dire “donna dai nobili ideali”. Con il trascorrere del tempo la dama ha assunto, poi, un significato prettamente religioso: mia dama, attribuito alla Vergine Maria, dal latino “mea domina”, mia Signora, appunto. E già che ci siamo, vediamo l’etimologia di un altro termine: “scapolo”. Con buona pace delle nostre gentili lettrici il vocabolo in questione significa, alla lettera, “sfuggito al cappio” (della donna). A questo punto ci affidiamo alla penna di un insigne linguista, Aldo Gabrielli. «Non ci mettiamo nessuna malignità (per la spiegazione di questo termine, ndr) come facilmente si dimostra col solito latino alla mano; quel latino che per dire “prendere”, “afferrare”, diceva “capere”. Da questo “capere” si fece il sostantivo “càpulus” per indicare ciò che serve ad afferrare, cioè il “cappio” (…). Da “càpulus”, piú tardi, nacquero due verbi: “capulare”, prendere al “capulus”, cioè “accalappiare”, e il suo contrario “excapulare”, “uscire dal cappio”, “scapolare” (…). Ancora un passetto e ci siamo. Infatti dal nostro scapolare noi facemmo “scapolo”, che può considerarsi una forma contratta di “scapolato”, cioè “sfuggito al càpulus” o cappio che dir si voglia. C’è solo da precisare questo: che quando si cominciò a usare questo “scapolo”, verso la fine del Trecento, la parola voleva dire semplicemente “libero” (…). Solo un paio di secoli dopo si accostò l’aggettivo non solo ai pensieri o ad altre cose astratte ma anche a cose concrete, come appunto l’uomo privo di moglie».


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Mi sposo o sposo?

La "parola" a Francesca Cialdini, della redazione consulenza linguistica della Crusca:
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/sposo-sposo


sabato 15 giugno 2013

Il cavaliere

Un nostro amico ci ha rimproverato di avere abbandonato la trattazione dell’origine di parole di uso comune ma dal significato… recondito. Ci suggerisce, per farci ‘perdonare’ la mancanza, di parlare dell’etimologia del cavaliere. Perché, per esempio, si domanda e ci domanda il nostro gentile amico, «l’uomo che fa coppia con una donna in un giro di danza si chiama cavaliere? Quale relazione intercorre tra il cavalcare e il danzare?». Lo accontentiamo subito. Dobbiamo prendere, però, il discorso alla lontana e rifarci all’istituzione medievale della Cavalleria in cui “militavano”, solitamente, i figli cadetti dei nobili. Con il termine “cavaliere” si intendeva, per tanto, un “duplice personaggio”: colui che va a cavallo e un nobile militante nella Cavalleria. Le tradizioni di questa nobile istituzione volevano chi suoi “adepti” si mettessero al servizio di tutte le cause importanti, tra le quali l’ossequio e la protezione della dama, che – con solenne giuramento all’atto dell’investitura – ogni cavaliere si impegnava a onorare e a scortare per difenderla dalla violenza e da eventuali offese. Allorché la Cavalleria, come nobile istituzione, morí, rimase vivissimo nella fantasia di tutti – nobili e popolani – il ricordo delle antiche gesta e degli altissimi ideali di cortesia e di “civiltà” cavallereschi, per cui il termine “cavaliere”, come semplice appellativo, mantenne due accezioni distinte ma strettamente legate alla comune origine: 1) nobile appartenente al primo gradino dell’araldica nobiliare (cavaliere, barone, conte, marchese, duca, principe); 2) persona dall’animo nobile e di sentimenti generosi e rispettosi verso la donna (dama), al cui servizio si mette come gli antichi cavalieri medievali. Con tutta probabilità, quindi, quando chiamiamo ‘cavaliere’ il “danzatore”, cioè l’uomo che fa coppia con una donna in un ballo, ci rifacciamo alla seconda accezione. Al primo significato, invece, debbono essersi rifatti i nostri legislatori quando hanno scelto il titolo di “cavaliere” da conferire a un cittadino – qualunque sia la sua condizione sociale ed economica – come riconoscimento di merito; è la “nobiltà” (non di sangue) che ciascuno di noi si conquista con il lavoro, la probità, la dedizione ai grandi ideali. Il cavalierato attuale, insomma, è un titolo di “nobiltà” che non si acquisisce per nascita e non si tramanda, quindi, ai propri discendenti. Tutti sappiamo, per esempio, che lo Stato ha concesso il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto” ai superstiti della Grande Guerra in segno di riconoscenza del Paese verso coloro che hanno sacrificato la giovinezza e arrischiato la vita per la difesa e l’indipendenza della Patria. È interessante anche ciò che si può leggere qui:

http://www.etimo.it/?term=cavaliere&find=Cerca












venerdì 14 giugno 2013

Il plurale di "uno"

Cortese prof. Raso,
il suo istruttivo blog mi è stato segnalato da un amico che la segue dal tempo del "Cannocchiale". Le scrivo - e spero che prenda in considerazione la mia richiesta - per sapere se l'aggettivo numerale "uno" può prendere la forma del plurale. Ho fatto una piccola ricerca ma non sono approdato a nulla. Confido in lei.
Grazie in anticipo.
Cordialmente
Federico B.
 Palestrina (Roma)
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Gentile Federico, per quale motivo non dovrei prendere in considerazione la sua richiesta? Per quanto attiene alla sua domanda, la risposta è affermativa. Il numerale uno si può pluralizzare; da evitare, però, in uno scritto sorvegliato. Veda il collegamento in calce.

http://faustoraso.blogspot.it/2011/03/il-plurale-di-uno-uni.html

giovedì 13 giugno 2013

«La» carcere?

Esimio dott. Raso,
un quesito telegrafico: è corretto "la" carcere? Io ho sempre detto "il" carcere, con il plurale "i" carceri.
Grazie della sua attenzione.
Con viva cordialità
Demetrio S.
Carbonia
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Cortese Demetrio, nell'uso comune carcere è maschile nel singolare e tassativamente femminile nel plurale: "il" carcere, "le" carceri. Non si può considerare errata, però, la forma femminile anche nel singolare. Ho trattato l'argomento in un mio vecchio intervento sul "Cannocchiale".

http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2008/01/22/la_carcere.html

PS. Se consulta un qualsivoglia vocabolario dell'uso vedrà , quindi, che "carcere" nel singolare viene attestato come un "ermafrodito" (può essere sia maschile sia femminile).
Interessante la nota d'uso di "Sapere.it" (De Agostini):
«Il nome carcere è maschile, ma anticamente, e ancora oggi a volte in un linguaggio letterario, veniva usato al femminile (la carcere), forse per attrazione del suo sinonimo prigione, anch’esso femminile. Il plurale è invece femminile (le carceri); il maschile i carceri può essere usato in riferimento a singoli edifici (la costruzione di due nuovi carceri)».
Personalmente, però, preferisco il femminile plurale anche in riferimento a singoli edifici.

mercoledì 12 giugno 2013

Dare il sapone

Roberto uscí dal colloquio con il primo dirigente dell’ufficio assunzioni con gli occhi stralunati, era sconvolto, fuori di sé; non riusciva a capire il motivo per il quale non era stato assunto nonostante avesse “strabiliato” – con la sua preparazione professionale – tutti i componenti l’ufficio assunzioni. Non riusciva a darsi pace, aveva un impellente bisogno di lavorare per mantenere la sua famiglia composta di moglie e cinque figli. Strada facendo si ricordò di una frase che gli disse un amico qualche giorno prima del colloquio, frase che, lí per lí, non afferrò: «Quando sarai convocato dal dirigente non dimenticare di portare con te un po’ di sapone, ti sarà utile al momento opportuno». All’improvviso ne capí tutta la sua “portata”: era un modo di dire per fargli intendere che avrebbe dovuto fare un “pensierino” al dirigente. “Dare il sapone” significa, infatti, ‘dare generose ricompense a chi esercita un ufficio per ottenere un trattamento di favore’; significa, insomma, per parlar fuori di metafora, “corrompere qualcuno”. Puccio Lamoni, nelle note linguistiche al “Malmantile racquistato” (un poema burlesco), cosí spiega la locuzione: «Come nell’insaponare una carrucola (una corda) o una ruota si facilita il veicolo, e si fa che non strida». Con lo stesso significato si usano le espressioni “dare la busterella”, “ungere il grifo”, “dare l’unguento di zecca”, “buttar l’osso a qualcuno”: dare una mancia favolosa (come si fa con i cani per non farli abbaiare).  

martedì 11 giugno 2013

La glossofobia

Gentilissimo dott. Raso,
mi rivolgo a lei su consiglio del mio amico Costantino C. per un quesito. Vorrei sapere se c'è un termine atto a indicare la paura di parlare in pubblico. Quando, per lavoro, sono costretto a farlo sono assalito da una paura terribile, la bocca mi si asciuga e a stento riesco a parlare. Vorrei sapere, appunto, se esiste un termine per definire questa "paura" cercandolo nei vocabolari. Grazie di cuore e in anticipo per la sua eventuale cortese risposta.
Demetrio S.
Carbonia
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Cortese amico, il termine esiste ma non è attestato nei vocabolari in mio possesso: glossofobia. È composto con le voci greche "glossa", lingua e "phobos", paura, fobia. Lei, quindi, è un "glossofobico". Le do un collegamento che, credo, le può interessare:

http://www.subliminali.it/6-messaggi-subliminali-per-aumentare-la-fiducia-in-te-stesso/messaggi-subliminali-per-chi-ha-problemi-a-parlare-in-pubblico.php

lunedì 10 giugno 2013

A proposito di "riempire"












A proposito del verbo "riempire", questo coniugatore (http://www.coniugazione.it/verbo/riempire.php) segue la coniugazione incoativa (-isc-), il DOP, il Dizionaro di Ortografia e di Pronunzia, scrive decisamente: "non riempisco".

Coniugatore:
 io riempisco
tu riempisci
egli riempisce
noi riempiamo
voi riempite
essi riempiscono

DOP: http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=20739&r=16835

Il coniugatore della "Scuola Elettrica", invece, lo storpia "abbondantemente":
http://www.scuolaelettrica.it/quiz/media/classe2/italiano/coniugatore.php
Dopo aver cliccato sul collegamento digitate il verbo in questione; guardate anche, per rilassarvi un po', come coniuga il verbo "stordire".


sabato 8 giugno 2013

«Accortenza» variante di accortezza?





Si può usare "accortenza" come variante di accortezza?
La "parola" a Antonio Vinciguerra, della redazione consulenza linguistica dell'accademia della Crusca.

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/po-accortenza


* * *

Si presti attenzione alla corretta coniugazione dei verbi "riempiere" e "riempire". Il primo appartiene alla seconda coniugazione il cui participio passato è "riempiuto", il secondo alla terza e il participio passato è "riempito". Per il resto si coniugano allo stesso modo, fatta eccezione per il passato remoto:

Riempiei / riempii
        
Riempiesti / riempisti

Riempié - riempiette / riempí

Riempiemmo / riempimmo

Riempieste / riempiste

Riempierono / riempirono

giovedì 6 giugno 2013

La lancia e la... lancia


Gentilissimo dott. Raso,
approfitto ancora una volta della sua non comune disponibilità per un quesito non sintattico-grammaticale. Sarebbe interessante sapere perché con il termine “lancia” si intende tanto l’arma quanto l’imbarcazione. Perché questo vocabolo, insomma, ha due significati distinti?
La ringrazio anticipatamente e le porgo i miei devoti ossequi.
Costantino C.
Carbonia

PS. Dove posso trovare il suo “Giornalismo. Errori e orrori”?

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Cortese amico, per quanto attiene al mio libercolo può rivolgersi direttamente all’Editore Gangemi di Roma, il cui indirizzo può reperirlo in rete. Riguardo alla sua interessantissima curiosità “giro” la domanda a Ottorino Pianigiani e al vocabolario Treccani.

Pianigiani:

.

Treccani:

lància1 s. f. [lat. lancĕa] (pl. -ce). – 1. a. Arma da urto e più raram. da getto, usata fin dai tempi più antichi, e poi nel medioevo e nell’età moderna, da combattenti a piedi o a cavallo, ma anche in giostre e tornei (e ancora oggi presso alcune popolazioni), formata da un’asta di varia lunghezza con all’estremità superiore un ferro acuto, oppure una punta di osso, di corno, o, anticam., di pietra: impugnare, alzare, abbassare la l.; mettere la l. in resta, correre con la l. in resta (...).

lància2 s. f. [per metafora dalla voce prec., con allusione alla forma acuta della prora e alla velocità] (pl. -ce). – Imbarcazione a remi, di forme affilate e di varia grandezza, armata da otto a sedici vogatori e con possibilità di alzare una vela latina o a tarchia su un alberetto smontabile; in dotazione, in passato, alle navi per i servizî di bordo, è ancora in uso per alcuni tipi di pesca e per l’addestramento alla voga (il tipo più moderno a motore, con lo scafo talvolta parzialmente (...).




mercoledì 5 giugno 2013

ININTELLEGÌBILE O ININTELLIGÌBILE?:

Un interessante articolo di Salvatore Claudio Sgroi*



ININTELLEGÌBILE O ININTELLIGÌBILE?:

VARIANTI APOFONICHE PLURISECOLARI

1. Il caso: un dantismo con refuso?

Un caro amico e collega, avendo letto un nostro breve intervento in cui si accennava a «lingue materne diverse, e tra loro inintellegibili», ci ha fatto “occhiutamente” osservare: «Ti segnalo un refuso alla riga 3,
dove penso tu intenda dire “inintelligibili” [al posto di inintellEgibili ], o
sbaglio?».
La sostituzione di una i con una e, data anche la minima salienza fonica
 grafica dei due grafemi-fonemi, ha in effetti tutta l’aria di essere un
banale refuso-lapsus grafico-fonico. Ma quando abbiamo mentalmente e
oralmente provato a pronunciare prima (e a scrivere dopo) inintellIgibili
secondo la “corretta” grafia suggerita dall’interlocutore, confessiamo di
aver provato disagio e resistenza a realizzare tale forma. Una scorsa al
vocabolario (“il garante” della lingua), e anzi a più d’uno, non lasciava
peraltro dubbi sul carattere “corretto”, ovvero sulla codificazione di inintellIgibile,
in quanto forma riconosciuta e approvata. Sul piano del puro
funzionamento della lingua, l’agg. inintelligibile si configura peraltro strutturalmente
come parola formata con il prefisso negativo [in- + intelligibile].
La codificazione di inintellIgibile ha anche, come dire, un pedigree
autorevole, trattandosi di una codificazione con etimo diacronico, in quanto
voce dotta risalente a Dante Convivio (III.XII.6) 1304-08 (DELI): «di
cosa intelligibile per cosa inintelligibile trattare si conviene» (Enciclopedia
antesca, ried. 2005 vol. X), derivante «dal lat. tardo inintelligibile(m)».
E la base intelligibile del derivato è, a sua volta, latinismo, databile sempre
con il citato Convivio 1304-08 (DELI): «dal lat. intelligibile(m)».

2. Un’altra base etimologica

Abbiamo quindi cercato di rintracciare nella “grammatica inconscia”
della lingua idiolettale la regola alla base di quella variante marcata inintellEgìbile.
ra, è per me naturale dire anche intellEgibile (piuttosto che
intellIgibile), da cui è quindi strutturalmente generata la forma prefissata:
in+intellEgìbile.
È anche da tener presente che la forma canonica dell’italiano intellIgibile
(«dal lat. intelligibile(m)») è affiancata dalla variante, non meno canonica,
intellEgibile anch’essa («dal lat. intellegibile(m)» (cfr. Sabatini-
Coletti), databile XIV sec. con S. Bonaventura volgar. e seconda metà del
sec. XIV con S. Agostino volgar. (in Batt. VIII 1973), segnalata (ma non
datata) nei dizionari correnti (per esempio Sabatini-Coletti, De Mauro,
Zingarelli, ecc.).
E analogamente il derivato intellIgibil/ità 1639 B. Fioretti (in Batt. e in
ELI) coesiste con intellEgibil/ità av. 1569 B. Varchi1 (in Batt.2 e in DELI),
apparentemente neoformazione, non essendoci tra l’altro nessun esempio
nel Thesaurus formarum (TF).
Invece non è neoformazione intellIgibil/ità, come pure indicato in tutti
i dizionari, ma comporta un etimo diacronico derivando «dal lat. mediev.
intellIgibilitatem», come si deduce dal Thesaurus formarum (TF) che segnala
l’esistenza di ben 308 esempi databili tra il 736 e il 1499.
Le due varianti italiane in.tel.lE.gi.bi.le (< dal lat. in.tel.lE.gè.bè.lem) e
in.tel.lI.gi.bi.le (< dal lat. in.tel.lI.gè.bè.lem) sono peraltro riconducibili a
una alternanza vocalica latina di tipo apofonico: la sillaba con vocale breve
originariamente in posizione iniziale (l/.gèbèlis) trovandosi per derivazione
in posizione interna e in sillaba aperta (intel.l/.gèbèlis) tende a mutare
il proprio timbro vocalico e>i (intel.li.gèbèlis).

3. Il derivato in/intellEgibile: forma errata?

Se il derivato in/intellEgibile non appare codificato (i.e. riconosciuto e
accettato) nei dizionari correnti della lingua italiana, si potrebbe ritenere
una forma errata; ma tale non è in quanto semanticamente trasparente e
per niente ambigua.
Potrebbe pur sempre essere sanzionato negativamente se rientrante nell’italiano
popolare. Ma non è neppure classificabile come variante diastraticamente
bassa, in quanto il Batt. (1973, vol. VIII) registra in/intellEgibile
come lemma secondario connotandolo diacronicamente come voce “ant.”
I dizionari anche quando riportano le due varianti indicano purtroppo solo la data più lontana,
riferita a entrambe: av. 1565 così in DE MAURO 2000, DE MAURO-MANCINI 2000, ZING 2011; e sec. XVI
in SABATINI-COLETTI 2007.
Non così però PALAZZI-FOLENA et al. 1992 che data solo (e correttamente) la variante intellEgibilità
av. 1565. Devoto-Oli 2010 tralascia invece di lemmatizzare la variante intellEgibilità.
2 Il Batt. (1973, vol. VIII) tralascia tuttavia di indicare come lemma secondario la variante intellEgibil/
ità.
pur senza alcun esempio d’autore. E tuttavia la LIZ ci fornisce un esempio
del ’500 con M. Equicola (1470-1525) Libro de natura de amore (1525):
Pure alcuni philosophi, tra quali io pono primo Platone, cresero Dio curare le cose
humane, prevedere quelle, et ad quelle provedere; benché in nocte, videro, como Plotino,
il quale Plotino disputa di providentia, et affirma da pulchritudine inintellegibile et
ineffabile di Dio descendere fine alla pulchritudine de fiori et frondi (Libro 3, 1).
a scorsa di tale forma nel domenicale del «Sole 24 Ore» consente
ancora di documentare nell’arco di circa un trentennio (1983-2010) due
sempi del 2000 e 2010 significativamente presso una stessa parlante:
(i) il codice risultava alla fine inintellegibile (Ch. Somajni,10.9.2000);
(ii) Una successione di caratteri, ordinati lungo l’asse centrale della pagina, un tempo
forse stringhe di comandi, forse residui ormai inintellegibili di un testo, forse semplicemente
lettere rovesciate a casaccio nel browser (Ch. Somajni, 2.2.2010).
La duplice esemplificazione fa quindi ulteriormente scartare l’ipotesi del
lapsus o del refuso tipografico e conferma la grammatica “profonda” della
derivazione da noi sopra ricostruita.
Naturalmente delle due forme inintellIgibile/inintellEgibile, se la prima
è unanimemente registrata con etimo diacronico (DELI, ecc.), anche
la seconda, assente nella lessicografia (con l’eccezione del Batt.), si configura
come “dono”, derivando «dal lat. inintellEgibilem» stando al Thesaurus
Formarum (TF) che segnala l’esistenza di 8 esempi databili tra le
origini e la fine del II sec. d.C.
La prima forma inintellIgibile è decisamente dominante rispetto all’altra.
La variante marcata è infatti assente nel Primo tesoro della lingua letteraria
italiana del Novecento, formato da 100 testi del Premio Strega del
cinquantennio 1947-2003 (De Mauro 2007); nessuna attestazione nella
esemplificazione letteraria del Batt., né nel TB. Mentre negli undici secoli
i testi della LIZ c’è un solo esempio, e appena due occorrenze in
quasi trent’anni (1983-2010) della pagina letteraria del «Sole 24 Ore»,
come sopra indicato.
Ma una qualche vitalità della variante minoritaria in esame è deducibile
dai circa 71mila “risultati” in Google libri (14.IV.2012), dove però occorrerebbe
distinguere singolarmente (e pazientemente) le occorrenze delle
due forme. Ci limitiamo qui a indicare tra le occorrenze di inintellEgibile
le seguenti:
1693 Fr. Bonaventura di Recanati («Oh questo sì, ch’è massima incredibile, se non
fosse di fede, inintellegibile, inescogitabile», Prediche, Venetia, Paolo Baglioni, tomo I,
p. 106).



E poi nel ’900:

1901 F. Ravello (Attraverso il Quattrocento, Torino, Derossi, p. 41);
1922 Giornale critico della filosofia italiana (voll. 3-4, p. 169);
1941 Cultura neolatina («ogni poesia sarebbe inintellegibile a ogni altra persona che
non fosse il poeta», p. 79);
1946 Rassegna storica del Risorgimento («in una maniera presso che inintellegibile»,
voll. 31-32, p. 72);
949 Delta 1 gennaio («ai confini dell’inintellegibile», p. 30);
1950 G. Saitta (Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento: il Rinascimento:
«empia, inintellegibile e favolosa opinione», Firenze, Zuffi, p. 141).

Ecc.

Non da ultimo, la variante marcata appare “normale” nell’uso di alcuni
universitari della laurea magistrale (poco più che ventenni) e presso
colleghi universitari dell’Università di Catania, come abbiamo potuto
accertare.

4. Altri derivati nominali e avverbiali

Analogamente le due basi aggettivali danno luogo ai due derivati nominali:
inintellEgibil/ità, apparente neoform. (nessuna forma è segnalata nel
TF); manca in tutti i dizz. (Batt., De Mauro, Sabatini-Coletti, Zing., ecc.);
in Google libri (15.IV.2012) 264 risultati; nell’800:
1896: Riforma sociale. Rivista critica di economia e di finanza («Ora, come allora, è
vero, l’aneddoto storico e la definita allusione locale possono illuminarne la densa nebulosità,
quindi l’inintellegibilità per la mente giovanile; ed un buon maestro può senza
dubbio aiutare ed aiuta a vincerle», vol. 6, p. 12);
tre esempi nell’arco 1900-1950, ovvero nel 1940, 1942 (S. Fr. Romano),
1943 (Logos), ecc.; 71 “risultati” nel periodo 1950-1999, ecc.
E inintellIgibil/ità, av. 1712 Magalotti (Batt. e senza etimo), lettera
dell’8 aprile 1681 (in Google libri), non neoformazione come indicato in
tutti i dizionari3, ma con etimo diacronico «dal lat. inintellIgibilitatem»,
stando al Thesaurus Formarum (TF) che indica l’esistenza di 12 esempi databili
tra il 736 e il 1499.
In Google libri 3.650 “risultati”; nel periodo 1650-1699 con due esempi,
di cui uno consente di retrodatare il Magalotti 1681:
3 Così in DE MAURO av. 1712, DE MAURO-MACINI av. 1712, SABATINI-COLETTI sec. XVIII, e ZINGARELLI
che omette anche la datazione.

I

1650 Michele De Calvo («Se io giro l’occhio, nel corrente Vangelo altro non veggio,
ch’ecclisse: cioè oscurità di scritture, e inintelligibilità di misteri», Assunti sopra i vangeli
della Quaresima, Venetia, Giunti, e Hertz, parte seconda, p. 173);
1682 Pier Matteo Petrucci («egli tanto più è amabile, quanto meno è intelligibile;
perche la sua inintelligibilità è originata dalla sua eccessivamente sovrana e illimitabile
perfezzione», La contemplazione mistica acquistata, Venetia, Gio Giacomo Hertz, p. 130)

E quindi, gli avverbi:

inintellEgibil/mente, neoformazione assente in tutti i dizz. (Batt.,
DELI, DeM-M, DeM, Sabatini-Coletti, Devoto-Oli et al.). In Google libri,
solo 5 esempi nell’arco di un secolo (1900-2012):
1911 Federico Confalonieri («Io non so come potrai leggermi; ad ogni modo bramo
che te ne vendichi collo scrivermi altrettanto a lungo, ma non arriverai sicuro a farlo
altrettanto inintellegibilmente», Carteggio, Milano, Tipo-litografia Ripalta, vol. 2, parte
1, p. 210);
av. 1963 B. Fenoglio [1922-1963] («dalla macchina qualcuno cominciò a splutter inintellegibilmente
a un megafono», Opere, Torino, Einaudi 1978, p. 585);
1992 Ch. Baudelaire («ogni tanto sospira inintellegibilmente», Paradisi artificiali,
Roma, Newton, tr. it. rist. 2011);
1993 P. Hadot («In questo momento essa ancora non vede, o piuttosto vede «inintellegibilmente
», cioè senza distinguere il suo oggetto, «vive» solamente, ci dice Plotino, e
opera un movimento di conversione verso il suo oggetto», Porfirio e Ottorino, Milano,
Vita e Pensiero, tr. it., p. 204);
2006 Bollettino di studi latini («inintellegibilmente arrossito», Napoli, Loffredo, p. 47).
E inintellIgibil/mente, neoformazione, datata sec. XX (DeM, DeM-M;
senza data in Zing., Sabatini-Coletti; mancante in Batt., DELI, Devoto-Oli
et al.); in Google libri (16.IV.2012) 369 risultati e quindi retrodatabile al:
1774 Giovanni Gualberto de Soria («una immaginazione [...] non istravolta mai, non
gonfia, non falso sottile, non inintelligibilmente sublime», in Raccolta di opere inedite. Contenente
i caratteri di varj uomini illustri, Livorno, Tommaso Masi e Comp., tom. 2, p. 54);
1782 Ferdinando Sanftleben (Grammatica tedesca, ovvero, Introduzione sincera, e chiara
per imparare con facilità li fondamenti veri, e buoni della Lingua Tedesca, Milano, Fratelli
Reycends, edizione terza, p. 291).
Ecc.
Anche le basi intellEgibile/intellIgibile danno luogo a loro volta agli avv.:
intellEgibil/mente (solo in Palazzi-Folena et al. 1992, e senza data;
mancante in DELI, DeM-M, Zing., Sabatini-Coletti, Batt.); 180 risultati
in Google libri (16.IV.2012); databile nella seconda metà dell’800 con
un solo esempio:
1885 Federigo Gilbert de Winckels («Alla tua opera periodica, dovendo essere nazionale,
conviene la lingua elegantemente e intellegibilmente scritta dalla nazione», Vita di
Ugo Foscolo, Verona, Libraria H.F. Münster, vol. 1, p. 187).
Due esempi nella prima metà del ’900:
1900 («raccoglie, prepara e distribuisce intellegibilmente le delineazioni della forma»,
in «Rivista musicale italiana», vol. 7, p. 187);
1929 («una legge promulgata in questi giorni in Norvegia, a termini della quale i medici
saranno obbligati d’ora innanzi a scrivere intellegibilmente le loro ricette», «Rivista di
biologia», vol. 11, p. 251).
E intellIgibil/mente av. 1364 Zanobi da Strata (Batt.), av. 1364 (De
Mauro, DeM-M); senza data in Palazzi-Folena et al., Zing., Sabatini-Coletti.

5. Paradigma derivazionale

Possiamo quindi riassumere i dati principali sopra analizzati nei seguenti
paradigmi derivazionali a raggiera e a catena, disposti in ordine di data di
prima attestazione:
inintellIgibil/ità
1650 M. De Calvo, 1681 Magalotti,
«dal lat. mediev. inintellIgibilitate(m)»
in/intellIgibile inintellIgibil/mente
1304-08 Dante 1774 G. Gualberto de Soria, neoform.
«dal lat. tardo eccl. inintellIgibile(m)»
1.a. intellIgibile intellIgibil/mente
1304-08 Dante av. 1364 Zanobi da Strata, neoform.
«dal lat. intellIgibile(m)» intellIgibil/ità
1639 B. Fioretti
«dal lat. mediev. intellIgibilitate(m)»
inintellEgibil/ità
1896 Riforma sociale, neoform.
(nessun esempio in TF)
in/intellEgibile inintellEgibil/mente sec. XX
av. 1525 Equicola 1911 Confalonieri, neoform.
dal lat. inintellEgibile(m)
1.b. intellEgibile intellEgibil/ità
XIV sec. San Bonaventura av. 1565 B. Varchi, neoform. (nessun esempio in TF)
volgar. «dal lat. intellEgibile(m)» intellEgibil/mente
1885 Federigo Gilbert de Winckels, neoform.



6. Conclusione

Insomma i parlanti che usano la variante in/intellEgibile (e derivati)
tano per un “dono”/prestito dal latino di minor vitalità, non registrata
dai dizionari, ma corretta in quanto suffragata da utenti colti, rispetto a
quelli che ricorrono alla variante in/intellIgibile (e derivati), anch’essa
“dono” del latino tardo, pienamente codificata, anche per l’avallo dantesco;
tutti gli utenti muovono peraltro da due varianti di base (intellEgibile
e intellIgibile), la seconda col prestigio dantesco, entrambe “doni” latini,
che hanno dato luogo a una produzione di ulteriori derivati (sostantivi
e avverbi), tutti in plurisecolare coesistenza, a confermare con Sapir
(1921), e ora con Renzi (2012), il drift o deriva linguistica rispetto ai presunti
cambiamenti catastrofici.

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* Docente di linguistica italiana presso l’Università di Catania

***

Per quanto attiene al significato, forse poco conosciuto, di "apofonico" si veda questo collegamento:
http://www.sapere.it/enciclopedia/apofon%C3%ACa.html

martedì 4 giugno 2013

Onde, comunque, dovunque...

Una riflessione sull’uso improprio, ma forse sarebbe meglio dire errato, di tre avverbi: onde, comunque, dovunque. Cominciamo con il primo che, come tutti dovrebbero sapere, è il latino “unde” (da dove) il cui significato fondamentale è quello di “da quale luogo” (da dove): onde vieni? Da questa accezione primaria sono scaturite tutte le altre, sempre con valore di provenienza; di qui i significati di “da cui”, “di cui”, “con cui”, “per cui”, “nel luogo da cui”: c’è una terrazza onde (da cui) si vede tutto. Da un po’ di tempo è invalso l’uso – ed è questo il punto dolente – di usare “onde” con valore di congiunzione: ti dico ciò ‘onde’  tu possa regolarti in merito. No, cortesi amici, quest’uso è antiquato e improprio, per non dire errato; meglio ricorrere all’ausilio delle congiunzioni finali (perché, affinché ecc.), le sole legittimate allo scopo: ti dico ciò “affinché” tu possa regolarti in merito. Da evitare inoltre, nel modo piú assoluto, l’uso di ‘onde’ seguito da un infinito (anche se c’è qualche esempio d’Autore): ti scrivo ‘onde’ rendere noto quanto segue. In casi del genere, è bene ribadirlo, si debbono usare le congiunzioni finali. E veniamo a comunque e dovunque. Il primo (insieme con qualunque) non è propriamente un avverbio, ma un “aggettivo-avverbio” e significa “in qualunque modo”, “in ogni modo” e, checché ne dicano alcuni pesudogrammatici, non può essere adoperato – per la sua natura di aggettivo relativo – in senso assoluto; deve introdurre, insomma, una proposizione; occorre dargli, cioè, la reggenza di un verbo, meglio se al modo congiuntivo: farò quello che dici tu, ‘comunque’ stiano le cose. Sí, sappiamo benissimo che questa “regola” è disattesa da tutti, indistintamente. Si trova, molto spesso, adoperato in modo assoluto, cioè da solo. Voi, amanti del bel parlare e del bello scrivere non seguite questa “moda”. Il medesimo discorso per quanto attiene all’avverbio dovunque. Questo, infatti, essendo un avverbio relativo deve introdurre una proposizione, deve, cioè, reggere un verbo: ‘dovunque’ c’è un fiume c’è umidità; verrò ‘dovunque’ tu voglia. Moltissime persone lo adoperano nell’accezione (errata) di “dappertutto”, “in ogni luogo”: andrò ‘dovunque’. Anche in questo caso non seguite la “moda”, osservate le norme linguistiche che vietano l’uso assoluto di dovunque (e ovunque, che ha il medesimo significato), anche se alcuni
pseudolinguisti ritengono essere solo una “sottigliezza linguistica”.
----------
Un manuale per risolvere i dubbi linguistico-grammaticali più frequenti. Pensato per i giornalisti e utile per tutti coloro che quotidianamente "combattono", per lavoro, con la lingua italiana. Edito da Gangemi, Roma.

Volume vincitore, per la manualistica, alla III edizione del premio letterario nazionale "L'Intruso in Costa Smeralda".