venerdì 16 aprile 2010

Lo pseudonimo


Ci sembra particolarmente interessante spendere due parole su un uso, o meglio su un costume linguistico e letterario: lo pseudonimo. Il termine, in senso proprio, significherebbe “che porta un falso nome” derivando, il vocabolo dal greco “pseudo” (falso) e “ònyma”, variante di “ònoma” (nome). La falsità, tuttavia, è in senso benevolo: non si può includere sotto questa parola , per esempio, il nome falso che un incallito delinquente fornisce alla polizia per sviare le ricerche. Gli pseudonimi sono affini ai soprannomi in quanto sia gli uni sia gli altri sono dei modi di chiamare le persone non rispettando il nome e il cognome autentico. C’è, tuttavia, fra i due modi una differenza fondamentale: il soprannome è imposto da altri, lo pseudonimo è scelto dalla persona interessata. L’uso dello pseudonimo era assai diffuso, nei secoli passati, all’atto dell’arruolamento con il cosí detto nome di battaglia, soprattutto in Francia, tra il Seicento e il Settecento. Da noi, in Italia, quando Garibaldi si arrolò nella marina sarda si impose il nome di battaglia, di vago “sapore” classico, di Cleòmbroto. Dopo un periodo di silenzio i nomi di battaglia ricomparvero nella guerra italo-austriaca e, piú recentemente, nella file della Resistenza. L’uso degli pseudonimi è dilagato, però, in letteratura a opera di personaggi “di rilievo” che desideravano conservare l’anonimato come, per esempio, il re Giovanni di Sassonia, che tradusse la “Divina Commedia” con il falso nome di Filatete o la regina Elisabetta di Romania che firmava i propri scritti letterari con lo pseudonimo di Carmen Sylva. Non si sottrassero all’usanza degli pseudonimi alcuni scrittori che ritenevano il nome vero non bello o “sonoro” come l’avrebbero desiderato. Altre volte, invece, il cambiamento di nome non è dovuto alla sua “sonorità” ma al ritegno degli interessati a “sbandierarlo”: si tratta, molto spesso, di giovani che si cimentano per la prima volta e attendono, prima di “esibirsi” con il vero nome, il verdetto di critici; talvolta di donne che preferiscono pubblicare i propri scritti con il nome di un uomo. Tipico, a questo riguardo, l’esempio di George Sand. Sempre in campo letterario - dove l’uso o il costume degli pseudonimi si è maggiormente radicato - meritano particolare attenzione i nomi accademici. Nel XVI secolo le accademie che fioriscono in Italia erano come piccoli mondi appartati, basati su una finzione iniziale: nell’Accademia degli Umidi (1) i nomi degli stessi si riferivano tutti all’acqua o ai pesci; di qui il nome di Lasca assunto da Antonfrancesco Grazzini; nell’accademia della Crusca i nomi alludevano, invece, al pane o alla farina: l’Insaccato, l’Infarinato, l’Intriso. L’Arcadia (2) “vive” nel mondo pastorale greco e adotta nomi conformi a quella finzione: Cario, Alfesibeo, Corilla Olimpica. Ma anche il teatro, per concludere queste modeste noterelle, non si sottrae all’uso del mondo letterario e per gli stessi motivi sopra accennati.

(1)
http://it.wikipedia.org/wiki/Accademia_degli_Umidi
(2)
http://it.wikipedia.org/wiki/Accademia_dell%27Arcadia

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Tranne/tranne che richiedono sempre un complemento diretto oppure anche introdotto da un'altra preposizione?

Fausto Raso ha detto...

"Tranne" e "tranne che" non debbono assolutamente essere introdotte, anzi seguite, da una preposizione: questo giornale esce tutti i giorni tranne il lunedí; verrò a trovarti tranne che non parta prima.

il puntiglioso ha detto...

Gentile dr Raso, volevo informarla che "il Cannocchiale", a me, funziona perfettamente.

Fausto Raso ha detto...

Gentile puntiglioso, purtroppo, per ragioni a me sconosciute, continuo ad avere l'accesso negato al Cannocchiale. Le "noterelle", come ha visto, sono "fruibili" su www.faustoraso.blogspot.com