... vale a dire intraprendere un viaggio molto lungo
verso un luogo favoloso ma molto difficile da raggiungere. Il modo di dire –
forse poco conosciuto – si rifà a una ipotetica catena di monti che gli antichi
geografi avevano stabilito essere al centro dell’Africa, vicino all’Equatore e
dalla quale ritenevano nascesse il fiume Nilo. La credenza popolare, inoltre,
voleva che le sue viscere contenessero immense miniere d’oro e d’argento. C’è
da dire, per la cronaca, che la convinzione che questi monti esistessero
realmente perdurò fino alla metà del XIX secolo.
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Fra poche
settimane i cittadini italiani saranno chiamati alle urne. Siamo, per tanto, in
piena campagna elettorale. Non vogliamo, da questo portale, fare propaganda per
questo o quel partito, non è nella nostra filosofia; vogliamo solo vedere,
sotto il profilo prettamente linguistico, come è nata e che cosa è,
esattamente, la “campagna elettorale”. Vediamo, innanzi tutto, che cosa è
la campagna in senso lato. È, come recitano i vocabolari, un’ampia distesa di
terreno aperto e pianeggiante, coltivato o coltivabile, lontano dai grossi
centri abitati. Il termine viene, come il solito, dal latino “campania(m)”,
tratto da “campus” (campo), di origine non chiara. Bene. Ma cosa c’entra
l’agricoltura con le elezioni, cioè con la campagna elettorale? si domanderanno
i nostri amici blogghisti. È presto detto. Dal significato di campagna come “terreno che può essere coltivato”
nascono le espressioni “campagna bacologia”, “campagna granifera”, dove
con il termine campagna si intende il “periodo in cui si svolge
un’attività agricola”. Di qui, è intuitivo, la locuzione campagna elettorale,
cioè “periodo atto allo svolgimento della propaganda elettorale”. Infine,
attraverso un’altra evoluzione semantica, sono state coniate le
espressioni “campagna di stampa”, “campagna abbonamenti”, “campagna per
il tesseramento” e via dicendo dove con ‘campagna’ si intende, appunto, “periodo
atto a...”.
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Un cortese lettore di questo
portale domanda, scandalizzato, se è corretta la frase letta in un giornale
(che non cita): “Piero aveva i diti medi fratturati”. Diti? si chiede il
lettore. Non si dice "dita"? Sí, gentile amico, la frase è
correttissima; questa volta diamo atto al giornalista, estensore dell’articolo,
di aver usato la lingua di Dante in modo corretto. Il plurale di dito è: “dita”
(femminile) se si considerano nel complesso: le dita delle mani, del
piede; “diti” (maschile) se considerati separatamente: i diti medi; i diti
mignoli.
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È corretto
apostrofare il pronome personale “ci” davanti al verbo avere? Molto spesso mi
capita di leggere, sulla stampa, frasi tipo “c’hanno detto che...”. Insomma, ci
hanno o c’hanno? ci domanda un cortese lettore di Fiuggi. Nessuna legge
grammaticale vieta di apostrofare la particella pronominale “ci” e
l’omonimo avverbio di luogo davanti a parole che cominciano con le vocali
“e” e “i”: c’entra, c'invitò. Alcuni linguisti ammettono l’apostrofo
anche davanti ad altre vocali. Ci sembra un uso scorretto e da condannare.
L’elisione è corretta solo se, come dicevamo, la parola che segue la particella
comincia con una “e” o una “i” al fine di conservare alla consonante “c” il
suono palatale. Davanti alle altre vocali la “c” acquisterebbe un suono
gutturale: ci approvò e non c’approvò; ci andrei e non c’andrei, ché si
leggerebbero rispettivamente “capprovò” e “candrei”. Per lo stesso motivo
bisogna scrivere ci hanno e non c’hanno in quanto si leggerebbe “canno”.
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La parola proposta da questo portale: porrigine. Sostantivo femminile, in medicina indica una qualunque affezione del cuoio capelluto.
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La parola proposta da questo portale: porrigine. Sostantivo femminile, in medicina indica una qualunque affezione del cuoio capelluto.
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