Prima di occuparci delle due locuzioni – tra l’altro
conosciutissime – e considerato il fatto che la lingua non ha “compartimenti
stagni” ci preme spendere due parole, sotto il profilo grammaticale, sull’…
orecchia, che con il maschile orecchio (e i rispettivi plurali) si equivalgono;
il maschile, però, è piú comune, mentre la forma femminile si adopera in
particolari espressioni figurate come, per esempio, “avere le orecchie d’asino”
o nel significato di “piegatura” degli angoli della pagina di un libro o di un
quaderno. Orecchio e orecchi, quindi, nel significato proprio, cioè come organi
dell’udito; orecchia e orecchie, invece, nei significati figurati. E veniamo ai
due modi di dire di cui il primo, per la “regola” suddetta – a nostro modesto
avviso – è “fare orecchi…”, non “orecchie”, come si sente dire comunemente. L’espressione,
dunque, trae origine dall’abitudine dei mercanti di far finta di non udire le
lamentele dei clienti o di sentire solo ciò che fa loro comodo, “incolpando” la
confusione della piazza del mercato. Riportiamo, in proposito, una curiosa
storiella narrata da Dino Provenzal: «Un turco, qualche secolo fa, andò a
comperare una stoffa a Costantinopoli e domandò il prezzo. “Ma quanta ne volete?”,
domandò il mercante. “Oh, tanta quanta è la distanza dal mio orecchio sinistro
al mio orecchio destro”. “Allora basterà una piastra” (una moneta turca, ndr). “Benissimo”.
Il turco si tolse il turbante che gli avvolgeva il capo e disse: “Il mio
orecchio sinistro, come vedete è qui: il destro è inchiodato sul banco di un
negozio di Bagdad”. Non sappiamo se rimase buggerato il turco o il negoziante
che probabilmente non era a conoscenza della barbara usanza: gli avventori che
venivano sorpresi a rubare erano puniti con il taglio di un orecchio che veniva
inchiodato sul bancone… a “futura memoria”». Quanto alla seconda locuzione, “a
prezzi stracciati”, cioè bassissimi, deriva, con molta probabilità, dal fatto
che i “piazzisti”, vale a dire i mercanti ambulanti, sono soliti stracciare i
prezzi davanti agli avventori, al fine di convincerli che i nuovi prezzi
proposti sono effettivamente piú bassi di quelli appena “stracciati”.
***
Navigando in Internet abbiamo scoperto che buona
parte delle persone “di cultura” ritengono che si dica “malevole” e non,
correttamente, malevolo. Credono, insomma, che l’aggettivo in oggetto
appartenga alla seconda classe, come “facile”, per esempio e abbia, quindi,
un’unica desinenza, tanto per il maschile quanto per il femminile ('-e',
maschile e femminile singolare; 'i', maschile e femminile plurale). No, la
forma corretta è malevolo perché viene dall’aggettivo latino ‘malévolus’, della
seconda declinazione, e la desinenza ‘-us’ latina si tramuta normalmente nella
terminazione ‘-o’ del maschile italiano. È, quindi, un aggettivo della prima
classe, come “buono”, le cui desinenze sono ‘-o’ e ‘-i’ per il maschile
singolare e plurale, ‘-a’ e ‘-e’ per il femminile singolare e plurale. Diremo,
quindi, “uno scritto malevolo”, con il plurale “malevoli” e “una critica
malevola” con il plurale “malevole”. Identico discorso per “benevolo”.
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