martedì 30 aprile 2013

Rimarcare alla francese

Un consiglio, che personalmente seguiamo e… consigliamo agli amanti del bel parlare e del bello scrivere, del linguista Aldo Gabrielli circa l’uso corretto del verbo rimarcare (i “ritoccatori” del vocabolario in rete non ne fanno menzione).


Rimarcare in italiano significa soltanto “marcare di nuovo”; ma da noi si usa piú spesso, sguaiatamente, nel significato del francese ‘remarquer’, cioè nel significato di “notare”, “osservare”, “rilevare”, “segnalare”, “considerare” e simili: «Gli fece rimarcare l’errore»; «Debbo rimarcare un’eccessiva trascuratezza»; «Non rimarcai nulla di nuovo» e simili; si sostituisca il francesismo con uno dei verbi ora detti. Dicono, peggio ancora, “rimarchevole” e “rimarcabile” (fr. ‘remarquable’) invece di “notevole”, “notabile”, “importante”, “ragguardevole”, “considerevole”, “appariscente”, “segnalato” e simili. Infine si respinga anche “rimarco” (fr. ‘remarque’) e si dica “osservazione”, “nota”, “avvertimento”, “critica”, “appunto”, “obiezione”, “censura”, “rimprovero”, “richiamo” e simili (non “rilievo’)».

Il vocabolario Gabrielli in rete:
rimarcare1
[ri-mar-cà-re] (rimàrco; si coniuga come marcàre)
v.tr.
Marcare di nuovo; rimarchiare

rimarcare2
[ri-mar-cà-re] (rimàrco; si coniuga come marcàre)
v.tr.
Notare, rilevare, segnalare: gli fecero r. il suo errore


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I porchi comodi...

Qualcuno - se non tutti - strabuzzerà gli occhi: “porchi”!? Come è possibile un simile strafalcione? No, amici, non è uno strafalcione.
Tutti i “sacri testi” che abbiamo consultato tacciono sull’argomento, ma “porchi” è forma correttissima. Quando il sostantivo ‘porco’ è usato in funzione aggettivale con il significato di “spregevole”, “indecente”, “orribile” e simili, nella forma maschile plurale “può” prendere la desinenza “-chi” in luogo di quella comunemente in uso “-ci”. A voler sottilizzare, anzi, porchi ‘sarebbe’ la sola forma corretta perché i sostantivi in “-co” piani (con l’accento tonico sulla penultima sillaba) nel plurale conservano il suono gutturale; quelli sdruccioli, invece, lo perdono. Naturalmente non mancano le eccezioni e porco è una di queste; in funzione di sostantivo, infatti, il plurale “corretto” è porci.





sabato 27 aprile 2013

Battere la fiacca








Perché la fiacca si batte? Lo spiega un articolo di Matilde Paoli della redazione consulenza linguistica della Crusca.
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/perch-fiacca-si-batte

Ma cos'è questa fiacca? "Risponde" Ottorino Pianigiani.




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Il linguaggio maccheronico (o maccaronico)

Gentile dott.Raso,
perché quando una persona parla male una lingua si dice che adopera un linguaggio maccaronico?
Grazie se avrò una risposta e molti complimenti per il suo istruttivo "servizio".
Costantino A.
Alghero
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Cortese amico, do la "parola" a 'Sapere.it':

«Non com. macaronico e maccaronico, agg. [f. -a; pl.m. -ci, f. -che] 1 si dice di un linguaggio burlesco costituito da parole del volgare o dialettali assoggettate alla morfologia e alla sintassi del latino; originatosi dalla poesia goliardica medievale, costituì un particolare strumento satirico-parodistico nella letteratura dei secc. XV e XVI, salendo a espressione d’arte con Teofilo Folengo (1491-1544): latino maccheronico; poesia maccheronica, in linguaggio maccheronico 2 ( estens.) si dice di una qualsiasi lingua storpiata da persona che la parla o scrive male: parla un inglese maccheronico ¨ n.m. [pl. -ci] linguaggio maccheronico ? maccheronicamente avv.


¶ Deriv. di maccherone, in quanto piatto rustico in cui si mescolano vari ingredienti; latino maccheronico può essere l’equivalente di latino di cucina, espressione con cui in età umanistica si alludeva al latino parlato dai cuochi nei conventi».

venerdì 26 aprile 2013

L'ariolo



Tra le parole estinte o in via di estinzione segnaliamo ariolo. La quasi totalità dei vocabolari dell'uso non l'attestano piú. Ci piacerebbe, invece, che fosse rispolverata perché l'ariolo impazza in tutte le emittenti televisive private. Chi è? Il mago, l'indovino, lo stregone.
Diamo la "parola" al Tommaseo-Bellini. Si clicchi su: http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=ariolo&searchfor=ariolo&searching=true

mercoledì 24 aprile 2013

Lingua italiana: sempre piú giú

È veramente triste constatare come di giorno in giorno la lingua di Dante, idioma gentil sonante e puro, per dirla con l'Alfieri, stia precipitando nel baratro. Il DOP marca con "meno bene" alcune voci del verbo dare: dasti, daste, dassi. "Meno bene" non significa errato, non vorremmo, quindi, che qualche studente sprovveduto, seguendo le indicazioni del dizionaro su menzionato, usasse queste voci, soprattutto in un componimento...

PS. Non sarebbe il caso che i responsabili del dizionario vi apportassero degli emendamenti? Invitiamo, per tanto, qualche autorevole linguista - se per caso si dovesse imbattere in questo sito - a segnalare l' "orrore".

martedì 23 aprile 2013

Le amalgame

Tutti i vocabolari si accapigliano per stabilire il genere di questo sostantivo: chi lo dà tassativamente maschile, chi ammette anche il femminile avvertendo, però, che è di uso non comune (come, per esempio, il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia). Quindi: l'amalgama, gli amalgami; l'amalgama, le amalgame.
Per l'origine e il significato ci rimettiamo a quanto dice il Pianigiani:
Da parte nostra non ci sentiamo di tacciare di ignoranza (come usano alcuni soloni della lingua) coloro che preferiscono la forma femminile, pur sapendo che non è molto comune. Una rapida occhiata a Googlelibri ci ha sorpreso. La forma femminile plurale prevale su quella, piú comune, maschile: 1.270 occorrenze contro 412.

https://www.google.it/search?q=%22le+amalgame%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it#hl=it&tbm=bks&sclient=psy-ab&q=%22le+amalgame%22&oq=%22le+amalgame%

https://www.google.it/search?q=%22le+amalgame%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it#hl=it&tbm=bks&sclient=psy-ab&q=%22gli+amalgami%22&oq=%22gli+amalgami%22&gs_l=serp.12...80000.85906.3.104265.14.12.2.0.0.0.547.4094.2-5j4j2j1.12.0...0.0...1c.1.9.serp._0qP39OHjiI&psj=1&bav=on.2,or.r_cp.r_qf.&bvm=bv.455

In proposito si legga anche la "nota d'uso" cliccando su: http://www.sapere.it/sapere/dizionari/dizionari/Italiano/A/AM/amalgama.html?q_search=amalgama

Concludiamo dando la "parola" al linguista Aldo Gabrielli, che nel suo "Si dice o non si dice?", scrive:

«Amalgama è da almeno tre secoli nel nostro lessico, e sul suo significato siamo tutti d’accordo: mescolanza, impasto oppure lega di un metallo col mercurio. Ma per molti rimane incerto il sesso di amalgama, e non ci aiutano gli esempi di scrittori autorevoli: per alcuni è femminile, per altri è maschile. Né ci aiuta dare un’occhiata a quello che succede in Europa: per i francesi è maschio, per gli spagnoli è femmina.


Andiamo all’origine del vocabolo. Amalgama deriva da un latino medievale degli alchimisti amàlgama, di genere neutro, probabile deformazione araba (al-malgan) del greco málagma, mistura, impasto, che discende a sua volta dal verbo malásso, rammollisco (per l’aspetto molle della lega). Secondo altri, invece, il neutro latino sarebbe l’alterazione del sinonimo algama, dall’arabo al-gamâa, che significa “riunione”. L’oscillazione del genere è dovuta evidentemente alla terminazione -a del vocabolo, propria dei femminili in italiano. Ma l’italiano non manca di nomi in -a di genere maschile: il papa, l’auriga, il profeta, il collega, l’eremita eccetera. Di qui la confusione. Decidiamoci: l’origine del vocabolo è di genere neutro; si sa che il neutro latino sfocia normalmente nel maschile italiano. Facciamolo maschile, e basta alchimie: “un perfetto amalgama”».

lunedì 22 aprile 2013

Il "che" polivalente

Crediamo sia il caso di emendare quanto si legge nel sito www.linkuaggio.com a proposito del cosí detto che polivalente. L’esperto linguistico del sito scrive:

«No al "che" polivalente . Altro errore diffuso e ingiustificabile è l'utilizzo del "che" polivalente. Il pronome relativo "che", infatti, può avere solo funzione di soggetto o complemento oggetto; per fare riferimento allo spazio o al tempo, ad esempio, dovrete utilizzare o "cui" (con la relativa preposizione) o altre parti del discorso; non potete scrivere, infatti, *il giorno che sono nato: è sbagliato; dovete scrivere, invece, "il giorno in cui sono nato". "Che", insomma, non va utilizzato sempre e comunque (l'abuso che se ne fa oggigiorno ha portato alcuni a definirlo proprio "che tuttofare")».


No, amici, il “che” della frase “il giorno che sono nato” è perfettamente in regola con le leggi grammaticali. È, infatti, normale, quando si adopera come pronome relativo invariabile con valore temporale. Ed è questo il caso. È interessante, in proposito, l’articolo di Giuliana Fiorentino. Si clicchi su:
 http://www.treccani.it/enciclopedia/che-polivalente_(Enciclopedia_dell'Italiano)  /

Si veda anche il punto 2 cliccando su questo collegamento: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/C/che_1.shtml





domenica 21 aprile 2013

Trascendente e trascendentale







Un articolo di Simona Cresti, della redazione consulenza linguistica della Crusca: http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/niente-trascendentale


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Il pozzo di San Patrizio

 
            «Papà, ho bisogno di trecentocinquanta euro per la revisione completa della motocicletta» disse il giovane Raimondo appena entrato in casa, di ritorno da un viaggio in lungo e in largo per l'Italia. Il padre, risentito per le pretese del figlio, sbottò, «io vivo di stipendio, figliolo, non ho il pozzo di San Patrizio!». Quante volte, anche a voi sarà capitato di dire frasi del genere inconsciamente, per indicare che non si possiede una fonte di ricchezze inesauribile, come sta a significare, appunto, l'espressione "avere il pozzo di San Patrizio". Vediamo, allora, come è nata questa locuzione, anche se il suo uso è improprio. Narra una leggenda che questo pozzo altro non era che una profondissima caverna - situata in un'isola del lago Derg, in Irlanda - rivelata da Cristo, nel VI secolo, al santo patrono di quella nazione, il vescovo Patrizio e da questo miracolosamente aperta per convincere gli Irlandesi a convertirsi alla fede cristiana. Sempe secondo la leggenda, dal "pozzo" si poteva intravedere una "via" che menava all'altro Mondo. Coloro che vi si trattenevano in preghiera ininterrottamente, per un giorno e una notte, ottenevano la remissione dei peccati. Quest'espressione, dicevamo, è adoperata impropriamente per indicare una fonte di denaro ritenuta inesauribile da colui che vi attinge. Possiamo azzardare l'ipotesi, dunque, secondo la quale la "via" del pozzo era molto lunga, "inesauribile", da qui il detto popolare "avere o essere il pozzo di San Patrizio".

sabato 20 aprile 2013

Sto "disfando" la valigia



Si presti attenzione alla corretta coniugazione del verbo "disfare": essendo un composto di 'fare' si coniuga come questo. Un errore molto comune si riscontra nel gerundio: disfando. La sola forma corretta è "disfacendo", come 'facendo', per l'appunto. Navigando in Internet ci siamo imbattuti in scrittori che sono caduti in questo madornale errore, forse incoraggiati da un "coniugatore di verbi" che dà, come variante di disfacendo, la forma errata "disfando". Si vedano i collegamenti in calce.

https://www.google.it/search?q=%22disfando%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it


http://www.wordreference.com/conj/ItVerbs.aspx?v=disfare

venerdì 19 aprile 2013

L'omofobia






Un'interessante disquisizione linguistica sull'argomento.
Si clicchi su: http://www.achyra.org/cruscate/viewtopic.php?t=3755

giovedì 18 aprile 2013

Centra e... c'entra

Navigando in Internet ci siamo imbattuti in un sito (www.apollodoro.it) che tratta di problemi linguistici. Gli abbiamo dato una rapida scorsa e abbiamo notato alcune imprecisioni, per non dire errori, che vanno emendate per non far cadere in… errore i fruitori del sito stesso. “Apollodoro” scrive:


• A me mi piace vs A me piace: a me e mi significano la stessa cosa in questo caso, inutile e sbagliato ripeterli.

• Un pò vs Un po’: è uno dei pochi casi di troncamento in cui ci vuole l’apostrofo, l’accento non centra nulla.

• Eccoci tornati con un nuovo dubbio con cui la grammatica italiana miete molti vittime. Si scrive glielo o gliel’ho? Qualcuno si chiede anche se si scrive glielo gliel’ho o glie lo, andiamo dunque a vedere quale sia la forma corretta. Diciamo subito che glie lo è sbagliato: non si scrive staccato, da dove mai dovrebbe derivare la parola ‘glie’? Provate a cercarla sul dizionario: non la troverete. E questo perché è una parola che non esiste, quindi almeno questo dubbio è risolto.

• Eccoci di ritorno a un nuovo dubbio della grammatica italiana: si scrive d’altronde o daltronde? La settimana scorsa ci eravamo concentrati su una difficoltà lessicale che non ha delle regole ben precise: l’uso della d eufonica, che avevamo analizzato qui. Questa volta vogliamo capire se si scrive d’altronde o daltronde. Ovviamente bisogna subito dire che l’unica forma corretta è d’altronde, con l’apostrofo: se avete un correttore ortografico attivo, vi sarete resi conto che vi sottolinea sempre la parola daltronde quando la scrivete. Questo non perché si sia incaponito a rendere la vostra pagina un coacervo di lineette ondulate rosse, ma perché effettivamente non è la forma giusta.

Andiamo per ordine con gli “emendamenti”:

A me mi piace non è bello stilisticamente ma non si può considerare un errore.

Un po’, giustissimo l’apostrofo, ma il verbo “centrare” non… c’entra.

Glie lo non è affatto errato, anzi sarebbe da preferire per analogia con le forme “me lo”, “te lo”, “ve lo” ecc.

Daltronde è forma meno comune di “d’altronde”, ma non errata.
È lo stesso caso, insomma, di “d’accordo” e “daccordo” e di altre parole che, comunemente, si scrivono con l’apostrofo anche se la grafia univerbata non è considerata errata.


Dal sito “webbando.com”:

La forma senz’altro corretta è D’accordo (ad es. “sono d’accordo con quanto hai suggerito…”). Attenzione però! Perché usare la forma unita, daccordo, non è scorretto, ma raro. È infatti consentito anche il suo utilizzo secondo il Dizionario di Ortografia e Pronunzia, ripreso dalla Accademia della Crusca, ovvero l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana, considerato l’organo più autorevole al riguardo (Ad es. Lei è Daccordo con quello che ha appena esposto“).

Ma il caso riguardante il duplice utilizzo di D’Accordo e Daccordo non è l’unico in cui ci si ritrovano due termini, uno più utilizzato, l’altro considerato forma rara, ma non errore. Ecco altri esempi che aiuteranno il lettore a chiarire ulteriori dubbi: a fianco (forma più utilizzata) e affianco (affianco a me c’è un altro personaggio molto noto) che è registrato con rimando alla forma separata. D’altronde e Daltronde (Daltronde questa idea era venuta anche a me), la quale è indicata come forma meno comune, poc’anzi e pocanzi (pocanzi è uscito), sempre indicata come forma meno comune, e infine senzaltro (senz’altro), tuttaltro (tutt’altro) e tuttoggi (tutt’oggi) sono indicate come forme rare. (Senzaltro giungerò puntuale a quell’appuntamento; Ho detto tuttaltro rispetto a quello che ha riportato; a tuttoggi non ho ricevuta alcuna notizia al riguardo). Il nostro consiglio è comunque quello di utilizzare sempre le forme più utilizzate ed eleganti, evitando quelle rare. (Abbiamo corretto alcuni errori di battitura del testo).





mercoledì 17 aprile 2013

La selafobia





Cortese dott. Raso,
la ringrazio per la sua tempestiva ed esauriente risposta circa la “scotofobia”. Approfitto, ora, della sua non comune disponibilità per altri due quesiti. Uno riguarda le fobie, l’altro la grammatica. Sento sempre piú spesso dire “piú intimo”: il mio piú intimo amico. È corretto? Intimo non è di per sé un superlativo assoluto? E vengo alla fobia. Quale termine indica la paura dei lampi, dei fulmini? Certissimo di una sua gentile ed articolata risposta, la ringrazio anticipatamente e le porgo i miei piú vivi ossequi.

Giovanni T.
Gorizia

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Caro amico, le rispondo con piacere. Comincio dal quesito grammaticale. Effettivamente intimo è già superlativo e non si potrebbe alterare ancora. Con il trascorrere del tempo, però, questo aggettivo ha perso il suo valore di superlativo (di derivazione latina) assumendo solo quello di aggettivo positivo con i relativi gradi di comparazione: «I suoi piú intimi pensieri» (Gaspare Gozzi). Quanto alla paura dei fulmini, dei lampi il termine è “selafobia” (dal greco “sélas”, luce e “fòbos”, timore, paura).

lunedì 15 aprile 2013

L'acluofobia




Cortese dott. Raso,
seguo il suo blog da quando è nato e dal quale ho appreso molti “segreti” sulla nostra bella lingua, oggi sempre piú maltrattata e offesa. Il suo lavoro, quindi, in difesa della lingua di Dante è ammirevole e degno di lode. Le scrivo per sapere se esiste un termine per indicare la tremenda paura del luoghi bui, paura di cui è affetta mia moglie. Non sono riuscito a trovare, nei dizionari consultati, il vocabolo, sempre che esista. Sa dirmi qualcosa in proposito?
Grazie in anticipo e cordiali saluti.
Giovanni T.
Gorizia

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Sí, gentile Giovanni il termine esiste, anzi esistono perché sono due: “acluofobia” e “scotofobia”, entrambi di derivazione greca. Il primo, se non cado in errore, è ignorato da tutti i vocabolari; il secondo, invece, è attestato solo in alcuni. Vediamo la loro “composizione”. Acluofobia è composto con le voci greche “achlus” (buio, oscurità) e “fòbos” (paura); scotofobia è formato con “skòtos” (buio) e, ovviamente, “fòbos” (fobia, paura).

sabato 13 aprile 2013

Il populismo

Il populismo, secondo i comuni vocabolari e in questo caso riportiamo dal Gabrielli in rete, è :

«1 LETTER Tendenza di alcuni movimenti letterari e artistici ad assumere e rappresentare il popolo come portatore, di per sé, di valori etici e sociali.
2 POLIT Atteggiamento di chi cerca consensi tra le classi sociali meno evolute, usando a questo scopo luoghi comuni di facile presa.
3 ST Movimento politico e letterario russo della seconda metà dell'Ottocento, tendente ad avvicinare le classi colte alle masse popolari».

Nel collegamento in calce, un articolo del linguista Giuseppe Patota spiega come il termine è giunto a noi.


http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/proposito-populismo


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Errori e orrori di lingua





Un “manuale” per risolvere i dubbi linguistico-grammaticali piú comuni. Pensato per i giornalisti e utile per tutti coloro che, per lavoro, “combattono” quotidianamente con la lingua italiana. Edito da Gangemi, Roma.

venerdì 12 aprile 2013

Ecco la nocenza

In un “processo familiare” il “giudice”, vale a dire il padre di un ragazzo, imputato di aver picchiato un suo compagno di classe, esclamò: «Ecco la prova della sua nocenza!». Tutti applaudirono perché credevano che “nocenza” fosse l’aferesi di “innocenza”. L’ “imputato”, quindi, era non colpevole. Ma le cose in lingua non stanno cosí. “Nocenza” non è l’aferesi di innocenza. L’aferesi, come si sa, è la caduta di una vocale o di una sillaba iniziale di una parola. Tondo, per esempio, è l’aferesi di rotondo [(ro)tondo]. Il termine, quindi, non attestato dalla quasi totalità dei vocabolari, non è, insomma, “[in]nocenza”, ma il suo contrario e sta per colpevolezza. Si può trovare, comunque, cliccando sul collegamento in calce. E a proposito di aferesi, “accorciamento” e “apocope” non sono sinonimi di aferesi perché indicano la caduta della vocale o della sillaba finale di una parola. Stupisce, dunque, quanto si può leggere su questo sito:


http://trovami.altervista.org/it/sinonimi/aferesi

Sinonimi di aferesi:

• (s.f.inv. Termine linguistico che indica la perdita della vocale o della sillaba iniziale di una parola - gioco enigmistico - operazione chirurgica di asportazione di un organo o parte di esso) accorciamento, apocope

https://www.google.it/search?q=%22nocenza%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it  

giovedì 11 aprile 2013

Il pitocco

Interessante “la parola del giorno” del sito della Zanichelli; parola, forse, poco conosciuta:

pitòcco / piˈtɔkko/
[gr. ptōchós ‘mendicante, povero’; di etim. incerta ☼ av. 1492]
s. m. (f. -a; pl. m. -chi); anche agg. (superl. pitocchissimo)
1 (lett.) pezzente, mendicante, accattone
2 (fig.) tirchio, taccagno: fare il pitocco; essere un pitocco.
Per il significato “completo” riportiamo anche ciò che dice Ottorino Pianigiani:

domenica 7 aprile 2013

La materassa

Sí, cortesi amici, avete letto bene, non è un errore di battitura, proprio cosí: quella sorta di sacco pieno di lana (un tempo) o altro che ricopre tutta la superficie del letto e che serve per dormirci sopra ha questo nome “sconosciuto”. Nel linguaggio di tutti i giorni, invece, questo ‘aggeggio’ è più conosciuto come “materasso”. Ma anche quest’ultimo nome, in un certo senso, è sconosciuto: lo adoperiamo, infatti, senza conoscerne il significato recondito. Perché, insomma, questo “sacco” che tutti agogniamo la sera, tornando a casa, dopo una giornata particolarmente defatigante ha questo nome? Questo preambolo, gentili amici, per mostrare bene il fatto che molto spesso, per non dire sempre, adoperiamo delle parole di cui conosciamo il significato “per pratica” e il materasso o la materassa è una di queste parole. Vogliamo vedere, dunque, il significato “coperto” di materassa?


Il termine non è schiettamente italiano ma arabo, “matrah” (‘cuscino’), tratto dalla matrice “matraha” (‘gettare’) e propriamente vale “luogo su cui si getta, si stende qualcosa”, quindi “tappeto su cui sdraiarsi”. Questa voce, fa notare il Deli, “compare quasi contemporaneamente in Italia, in Francia, in Germania e in Inghilterra e tutto lascia credere che il punto di partenza, necessariamente meridionale, sia l’Italia, dove ‘matrah’, sotto l’influsso dei rappresentanti volgari di ‘plumacium’ è diventato ‘matracium=materasso’. E tutto fa supporre, inoltre, che questa romanizzazione sia stata introdotta nei vari paesi, più che attraverso i mercanti italiani, dai Crociati, i quali hanno applicato all’oggetto arabo il nome adattato alla lingua dei porti italiani”.

Sentiamo, in proposito, anche Ottorino Pianigiani. Si clicchi su http://www.etimo.it/?term=materasso&find=Cerca



sabato 6 aprile 2013

Critiche «malevoli»

Navigando in Internet abbiamo scoperto che buona parte delle persone “di cultura” ritengono che si dica “malevole” e non, correttamente, malevolo. Credono, insomma, che l’aggettivo in oggetto appartenga alla seconda classe, come “facile”, per esempio e abbia, quindi, un’unica desinenza, tanto per il maschile quanto per il femminile ('-e', maschile e femminile singolare; 'i', maschile e femminile plurale). No, la forma corretta è malevolo perché viene dall’aggettivo latino ‘malévolus’, della seconda declinazione, e la desinenza
‘-us’ latina si tramuta normalmente nella terminazione ‘-o’ del maschile italiano. È, quindi, un aggettivo della prima classe, come “buono”, le cui desinenze sono ‘-o’ e ‘-i’ per il maschile singolare e plurale, ‘-a’ e ‘-e’ per il femminile singolare e plurale. Diremo, quindi, “uno scritto malevolo”, con il plurale “malevoli” e “una critica malevola” con il plurale “malevole”. Identico discorso per “benevolo”.


Guardate il collegamento in calce, da rimanere allibiti.

https://www.google.it/search?q=%22Critiche+malevoli%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it   

giovedì 4 aprile 2013

Meglio handicappato o portatore di handicap? Disabile o persona con disabilità? Diversamente abile o diversabile?





Federico Faloppa, in un articolo sul sito della Crusca, cerca di dare una risposta agli interrogativi su riportati.

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/meglio-handicappato-portatore-handicap-disab


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Una donna sposata è... “ammogliata”. Potrà sembrare strano ma si può adoperare questo verbo in luogo del più comune “maritare”. Non esiste il verbo “ammogliarsi” per “darsi in moglie”? Si può benissimo dire, quindi, “Paola è ‘ammogliata’ a Giovanni” e nessuno può scandalizzarsi. L’importante è adoperare la preposizione “a” non “con”. In buona lingua italiana si dirà, dunque, “ammogliata a” Giovanni o “maritata con” Giovanni.




mercoledì 3 aprile 2013

« A + verbo all'infinito »

Da “La posta del Professore”, del sito della Zanichelli:


Gentile professore,
Per quanto riguarda il gerundio e l’infinito, vanno bene entrambi in frasi come queste?
“Ho trascorso la sera guardando la tv o a guardare la tv”; “passo il tempo libero leggendo o a leggere”.
Cordiali saluti.
Tadeu

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Caro amico,
entrambe le costruzioni introducono una proposizione modale: come passo il tempo? come passo la serata?
Sul gerundio non ci sono dubbi. La costruzione “a + verbo all’infinito” mi pare leggermente più colloquiale e soprattutto spesso dà una connotazione negativa (o almeno riduttiva) all’importanza dell’attività svolta.
Ecco alcuni esempi letterari (che abbiamo tralasciato)

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Cortese Professore, non siamo affatto convinti sulla connotazione negativa o riduttiva che si ha con la costruzione “a + verbo all’infinito”. Nella frase, per esempio,  passo il tempo a studiare dove sta la “negatività” o “riduttività”?



martedì 2 aprile 2013

Lo zooiatra, anzi zooiatro

Tra le parole da salvare della lingua italiana, e che ci piacerebbe fossero rimesse a lemma in tutti i vocabolari, segnaliamo "zooiatro", vale a dire il medico degli animali. Ci sembra termine piú schietto di veterinario. Il vocabolo è composto, infatti, con le voci greche "zoon" (animale) e "iatròs" (medico).
In proposito il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, segnala, stranamente, come voce "piú corretta" zooiatra.

http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=752&r=582283

lunedì 1 aprile 2013

«Grazie a...»: complemento di causa?



Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:

luca scrive:
Nella frase: la squadra ha avuto una bella occasione con l’attaccante,si può ritenere complemento di mezzo “con l’attaccante”? Grazie

 linguista scrive:
Sì. In alternativa si può considerare complemento di causa = ‘grazie all’attaccante’.

Fabio Ruggiano

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Il Prof. Ruggiano ci perdonerà, ma dissentiamo totalmente. L’interiezione “grazie” esprime riconoscenza, ringraziamento, gratitudine e simili. Come può introdurre – a nostro modestissimo avviso – un complemento di causa? “Con l’attaccante” si può considerare, in alternativa, un complemento concessivo o un complemento di circostanza.

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Perché si tirano le orecchie il giorno del compleanno?

Sul perché si tirano le orecchie il giorno del compleanno esistono diverse ipotesi.

La prima dice che quest'usanza deriva da un'antica credenza, la quale sostiene che tirando le orecchie si ricordasse al festeggiato lo scorrere del tempo; poiché per gli antichi la memoria risiedeva appunto nel padiglione auricolare.
La seconda ipotesi, sempre derivante da una credenza popolare, dice invece che il naso e le orecchie si allungassero con l'avanzare dell'età (basti pensare al rilasciarsi dei tessuti con l'invecchiamento della pelle), e quindi tirando le orecchie si contribuisse al loro allungamento. Lo si faceva per augurare al festeggiato giudizio e maturità nella presa di decisioni.

(www.sapere.it)

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Sarebbe  meglio dire gli orecchi in quanto l'espressione fa riferimento proprio all'organo dell'udito. Il femmimile orecchie si adopera in senso figurato: le orecchie della pagina.