lunedì 30 maggio 2011

«Lasciare (lanciare) le noci»


Sembra che la suddetta espressione risalga all'epoca dei nostri antenati Latini ("relinque nuces"). Durante la celebrazione del matrimonio lo sposo lanciava delle noci, che metaforicamente rappresentavano l'abbandono dell'infanzia per entrare nell'età adulta. La cerimonia del lancio delle noci da parte dello sposo era fortemente sollecitata dai bambini presenti, che in seguito le adoperavano nei loro giochi in alternativa alle biglie.

Secondo Plinio le noci avevano un’importanza fondamentale nelle cerimonie nuziali perché dotate di un doppio rivestimento, il guscio e il mallo, erano per tanto simbolo di una unione solida e duratura.
Secondo altri autori il lancio delle noci ai bambini rappresentava un gesto di buon augurio per la novella sposa che entrava nella casa del marito. Si è ipotizzato anche che questo rituale fosse un augurio di prosperità e fecondità per la nuova coppia.

Ancora oggi oltre al riso si lanciano ai novelli sposi confetti e caramelle. E i fanciulli presenti si precipitano a raccoglierli con lo stesso entusiasmo e gioiosa confusione dei bambini di tanti tanti secoli fa.

domenica 29 maggio 2011

Eliminiamo... "eliminare"


Sí, cortesi amici, avete letto bene, eliminiamo il verbo eliminare quando non è adoperato nel giusto contesto, come ci fa notare il linguista Aldo Gabrielli, al quale diamo la "parola".
«Eliminare, dal latino "eliminare", vale in origine "cacciar dalla soglia di casa" (da 'e'='ex', da, e 'limen, -inis, soglia); fu introdotto nella lingua dai matematici e dai filosofi, e dovrebbe restare in quelle scienze, sennonché oggi si usa solo, come fanno i Francesi, nel significato di "escludere", "rimuovere", "toglier via", "toglier di mezzo", "sopprimere", "distruggere", "scartare", "elidere", "scacciare", "allontanare" e simili. Non se ne abusi, e tutte le volte che sia possibile, si ricorra a un de' verbi ora detti. Lo stesso dicasi di "eliminazione", che potrà meglio sostituirsi con "rimozione", "soppressione", "distruzione", "uccisione", "scarto", "elisione", "allontanamento" e simili», a seconda dei casi, aggiungiamo noi.
Quanto a "eliminatoria" - fa notare sempre il linguista - si adopera nel linguaggio sportivo e, pur essendo il francese "épreuve éliminatoire", è accettabile nella lingua nazionale.

sabato 28 maggio 2011

«Minimizzare»



Dal vocabolario Gabrielli in rete:
minimizzare
(minimìzzo)
v. tr.
Ridurre al minimo qualcosa: m. l'impegno in una gara.
‖ Sminuire il rilievo, il valore, l'interesse di qualcosa: m. la bravura di un artista; m. l'entità del danno subìto.
Aldo Gabrielli, nel suo "Dizionario Linguistico Moderno", "bolla" di francesismo il su citato verbo; crediamo, quindi, che il Maestro si starà rivoltando nella tomba vedendolo "immortalato" nel suo vocabolario in rete. Scrive l'insigne linguista: «Brutto neologismo di origine giornalistica, ripreso pari pari dal francese "minimiser": ridurre alle minime proporzioni; e si dice specialmente di notizie, di fatti, di avvenimenti: "Il ministro tentò di minimizzare l'accaduto". Ne hanno fatto finanche una "minimizzazione"! Tutte cose da buttar via. L'italiano dice "ridurre al minimo o a zero" o anche soltanto "ridurre", "restringere", "rimpicciolire", "sminuire", "diminuire"; in certi casi "svilire", "svalutare" e simili».
I "ritoccatori" del vocabolario in rete non l'hanno buttato. Noi lo buttiamo senza indugio (anche se si trova in altri dizionari), sperando che seguano il nostro esempio gli amatori del bel parlare e del bello scrivere.

venerdì 27 maggio 2011

Il «precedessore»?


Gentilissimo dott. Raso,
sono un suo affezionato lettore, la seguo dai "tempi dei tempi" dalla mia meravigliosa terra di Calabria. È la prima volta che le scrivo. Spero vorrà prendere in considerazione la mia richiesta. Per quale motivo si deve dire “predecessore” e non – secondo logica – “precedessore”, il sostantivo non deriva dal verbo “precedere”?
Potrebbe essere un caso di “metatesi”, vale a dire un’inversione di lettere all’interno di un vocabolo come, per esempio, “spengere”, in luogo di “spegnere”? In attesa di leggerla la saluto cordialmente ringraziandola, veramente di cuore, per le sue incomparabili "lezioncine".
Carmelo T.
Crotone
--------------
No, gentile amico, sarebbe un caso di metatesi se il sostantivo provenisse – come potrebbe sembrare – dal verbo precedere. Non è, per l’appunto, cosí. Il vocabolo in questione è di origine schiettamente latina provenendo dal sostantivo del tardo latino “praedecessor, praedecessoris”, formato con il prefisso “prae” (prima) e il sostantivo “decessor, decessoris”, un derivato del verbo “decedere” (‘andar via’).
Il predecessore, quindi, dal punto di vista prettamente etimologico, è “colui che è andato via prima”. Come si può ben vedere, per tanto, non c’è alcuna inversione di lettere all’interno della parola e il vocabolo è l’ “italianizzazione” dell’accusativo latino “praedecessorem”.
Nel passaggio dal latino all’italiano la maggior parte dei sostantivi hanno perso la consonante finale e nel caso specifico il dittongo “ae” si è mutato in semplice vocale: predecessore(m). Ritengo superfluo ricordare che il femminile corretto è – anche se “suona” male – “predecessora” e non, come sostengono alcuni pseudolinguisti, “preceditrice".
Se non le piace, cortese amico, può sempre ricorrere al sinonimo – che francamente trovo bruttissimo, un "obbrobrio linguistico" – “antecessore” con il relativo femminile “antecessora”, la cui provenienza è sempre il… latino.

giovedì 26 maggio 2011

Il «fallocrate»


Riprendiamo il nostro viaggio - interrotto tempo fa - alla ricerca di parole "omografe" ed "omofone" (parole che si scrivono e si pronunciano nello stesso modo) ma di etimologia e significato, in genere, del tutto diversi. Quale parentela esiste, per esempio, tra il "fallo" nell'accezione di 'errore', 'sbaglio', il "fallo calcistico" e il fallo o membro virile? Se apriamo un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana alla voce in oggetto, possiamo leggere: 'mancanza', 'colpa grave', 'errore', 'sbaglio', 'imperfezione', 'azione irregolare o scorretta', 'organo genitale maschile'. La nostra curiosità "etimo-significato", però, non viene appagata in quanto non siamo in grado di stabilire l'eventuale parentela che intercorre tra i vari "falli" nei significati suddetti. Vogliamo conoscere, insomma - ed è lo scopo del nostro viaggio - il capostipite che ha generato - nel caso - i vari... falli. Per questo ci affidiamo a Enzo La Stella, studioso di "cose linguistiche", che con somma maestria ci guiderà - senza alcun... fallo - nel nostro viaggio prettamente etimologico.
«(...) Tralasciamo il "fallo" imperativo che invita perentoriamente a fare qualcosa, cominceremo col fallo che indica l’errore (“mettere un piede in fallo”) e da cui deriva il “fallimento”; all’origine il latino “fallere”, ingannare o deludere e, al passivo, sbagliare, significati che vanno perfettamente d’accordo coi nostri. Apparentemente anche il fallo calcistico sembra avere la stessa provenienza ma, in realtà, è l’adattamento fonetico dell’inglese “foul”, sporco, scorretto, irregolare. Il fallo anatomico e, ormai, soprattutto politico (ma ricordiamo anche un fungo velenoso, l’'Amanita phalloides', che gli somiglia per la forma) viene invece dal greco “phallós”, riproduzione in legno, cuoio o ceramica del membro virile, che era uso onorare come simbolo della potenza generatrice e portare in processione per impetrare abbondanti raccolti. Il “-crate” che gli si aggiunge in ‘fallocrate’ per indicare l’esasperato maschilista che userebbe il fallo come scettro per dominare ci riporta ancora al greco “kràtos”, potere, da cui derivano anche ‘aristocrazia’ o governo degli ottimati (‘àristos’), ‘plutocrazia’ (‘plútos’, ricchezza), ‘partitocrazia’ e simili».

mercoledì 25 maggio 2011

«Stare a dozzina»


Ecco un altro modo di dire, del nostro meraviglioso idioma, poco conosciuto. Ne sa qualcosa il cavalier Trombini, che costretto per lavoro ad abitare temporaneamente in casa d'altri, "in subaffitto", si sentí dire che «stava a dozzina». Vediamo, dunque, il significato di questa locuzione che, lí per lí, Trombini non seppe "interpretare". Due sono le origini del modo di dire. L'espressione significa, intanto, "vivere in casa altrui pagando un tanto il mese per il vitto e per l'alloggio". Molti Autori sostengono, in proposito, che l'espressione derivi dal fatto che un tempo il fitto si pagava ogni dodici giorni ('dozzina'), non ci sono, però, "prove provate". Sentiamo la versione del Tommaseo: «Il dare, lo stare, l'essere, il mettersi, il tornare a dozzina, il tenere dozzina, numero determinato per l'indeterminato, viene forse da questo: che ce ne vuole un certo numero perché il conto torni; o perché il numero dodici, oltre l'essere compito, segnatamente ne' conviti, è tenuto di buon augurio, o da' dodici commensali alla cena del Signore».

martedì 24 maggio 2011

E in principio fu il verbo



Permettetemi, gentili amici, di entrare discretamente nelle vostre case e di presentarmi. Sono il principe del discorso, la parola per eccellenza; in altri termini sono il verbo. Dai miei biografi sono definito «quella parte variabile del discorso che serve per indicare un fatto, un modo di essere, un'azione riferita a un determinato soggetto e considerata nel tempo passato, presente e futuro». Come potete constatare, senza di me nessuno può "aprire bocca"; sono, quindi, la "chiave" che vi consente di accedere dappertutto nel vastissimo labirinto della lingua italiana. Posso vantare nobili natali: discendo, infatti, dal latino "verbum", la parola per eccellenza. Tutti i verbi della lingua italiana possono essere raggruppati in due grandi categorie: verbi 'transitivi' e verbi 'intransitivi'. Non tutti, però, mi sanno adoperare a dovere, anzi molti non riescono a distinguere un verbo transitivo da un verbo intransitivo. Alcuni, tra i miei biografi, amano dire: un verbo si dice transitivo quando l'azione da questo espressa "passa" (transita) direttamente dal soggetto che la compie all'oggetto che la riceve: Giuseppe impara la poesia. Oppure: un verbo si dice transitivo quando può avere un complemento oggetto (anche sottinteso). Nonostante queste chiarissime definizioni, però, molto spesso alcuni non riescono a "trovare" il complemento oggetto perché sovente non è espresso. Ho pensato, quindi, di suggerirvi un piccolo "trucco" per distinguere i verbi transitivi da quelli intransitivi, da quelli, cioè, che non possono avere un complemento oggetto perché l'azione non "passa" ma resta sul soggetto che la compie. Vediamo. Un verbo è transitivo se può diventare passivo con l'ausiliare essere (o venire). Mi spiegherò meglio con un esempio: Mario vede il sole. Possiamo dire "esser visto"? Sí, il verbo vedere è, quindi, transitivo. Antonio passeggia sul marciapiede. Possiamo dire "essere passeggiato" (o "venire passeggiato")? Indubbiamente no. Il verbo passeggiare, per tanto, è intransitivo. L'azione che Antonio compie (il passeggiare) non "passa" sul marciapiede ma resta sul soggetto (Antonio). A questo riguardo mi preme chiarire il corretto uso del verbo "iniziare", perché se non adoperato a dovere è spesso causa di furibonde liti con il cugino "cominciare". Mamma Rai - come usa dire - fino a qualche tempo fa, anziché fare la "pompiera" alimentava le liti tra i due. Sul piccolo schermo compariva la scritta «le trasmissioni inizieranno alle 9.30». Questo "inizieranno" mandava letteralmente in bestia il verbo cominciare, l'unico autorizzato a comparire in frasi di questo tipo. Perché? vi domanderete. È presto detto. "Iniziare" è solo transitivo, non può essere adoperato intransitivamente. Le trasmissioni quale azione compiono, visto che un verbo transitivo deve avere necessariamente un soggetto animato che compie l'azione? In casi del genere, se proprio si vuole usare il verbo iniziare, lo si faccia diventare un finto passivo o riflessivo: le trasmissioni si inizieranno alle 9.30. Il problema non si pone se si adoperano i verbi che fanno alla bisogna: cominciare o incominciare, entrambi sono "bivalenti", possono essere, cioè, sia transitivi sia intransitivi.
Grato della vostra attenzione, vi saluto cordialmente.
Il vostro amico
Verbo

lunedì 23 maggio 2011

Veder pescar la gatta



Quest'espressione non è molto conosciuta essendo stata relegata nella soffitta della lingua; un tempo, però, andava "di moda" ed era adoperata con il significato di "essere ingannato": ho mandato il mio amico a «veder pescar la gatta», gli ho fatto credere, cioè, una cosa per un'altra. Questo modo di dire, insomma, è simile a quello piú conosciuto e ancora adoperato, "darla a bere". Anche se desueto, come dicevamo, lo proponiamo perché ci piacerebbe che tornasse alla ribalta. Per la spiegazione e l'origine della locuzione ci affidiamo a Franco Sacchetti, novelliere e poeta vissuto a cavallo dei secoli XIV e XV, il quale nella novella XCIX racconta che «Bozzolo mugnajo volendo rubare il grano a un signore fiorentino, che per isfiducia di lui aveva mandato un suo garzone che assistesse alla macinazione, onde ingannare il garzone e rubare a suo agio, prese una gatta e disse che andava con quella a pescare. Il ragazzo, spinto dalla curiosità, volle andare a vedere questa novità, senza curarsi degli ordini che aveva ricevuto dal padrone. Intanto il garzone del mugnajo, da questo indettato, messe nei sacchi del signore due staja di farina di meno. Di qui venne il proverbio "veder pescar la gatta", quando alcuno è tratto in inganno con qualche astuzia».
Francesco Serdonati, grammatico e umanista fiorentino del XVII secolo, nella spiegazione che dà del modo di dire, non fa riferimento alla novella del Sacchetti e si limita a dire che "veder pescar la gatta" vuol dire lasciarsi burlare e lo fa derivare «da' mugnaj, che quando va qualche sempliciotto al mulino, gli dicono che vadi a veder pescar la gatta, ed egli, crdendo veder qualche cosa nuova, corre al fiume, e 'l mugnajo fra tanto gli ruba il grano o la farina».

domenica 22 maggio 2011

«Questissimo»





Dallo "Scioglilingua" del Corriere della Sera in rete:
Un'ultima cortesia.



A Lei risulta che nella grammatica moderna gli aggettivi dimostrativi ammettano il grado superlativo o comparativo?
Non mi prenda per matta, è quello che hanno spiegato a scuola a mia figlia dicendo che simile (come nell'esempio dell'altra mail ) anche se può essere sostituito da molto simile o similissimo rimane un dimostrativo perchè nella grammatica moderna anche i dimostrativi ammettono il superlativo. Grazie
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Sabato, 21 Maggio 2011
"Simile" non è un dimostrativo
-----------------
Gentile Professore, ci meravigliamo ancora se la nostra lingua è allo sfacelo, se esistono dei docenti che insegnano “similissime” castronerie? Forse mi dovrò decidere a comprare una grammatica “moderna” dove, finalmente, potrò trovare “questissimo”, “queglissimo” e via dicendo.

*
In proposito ecco anche il pensiero del prof. Marco Grosso, moderatore del foro di lingua "Cruscate":
Simile può essere aggettivo dimostrativo o aggettivo senz’altro aggiunto. Nel primo caso non può assumere il grado superlativo, nell’altro sí. La confusione deriva sicuramente da questa doppia valenza di simile, o da incerti ricordi.

Certamente i dimostrativi puri non ammettono il superlativo: *questissimo, ecc. E accanto a similissimo ricordo il letterario simillimo.


* * *

«Massivo» e «Di gran mattino»

Ecco altri due francesismi che gli amatori del bel parlare e del bello scrivere debbono assolutamente evitare. Il primo è un aggettivo adoperato come sinonimo di "grossolano", "possente", "madornale" e simili. Ma è un francesismo, appunto, derivato da "massive", femminile di "massif". In italiano c'è il corrispettivo "massiccio", usato anche dal principe degli scrittori: «Son uomo... da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle cosí massicce» (A. Manzoni). L'altro gallicismo è una locuzione modellata su quella francese "de grand matin". In buona lingua italiana si dice "di buon mattino".

sabato 21 maggio 2011

«Consegnamo» e «trasalo»



Da "Domande e risposte" del Treccani in rete:
Gradirei avere una conferma sulla prima persona plurale del presente indicativo del verbo “consegnare”: si scrive “consegniamo”, inserendo il dittongo “-ia” dopo “-gn” oppure la scrittura corretta è “consegnamo”?
La grafia corretta è consegniamo, con la i. Consegnare fa parte di un gruppo di verbi con la radice in gn (bagnare, guadagnare, lagnarsi, sognare, vergognare, ecc.)che mettono in difficoltà non pochi quando questi si accingano a coniugare il verbo alla prima persona plurale del presente indicativo. E non soltanto in questo caso, in verità.
La norma dice che la desinenza della prima persona plurale dell’indicativo e del congiuntivo presente e la desinenza della seconda persona plurale del congiuntivo presente devono avere la i: consegniamo, (che noi) consegniamo, (che voi) consegniate.
Siccome però nella pronuncia quella i della desinenza viene inghiottita nel suono palatale di gn, col tempo si è diffusa anche la grafia senza i. Possiamo dire che oggi forme come bagnamo, consegnamo, vi lagnate (congiuntivo), ci vergognamo sono tollerate.
--------------
A nostro avviso le forme come "bagnamo" "consegnamo" ecc. in buona lingua italiana non possono essere tollerate. La "i" fa parte integrante della desinenza e non può essere omessa. Come si scrive noi 'parliamo', cosí si deve scrivere noi 'consegniamo'.

* * *
E sempre a proposito di verbi, segnaliamo un errore riscontrato nel "coniugatore dei verbi" di 'Virgilio' (Sapere.it).

trasalire : infinito presente del verbo trasalire;
Forma: Attiva
Ausiliare: Avere
Tempo Coniugazione
INDICATIVO PRESENTE io trasalo
noi trasaliamo tu trasali
voi trasalite egli trasale
essi trasalono



giovedì 19 maggio 2011

Pulpito, pergamo e ambone


Gentilissimo dott. Raso,
ho scoperto, per caso, il suo sito trovando un tesoro, un tesoro linguistico, ovviamente. Le scrivo per una curiosità, confidando nella sua disponibilità. Perché il pulpito delle chiese dal quale il sacerdote "arringa" i fedeli si chiama anche pergamo e ambone? Cosa c'entrano, scherzo naturalmente, la pergamena e l'ambo del gioco del lotto?
Sperando di leggerla, le porgo i miei più cordiali saluti.
Benedetto V.
Piacenza
------------------
Cortese Benedetto, la ringrazio per le sue belle parole. Le faccio "rispondere" dal linguista Ottorino Pianigiani. Clicchi sui collegamenti in calce:


http://www.etimo.it/?term=pergamo&find=Cerca

http://www.etimo.it/?term=ambone&find=Cerca

http://www.etimo.it/?term=pulpito&find=Cerca

mercoledì 18 maggio 2011

«Prendersi uno spaghetto (paura)»


Due sono le probabili origini di "spaghetto" con l'accezione di paura. La prima si rifà al... latino. Citiamo da Ottorino Pianigiani: «Lo dice il popolo toscano (e romano, ndr) e in questo senso pare altro non essere che il latino 'pavor', paura; sostituita G a V come nell'antica pagura per pavura-paura e prefissa la S-dis come in spaventare». Da spago, quindi, il diminutivo spaghetto.
L'altra versione, secondo il Deli (Dizionario etimologico della lingua italiana), è «Voce di origine gergale che si rifà alle antiche forme gergali 'filo' (paura), 'filare' (aver paura) (...). Il popolo toscano e romano sostituí 'spago' a 'filo'».
Probabilmente - è una nostra interpretazione personale - si tratta di un caso di irradiazione sinonimica: per il popolo, che non va tanto per il sottile, spago e filo, a prescindere dalla loro diversa etimologia, sono l'uno sinonimo dell'altro. Occorre sapere, invece, che "filo" e "spago", nell'accezione comune, sono completamente diversi sotto il profilo etimologico. "Filo" viene dal latino 'filum', d'origine indoeuropea, mentre "spago" deriva sempre dal latino 'spacum' la cui origine, però, è incerta.






contatore visite

martedì 17 maggio 2011

«Studiare nel buezio»



La gioia di Giovanni per aver trovato un probabile impiego sparí di colpo non appena ebbe varcato la soglia dell'ufficio dove era stato convocato: «Mi dispiace immensamente - tagliò corto il funzionario - ma visti gli esiti dei suoi elaborati non possiamo assolutamente assumerlo; lei, caro amico, non ha né arte nè parte e ha studiato nel buezio».
Il giovane restò - come suol dirsi - di sasso; non riusciva a capire le parole del dirigente e quel "buezio" gli rimbombava negli orecchi; poi si fece coraggio e timidamente mormorò: «Sono ragioniere, ho studiato presso l'Istituto tecnico commerciale "Dante Alighieri"; mi perdoni, il buezio cos'è e cosa c'entra?». «Lasciamo stare, non ho tempo - rispose il suo interlocutore - la sua prova è andata male, provi presso qualche altra Azienda. Tanti auguri!»
«Restare di sasso» - lo sappiamo benissimo - significa rimanere sbalordito, stupito oltre che sorpreso nel vedere o nel venire a conoscenza di qualcosa (per lo piú spiacevole) e non sapere o poter reagire. Per la spiegazione di questo modo di dire occorre prenderne in considerazione altri due, di cui uno li spiega tutti perché sono "concatenati" tra loro: «Restare di sale» e «Restare come la moglie di Lot» (quest'ultimo, per la verità, è poco adoperato e, di conseguenza, non molto conosciuto). Il sale, dunque, non è un... "sasso"? La «moglie di Lot» li spiega tutti. Quest'espressione è tratta dalla Genesi: «Allora il Signore fece piovere sopra Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco (...) e distrusse quelle città e tutta la pianura (...). Ora la moglie di Lot si voltò indietro a guardare e diventò una statua di sale (XIX, 24-26)». La locuzione «non avere né arte né parte», che significa "non avere nessuna capacità professionale e quindi essere inadatto a qualsiasi attività" fa riferimento - con molta probabilità - alle arti e alle corporazioni medievali di cui una persona faceva parte a seconda del'attività che svolgeva. Le corporazioni, poi, entravano nelle varie divisioni politiche: "parti". In proposito come non ricordare il detto «chi ha arte ha parte»? E veniamo alla «scuola di buezio». Diciamo subito, qualora ce ne fosse bisogno, che non è una "scuola" nell'accezione propria della parola, ma un modo di dire, per l'appunto, che si adopera quando si vuole mettere in particolare evidenza la scarsissima preparazione culturale di una persona o quando non si conosca con precisione il tipo di scuola che quella determinata persona ha frequentato: la sua cultura, per tanto, è un po' raccogliticcia dimostrando di non essere una "cima" di sapienza. Questo modo di dire è un gioco di parole tra il "bue" e il filosofo latino Boezio. Il bue, infatti, viene preso come simbolo della mansuetudine in quanto a ottusità, mente il filosofo Boezio viene preso in considerazione perché le sue opere furono usate come "testi di studio" in tutto il Medio Evo. Con questo gioco di parole, "buezio", si intende, quindi, mettere in risalto anche l' "ottusità" di una persona. È una locuzione molto antica, per la verità, e poco conosciuta anche se ancor oggi si sente ripetere in alcune zone del nostro Paese.

domenica 15 maggio 2011

La competenza




Anche ciò che stiamo per scrivere questa volta farà storcere il naso ai cosí detti grandi linguisti (non abbiamo neanche l' "appoggio" dei vari vocabolari). Ma tant'è. Intendiamo parlare dell'uso errato del sostantivo «competenza», che, propriamente, significa 'conoscenza', 'cognizione', 'pertinenza', 'abilità' e simili: nessuno mette in dubbio la 'competenza' (conoscenza) di Giovanni nel campo dell'informatica. Spesso questo sostantivo viene adoperato - ed è qui il nostro dissenso - come sinonimo di 'compenso', 'paga', 'retribuzione', 'salario' e simili: siamo al primo del mese e non mi hanno ancora accreditato le 'competenze' dovute. In casi del genere l'uso di competenza è un francesismo e in quanto tale in buona lingua è da evitare.





sabato 14 maggio 2011

«Ecuadoriano» o «equadoregno»?







Un interessante articolo di Piero Fiorelli sul nome dell'abitante dell'Ecuador, che, a nostro avviso, è uno solo: ecuadoriano.
Si clicchi su questo collegamento: http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=8633&ctg_id=44



* * *

Essere un epigono

In questa locuzione ‘epigono’ è chi (scrittore, artista, pensatore) continua ed elabora ide e forme dei suoi predecessori.
Letteralmente ‘epigono’ significa “prole discendente”, “nato dopo” [dal greco ‘epí’(dopo) e ‘gónos’(prole)].
Nella mitologia greca si chiamarono cosí i figli dei sette principi che mossero guerra a Tebe e che perirono tutti, tranne Adrasto. Sotto la guida di questo, gli Epigoni intrapresero la rivincita, sconfissero i Tebani e ne distrussero la città. (Giuseppe Pittàno)

venerdì 13 maggio 2011

«Gli oratori negli oratorii»


Alcuni vocabolari (ma forse tutti) ritengono che il plurale dei nomi
in “-orio” si faccia regolarmente, vale a dire sopprimendo la desinenza finale “-o”: il dormitorio, i dormitori. Dissentiamo totalmente. Poiché l’argomento ci sembra della massima importanza riteniamo sia il caso di specificare che tutti i sostantivi che finiscono in “-orio” nella forma plurale prendono la doppia “i” (ii): l’oratorio, gli oratorii. Seguendo questa semplice regoletta saremo sicuri di non trovarci mai in difficoltà e, quindi, di non cadere in errore o creare ambiguità. Il plurale di “oratore”, per esempio, potrebbe confondersi con il plurale di “oratorio”. Per non creare confusione diremo, per tanto, che gli oratori hanno tenuto una conferenza negli oratorii. Ancora. Il plurale di dormitorio (con una sola “i”) potrebbe confondersi con il plurale di “dormitore”, voce arcaica ma pur sempre esistente.

Alcuni linguisti consigliano, in proposito, di segnare l'accento grafico sul plurale dei sostantivi in "-orio" per non confonderlo con il plurale di parole simili: direttòri (plurale di direttorio) e direttóri (plurale di direttore).

giovedì 12 maggio 2011

Sottrarre "da" o "a"?


Il verbo in questione si può costruire con entrambe le preposizioni ("a" e "da"), ma secondo i casi e questi casi ci vengono magistralmente spiegati da un illustre linguista, Aldo Gabrielli.
"Il verbo sottrarre si costruisce tanto con 'a' quanto con 'da' (sebbene più comunemente con 'a') nel significato di 'allontanare', 'toglier via' e simili, come negli esempi che seguono: 'E il cor sottragge A quel dolce pensier che in vita il tiene' (Petrarca); 'Piacendogli, potrebbe la sorella dal fuoco sottrarre' (Boccaccio); 'Sottrarsi dal pericolo' (Tommaseo); 'Lo hanno sottratto per miracolo alla morte' ma anche 'dalla morte'; e così via.
Ma 'sottrarre' vuol anche dire 'portar via astutamente', 'estorcere', 'rubare' e allora si costruisce sempre con 'a': 'sottrarre a uno una cosa: 'Gli hanno sottratto il portafogli', 'Sottrassero alla biblioteca un prezioso manoscritto'. Nel significato matematico, sempre con 'da': 'Sottrarre venti da trenta'. Sottrarre un numero da un altro' ".

mercoledì 11 maggio 2011

La soldata


Il "caso Melania" ha riportato prepotentemente alla ribalta il problema della formazione del femminile di sostantivi "nati" maschili come "soldato": una donna-soldato è una "soldatessa" o una "soldata"? Per l'estensore di queste modeste noterelle non ci sono dubbi: soldata. Il suffisso "-essa", nei nomi non cristallizzati (poetessa, professoressa, dottoressa ecc.), sa di ironico o di dispregiativo (a nostro modo di vedere). Perché si osteggia "soldata" quando la grammatica parla chiaro? I sostantivi maschili in "-o" formano il femminile mutando la desinenza "-o" in -a", propria dei nomi marcatamente femminili: sarto, sarta; amico, amica; cuoco, cuoca; postino, postina. Soldata, quindi, non contravviene a nessuna legge grammaticale. E per lo stesso motivo diremo "la marescialla"; "la capitana" perché, appunto, i rispettivi maschili terminano in "-o". Metteremo solo l'articolo femminile, invece, davanti ai nomi terminanti in "-e" perché questa desinenza è bivalente: il caporale, la caporale; il tenente, la tenente; il maggiore, la maggiore.

lunedì 9 maggio 2011

"Vicino a", la sola forma corretta


Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
Luca scrive:
Si scrive “Vicino a Roma” o “Vicino Roma”? Il complemento di stato in luogo comprende anche “vicino”, usato come avverbio? Grazie
linguista scrive:
Sono corrette entrambe le espressioni: nel primo caso (vicino Roma) vicino è una preposizione impropria, cioè una parola che primariamente è un avverbio, ma che può trovare impiego anche come preposizione (per formare un complemento di luogo, in questo caso). Nel secondo caso (vicino a Roma) ci troviamo dinanzi a una locuzione preposizionale, cioè a un insieme di parole che svolgono la funzione di una preposizione. In assoluto questa seconda forma è più frequente, anche perché vicino, come proposizione impropria, non può essere usata con tutti i sostantivi. P. es., posso dire mi trovo vicino Roma ma non *sono seduto vicino mio fratello; in questo caso dovrò usare, piuttosto, la locuzione preposizionale: sono seduto vicino a mio fratello.
Nel fare l’analisi logica di una frase come mi trovo vicino (a) Roma, il complemento di stato in luogo comprende ovviamente tanto il sostantivo quanto la preposizione (o la locuzione preposizionale) che lo precede: vicino (a) Roma.
Francesco Bianco
-----------------
Ci spiace dissentire dal linguista, non sono corrette entrambe, la seconda è errata. La preposizione "vicino" si costruisce OBBLIGATORIAMENTE con la preposizione "a" (vicino a): vicino a Roma.
In proposito si veda questo collegamento: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/grammatica/grammatica_136.html e quanto scrive anche il linguista Aldo Gabrielli: «Bisogna dire, per esempio, “sono stato in vacanza in un paese vicino a Napoli” o è preferibile dire “in un paese vicino Napoli”, cioè senza la preposizione ‘a’? Vicino ‘a’ Napoli, vicino ‘a’ Milano, vicino ‘alla’ casa, vicino ‘a’ te, sono queste le forme prescritte dalla grammatica; cioè la locuzione prepositiva corretta è “vicino a”. Si incontrano, è vero, anche presso qualche scrittore, esempi come questi: “Abitavamo vicino Roma”, “vicino casa avevamo un’officina”, ma si tratta di un uso regionale che è meglio non seguire. In passato si diceva anche ‘vicino di’: “Stavamo vicino di San Frediano”, ma ora si incontra solo in qualche dialetto».


Ancora.

Vicino Roma / vicino a Roma
Per chiarire questo dubbio ricorrente nei nostri lettori, riportiamo la risposta di Luca Serianni pubblicata nel numero 30 della Crusca per voi (aprile 2005):
«L’alternativa è tra aggettivo, quindi concordato col sostantivo a cui si riferisce, e tra locuzione preposizionale (vicino a, lontano da), invariabile in numero, genere e grado: è dunque errato dire «più vicino a quelle occidentali», con un comparativo possibile solo con aggettivi e avverbi. Di là da questo caso specifico, l’italiano offre da sempre possibilità di scelta, con una certa preferenza (non con l’obbligo) per l’aggettivo in presenza della copula: «abito in una città vicino a Roma» / vicina a Roma»; «Tivoli è una città vicina (ma anche vicino) a Roma». Per documentare l’antichità dell’alternativa, basteranno alcuni esempi dei secoli XIII-XVI, attinti dal serbatoio della LIZ (Letteratura italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli e E. Picchi, Bologna 20014). Con l’aggettivo: «Pisa è vicina a Firenze a miglia XL» (Compagni), «altre frontiere vicine a quel luogo» (Villani), «la placata dea, ch’era lontana / da lor benivolenza» (Alberto della Piagentina), «imperò che [questi uomini] non sono molto lontani da terra» (Manerbi). Con la locuzione preposizionale: «nelle città vicino a loro vista» (Villani), «in una sua villa quattro miglia vicino a Roma» (Boccaccio), «da una parte della sala assai lontano da ogni uomo con la donna si pose a sedere» (Boccaccio), «ad Aversa, dieci miglia lontano da Napoli» (Vasari).
Quel che è certo è che non si può usare il solo vicino con funzione di locuzione preposizionale: sono da evitare, benché alquanto diffusi persino nei giornali, vicino Roma, vicino casa (recte: «vicino a Roma», «vicino a casa»).»

***

Nel Glossario di Giuseppe Patota, alla voce vicino, si legge: «[...] il vocabolo vicino ha tre valori diversi: § 1. sostantivo («il vicino di casa»); § 2. aggettivo («l'appartamento vicino al mio»); § 3. avverbio di luogo («qui vicino c'è una farmacia» [...]). Non può essere usato come preposizione [...], ma può formare la locuzione preposizionale vicino a: vicino a Roma (il costrutto *vicino Roma, che pure è frequente specie in certe regioni, non è grammaticalmente corretto)».


«Essere una testa di turco»


Il modo di dire che avete appena letto ha lo stesso significato dell’altro, piú conosciuto, “essere il capro espiatorio”. Si dice, infatti, di una persona sulla quale vengono fatte ricadere tutte le colpe o le responsabilità altrui. La locuzione trae origine dal fatto che, nei tempi andati, i cavalieri si esercitavano al combattimento contro un fantoccio girevole, raffigurante il nemico, che aveva i lineamenti di un turco. Anche nei baracconi delle fiere – per molto tempo – delle teste raffiguranti un turco con il turbante vennero adoperate per il tiro al bersaglio. Perché proprio la testa di un turco? Perché i turchi erano dei guerrieri temutissimi per la loro ferocia tanto che l’esclamazione «mamma li turchi!» è arrivata fino ai nostri giorni.

* * *

Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
un dubbio
Caro Professore, Ho un dubbio. Si dice:
I libri che ho letto ( o letti)?
I figli che ho lasciato in Italia (o lasciati)?
La ringrazio.
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo
Sono giuste le prime alternative con il participio al maschile singolare.
------------------
Gentile Professore, sono corrette entrambe le costruzioni. Con i pronomi relativi l’accordo si può avere oppure no; in questo caso tutto dipende dal gusto di chi parla o scrive. Alcuni autorevoli grammatici consigliano di lasciare il participio passato invariato: i baci che ti ho dato (ma anche i baci che ti ho dati); le canzoni che ti ho dedicato (ma anche dedicate). Quindi: i libri che ho letto o letti; i figli che ho lasciato o lasciati in Italia.

domenica 8 maggio 2011

Francesismi da evitare



Ecco due francesismi che - a nostro giudizio - gli amanti del bel parlare e del bello scrivere devono evitare: "Essere all'altezza" e "In ultima analisi". Il primo si può sostituire con "essere pari al compito": Giuseppe è pari al compito del ruolo che svolge. Il secondo con "insomma", "infine", "concludendo", "tutto considerato" e locuzioni simili. Pedanteria? Purismo? No, solo buona lingua italiana.


sabato 7 maggio 2011

Un' «anarchia linguistica»


Ci spiace immensamente dover parlare male di alcuni vocabolari - e forse ci ripetiamo - anche perché conosciamo benissimo la “fatica” che comporta la loro compilazione. Ma sappiamo altrettanto bene che i “fruitori” della lingua hanno bisogno di notizie chiare, precise e non debbono essere “ingannati” da certi dizionari che riportano i famosi “ma anche”… come nel caso del plurale dei nomi in “-logo”: astrologi e astrologhi.
Come dicevamo moltissimi vocabolari ammettono, appunto, entrambe le forme: “-gi” e “-ghi”; non siamo assolutamente d’accordo, una “regola” ci sarebbe e andrebbe rispettata.
Per non creare ulteriore confusione mettiamo da parte i sostantivi in “-logo” e occupiamoci dei nomi in “-co” e “-go” (nei quali sono compresi anche quelli in “-logo”).
Se i predetti sostantivi hanno l’accentazione sulla terzultima sillaba (accento che si “legge” ma non si segna), ossia se sono parole cosí dette sdrucciole, faranno il plurale in “-ci” e “-gi”: canonico, canonici; astrologo, astrologi. Se, invece, sono parole piane, hanno cioè l’accento tonico sulla penultima sillaba, faranno il plurale in “-chi” e “-ghi”: buco, buchi; mago, maghi.
Non mancano, naturalmente, delle eccezioni a questa “regola”, basti pensare ad “amico” che pur essendo una parola piana fa il plurale “amici” e non “amichi”; oppure al “valico” che fa “valichi” e non “valici”.
Con queste noterelle abbiamo voluto mettere in evidenza la possibilità di una “regola” che nella maggior parte dei casi si può trovare e i vocabolari dovrebbero essere tutti concordi, dando cosí alla lingua quella “omogeneità” di cui abbisogna e allontanare lo spettro dell’ “anarchia linguistica”.

venerdì 6 maggio 2011

«Senonché» o «sennonché»?





Segnaliamo un’altra disparità di vedute tra il dizionario Gabrielli in rete (riveduto e “corretto”) e il "Dizionario Linguistico Moderno" (pag. 594) dello stesso Aldo Gabrielli, a proposito della congiunzione “sennonché”. Nel vocabolario in rete si legge: «sennonché
[sen-non-ché]
o senonché
cong.
(con valore avversativo) Ma, però: era già pronto a partire, s. un'improvvisa telefonata lo
costrinse a restare in ufficio». Nel Dizionario linguistico, invece, leggiamo: «Sennonché, questa la grafia giusta; eppure molti scrivono, sbagliando, "senonché". Il "se" infatti, nei composti, richiede sempre il raddoppiamento: sennò, sebbene, seppure ecc.». Siamo sicuri che il Maestro si starà rivoltando nella tomba alla vista del suo vocabolario riveduto e "corretto". La sola grafia corretta - forse è bene ricordarlo ancora una volta - è con due "n", se univerbata. In alcuni libri la predetta congiunzione si trova scritta con una sola "n" perché anticamente si usava distinguere le funzioni del "sennonché". Se aveva il significato di "fuorchè", "tranne che" e introduceva, quindi, una proposizione eccettuativa si scriveva con una sola "n": non dico altro 'senonché' occorre fare ogni sforzo per aiutarlo. Se, invece, aveva il significato di "ma", "però" e introduceva una proposizione coordinata si scriveva con due "n": sarei dovuto partire ieri, 'sennonché' un impegno improvviso me lo ha impedito. Oggi tutti i "sacri testi" sono concordi nel consigliare la grafia univerbata con du "n" (sennonché) per rispettare sempre il rafforzamento sintattico.

Ci siamo accorti, ora, che l'argomento è stato già trattato; chiediamo scusa per la ripetizione.

giovedì 5 maggio 2011

Due verbi, due "orrori"




Si va sempre si piú diffondendo l'uso errato - introdotto da molti scrittori che "fanno la lingua" - di coniugare, o meglio di adoperare verbi transitivi in forma intransitiva e viceversa. Le cronache dei giornali sono piene di personaggi che «hanno assolto al loro dovere» o «hanno adempiuto ai loro compiti istituzionali». Queste frasi - è bene chiarirlo subito - sono errate. I verbi 'assolvere' e 'adempiere' sono nati transitivi e tali debbono restare (a dispetto, anche, di qualche vocabolario permissivo). Si dirà quindi, correttamente, che «Caio ha assolto "il" suo dovere» e che «Tizio ha adempiuto "i" suoi compiti». Il verbo latino "absolvere" (da cui il nostro assolvere) si costruiva esclusivamente con l'accusativo, cioè con il nostro complemento oggetto essendo, appunto, un verbo transitivo. Ed è rimasto transitivo per secoli, non si capisce perché ora i cosí detti acculturati-“snob”, cioè coloro che "credono" di fare la lingua, debbano imporre a tutti i loro svarioni, e la stampa porta la bandiera. No, non ci stiamo e continueremo a sostenere - a spada tratta - l'uso solo transitivo, come si può leggere in Autori di rispetto: «Onde morte m'assolve, Amor mi lega» (Petrarca); «Raccontare per adorne parole ciò che tu assolvi in due tratti (Panzini); «Assolver non si può chi non si pente» (Dante). Dopo questi esempi c'è qualcuno che può sostenere il contrario?
E a proposito di verbi, abbiamo notato che qualche scrittore "di grido" non sa coniugare i verbi in "-ciare" e "-giare". Si legge spesso "beneficierà", "scoraggierà", "lancierà" ecc. I predetti verbi, o meglio tutti i verbi della prima coniugazione che finiscono in "-ciare" e "-giare" perdono la "i" del tema o radice davanti alle desinenze che cominciano con "e" e con "i": benefic-erà (beneficerà); lanc-erà (lancerà); scoragg-erà (scoraggerà). Mantengono la "i" del tema solamente davanti alle desinenze che cominciano con "a" e con "o": beneficiate. La "i" della radice, insomma, è un puro segno ortografico che serve a dare alle consonanti "c" e "g" il suono palatale davanti alle desinenze che cominciano con "a" e con "o".

martedì 3 maggio 2011

Stilo,stile e penna


Secondo il linguista Enzo La Stella la storia della scrittura si può riassumere nei tre vocaboli del titolo.
Diamogli la "parola".

Inizialmente, e per molti secoli, si usò lo stilo o, latinamente, "stilus", asticella appuntita da un lato per scavare un solco sulla tavoleta cerata e spatolata dall'altro per cancellare; da questo primitivo strumento deriva anche, per metafora, lo "stile", prima nel senso di personale modo di scrivere e, poi, applicato anche ad altri campi della attività umana: stile architettonico, stile di vita e così via. Più tardi la "penna" d'oca e la cannuccia ("calamus", da cui 'calamaio') sostituiranno lo stilo, per cedere a loro volta il passo al "pennino" d'acciaio (sempre dalle penne degli uccelli), alla "penna" stilografica e, infine alla "biro", così chiamata dal suo inventore, Làszlò Joseph Birò.
La penna che, a differenza dello stilo, scivola sulla carta o sulla pergamena senza graffiarla, ha bisogno di un liquido che lasci una traccia sul foglio, prima l' "atramentum" (composizione di nerofumo o nero di seppia o altri prodotti atri o scuri) e infine l' "inchiostro" ("encaustum", bruciato), termine che sostituì il primo quando nuove tecniche richiesero il trattamento col fuoco degli ingredienti.

domenica 1 maggio 2011

La codardìa


Stimatissimo dott. Raso,
seguo il suo meraviglioso sito da "illo tempore" ma solo ora ho avuto il "coraggio" di scriverle - vista la sua non comune disponibilità - per porle un quesito che, credo, non attiene proprio alla linguistica intesa come grammatica. Desidererei conoscere o meglio sapere se la "codardìa", cioè la viltà, ha qualcosa a che vedere con la... coda. Sicuro di una sua cortese risposta, la ringrazio anticipatamente anche per il suo nobile impegno per la tutela della nostra cara lingua italiana.
Cordialmente
Pasquale d'A.
Trapani
----------------
Gentilissimo Pasquale, l'argomento è stato trattato, qualche anno fa, sul "Cannocchiale". Faccio il "copincolla".
“L’etimologia”, soleva ripetere il linguista Aldo Gabrielli, è “una parola che basta da sola a creare, in chi non fa parte degli ‘addetti ai lavori’, un istintivo gesto di ripulsa. (...) Se c’è una scienza gradevole, è proprio questa che tratta della nascita delle parole. Le parole non son nate dal nulla, e han quindi dietro di sé una ‘storia’ che spesso è un’avventura complessa e imprevedibile”. Una riprova? Subito.

Prendiamo in esame tre parole: coda, codino e codardo. Attraverso lo studio dell’origine di questi tre vocaboli, cioè attraverso la loro etimologia, possiamo notare che, oltre all’affinità di “suono”, hanno in comune una stessa “matrice” pur avendo ben distinti significati: la coda. Tutti conosciamo il significato di codardo, se non altro basta aprire un vocabolario e leggere: chi per viltà d’animo si mette da parte in imprese rischiose e si sottrae al suo dovere; con significato piú generico: pusillanime, vile, pauroso. E la coda? Per trovarla “intrinseca” nel vocabolo occorre tornare indietro nel tempo e fermarsi al Medio Evo.

In quel periodo della nostra storia si usava andare a caccia con il falcone ben ammaestrato a catturare la preda. Quando l’animale stanco e “intimorito” si rifiutava di levarsi in volo e di eseguire, cosí, il suo compito, manifestava il suo “no” abbassando le penne della coda. In questi casi il falcone veniva chiamato “codardo” (dal francese antico “couard”). Con il trascorrere del tempo lo stesso aggettivo venne applicato, per estensione, alla persona che si rifiutava di affrontare pericoli e difficoltà varie. Da codardo è stato coniato il termine “codardía”: paura per cui uno si ritira di fronte al nemico.
Altrettanto interessante la storia del codino che, come tutti sappiamo, è la “treccia di capelli che scendeva dietro la testa” (cosí chiamata perché assomiglia, per l’appunto, alla coda degli animali) ed era portata dagli uomini nel secolo XVIII o in Cina fino agli inizi del XX secolo (per la cronaca oggi il codino sembra tornato di moda fra gli uomini). Ciò che non tutti sanno, forse, è che con il termine ‘codino’ si intende indicare anche una persona retrograda, reazionaria, conservatrice. In questo caso la ‘coda’ che cosa c’entra? È presto detto.
Torniamo, come il solito, indietro nel tempo e fermiamoci al periodo della Rivoluzione francese. Prima dello scoppio della rivoluzione i nobili e le persone appartenenti alle classi sociali elevate usavano portare la parrucca (incipriata, naturalmente) con tanto di codino. Questa moda fu spazzata via dai rivoluzionari. Le persone, però, che non accettavano i princípi egualitari della Rivoluzione e rivendicavano l’antica divisione del Mondo in “caste”
e la legittimità dei privilegi per diritto di nascita, continuarono per alcuni decenni, soprattutto dopo la fine della Rivoluzione e del periodo napoleonico, a seguire l’antica moda. I re e i nobili, richiamati in patria dai nuovi governi, si presentarono con tanto di parrucca e di... codino. Per costoro non era cambiato nulla, tanto che il termine codino assunse, appunto, il significato di “reazionario”. Oggi, quindi, potremmo chiamare “codino” ogni uomo retrogrado, refrattario, “cocciutamente” legato alle cose passate anche se sorpassate. Nessuno potrebbe meravigliarsi.
Ci siamo accorti però, e concludiamo queste noterelle, che non abbiamo parlato delle varie accezioni che ha il termine coda nei suoi usi figurati. Ripariamo subito. I lettori poeti, per esempio, sanno benissimo che in metrica si chiama coda il verso o la strofe che viene aggiunta allo schema originario di una composizione: sonetto con la “coda” o sonetto “caudato”. I lettori militari sanno che in un esercito la “coda” è la retroguardia. Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo approfittare della vostra squisita pazienza.