lunedì 31 maggio 2010
Esami di maturità 2010
Tutto ciò che può essere utile per affrontare gli imminenti esami di Maturità. Si clicchi su: http://www.treccani.it/Portale/sito/scuola/dossier/2010/esame_2010/indice.html
domenica 30 maggio 2010
sabato 29 maggio 2010
Qui e quivi pari non sono
Quivi, avverbio di luogo, non è, come potrebbe sembrare, un composto di qui (latino ‘hic’), ma deriva dal latino ‘eccum ibi’, colà, là, in quel luogo: ‘Andrete a Roma, e quivi resterete’ (cioè resterete là, in quel luogo). Errore è quindi usarlo nel significato di ‘qui’, ‘in questo luogo’, che si riferiscono a luogo vicino a chi parla.
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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
declinazione di un verbo
Gentile dott. De Rienzo,
oggi in ufficio è stata posta la seguente questione. Se dico "La cosa più importante è..." il verbo che segue "stare" va declinato al maschile o al femminile? In breve, è corretto: "La cosa più importante è stata..." o "La cosa più importante è stato..."? Io direi che il verbo va al femminile perché "cosa", soggetto, è femminile, a una mia collega invece suona meglio il maschile. Ci può sciogliere questo dubbio?
Francesca
Risposta dell’esperto:
De Rienzo Venerdì, 28 Maggio 2010
Il femminile sicuramente.
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Cortese Professore, non saremmo cosí perentori nella risposta. Innanzi tutto vorremmo far rilevare alla gentile Francesca - e con tutto il rispetto - due cose: un verbo si coniuga, non si declina e il verbo “stare” nella frase della lettrice non c’entra nulla. Nel caso in oggetto si tratta del verbo “essere”. E il verbo essere si può concordare tanto con il soggetto quanto con il predicato nominale (cioè quello che si dice del soggetto). Nell’esempio di Francesca manca il predicato nominale. Lo mettiamo noi per fare un esempio: La cosa piú importante è stata il regalo che ho ricevuto. Si può anche dire (e forse è preferibile): La cosa piú importante è stato il regalo... (il regalo è stato la cosa piú...).
venerdì 28 maggio 2010
Fare l'offerta di Caino
Il modo di dire si riferisce a una persona che fa un’offerta, un regalo esclusivamente per il proprio interesse (o per dovere), senza accompagnarlo con parole di... “riconoscenza”, di “gratitudine” e di “stima”. Fa, quindi, un dono sgradito e, molto spesso, inutile. La locuzione sembra sia nata dall’interpretazione del passo della Genesi (IV, 3-6) dove si legge che Caino faceva a Dio offerte sgradite, diversamente da quanto faceva Abele, il fratello.
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Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
dubbio linguistico
Mi dica la forma corretta:
Se tu incontrassi una strega cosa le chiederesti?
Le chiederei se vorrebbe giocare con me. E le chiederei se vorrebbe essere mia amica.
OPPURE
Le chiederei se volesse giocare con me. E le chiederei se volesse esser mia amica.
(Firma)
Risposta dell’esperto:
De Rienzo Giovedì, 27 Maggio 2010
La seconda soluzione.
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Dubbio grammaticale
Le seguenti espressioni sono entrambe corrette o no?
1) Vi siete bevutI il cervello
2) Vi siete bevutO il cervello
Ringrazio anticipatamente e complimenti per la rubrica,
Antonio
Risposta del linguista:
De Rienzo Giovedì, 27 Maggio 2010
Vi siete bevuti il cervello.
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Gentilissimo Professore, ci auguriamo, veramente, di non farci “odiare” se indossiamo spesso gli abiti del censore. “Dubbio linguistico”: la prima soluzione è corretta perché si tratta di un’interrogativa indiretta, l’uso del condizionale, per tanto, è in regola con le leggi grammaticali.
“Dubbio grammaticale”: con i verbi adoperati in senso riflessivo apparente il participio passato si può accordare anche con la “cosa”: vi siete lavatO le mani; vi siete lavatE le mani.
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Non ci stancheremo mai di ripetere che la stampa deve “dispensare” la lingua correttamente, senza ambiguità.
Dalla Repubblica di ieri, pagina 45:
“La compagnia canadese in scena a Venezia completamente nuda”.
Ci domandiamo: chi era nuda, Venezia o la compagnia?
Ecco un classico caso di “anfibologia” *, che in buona lingua è da evitare.
Se i responsabili avessero scritto, correttamente, “La compagnia canadese, completamente nuda, in scena a Venezia” forse sarebbero stati accusati di “pornolingua”?
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* http://it.wikipedia.org/wiki/Anfibologia
giovedì 27 maggio 2010
Io dò? Perché no?!
dò
Salve Prof.,
leggevo il blog di un tizio abbastanza conosciuto e più volte ho visto "dò" come voce del verbo dare: è una forma arcaica o un semplicissimo errore che non mi sarei aspettato dal tizio?
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 26 Maggio 2010
È un errore.
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Gentile Professore, ci spiace contraddirla, ma dobbiamo farle rilevare che la sua perentoria risposta non è corretta. Le prime due persone singolari e la terza plurale del presente indicativo del verbo dare si possono accentare: dipende dal gusto stilistico individuale. Non lo dice l’estensore di queste noterelle, illustre “signor nessuno”, lo sostengono i sacri testi, tra cui il Treccani (si veda).
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Un verbo adoperato “malamente”: uniformare
Il significato letterale del verbo denominale sopra citato è “rendere di una medesima forma”: sono stati uniformati tutti i moduli prestampati. Molto spesso si adopera con il significato di “adattare”, “conformare”, “accordare” e simili: Giuliano si è conformato alle usanze della famiglia ospitante. A nostro modesto avviso, anche se i vocabolari ci danno torto, è un uso improprio che in buona lingua è da evitare. La forma “corretta” è: Giuliano si è adattato alle usanze della famiglia ospitante.
mercoledì 26 maggio 2010
Il resultamento
mi sono imbattuto per caso nel suo meraviglioso e istruttivo sito: l’ho messo subito tra i preferiti. Lei rimane l’ultimo baluardo in difesa della nostra lingua, sempre piú “anglo-americannizzata” e maltrattata da quelli che - per “istituzione” - dovrebbero “dispensarla” correttamente: gli organi di informazione. Ma vengo subito al dunque. Ho letto su un giornale locale il termine “resultamento”. È chiaro che il cronista intendeva dire “risultato”. Le domando se esiste questo vocabolo perché nei vocabolari che ho consultato non ne ho trovato traccia.
Grazie se la mia richiesta sarà presa in considerazione.
Giacomo F.
Frosinone
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Cortese amico, il vocabolo “incriminato” esiste, anche se arcaico. È un sostantivo deverbale, provenendo, appunto, dal verbo “resultare” o “risultare”. I vocabolari, non tutti, lo registrano alla voce “risultamento”. Le copincollo ciò che riporta il “Treccani” in rete: “risultaménto (meno com. resultaménto) s. m. [der. di risultare], ant. o raro. – Il fatto di risultare, e quanto è risultato”. Si trova anche nel Dizionario della lingua italiana dell’accademia della Crusca (1829): - Pagina 134.
Per quanto attiene alla “nascita” clicchi su: http://www.etimo.it/?term=resultare&find=Cerca
domenica 23 maggio 2010
Acciaccoso
sabato 22 maggio 2010
Tenersi fra due acque
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Forse quasi nessuno sa che gli abitanti di Ravenna (lo sanno i ravennati?) hanno un doppio nome: ravennati (quello maggiormente conosciuto) e ravegnani. Quest’ultimo nome si ricollega, probabilmente, alla base prelatina del toponimo: “rava”. In origine indicava un “dirupo franoso”, poi una “fanghiglia” e simili. Ravenna, per tanto, è un derivato di “rava” con l’aggiunta del suffisso etrusco “-enna”, adoperato per designare una città.
venerdì 21 maggio 2010
Dar del fieno alle oche
Questo modo di dire ha lo stesso significato dell’altro, forse piú conosciuto, “portar vasi a Samo”, vale a dire fare una cosa inutile, perdere solamente del tempo che potrebbe essere impiegato in cose o attività piú redditizie. L’isola greca di Samo, nell’Egeo, nell’antichità era famosissima per i suoi vasi di ceramica verniciati di un rosso lucido, i “vasa samia”, lavorati magistralmente dagli artigiani che li esportavano in tutto il mondo allora conosciuto. Chi portava vasi a Samo faceva, quindi, una cosa “perfettamente inutile”. Come coloro che danno del fieno alle oche, le quali non mangiano erbe secche: si fa presto a darglielo, ma si butta via del tempo, tanto è vero che l’espressione ha assunto anche il significato di “gingillarsi”, “trastullarsi”. Il Gherardini, nel supplemento al suo vocabolario, alla voce in oggetto (vale a dire al motto “dar del fieno alle oche”, ndr) spiega: “Fare cosa di nessuna difficoltà, cose da non richiedere né ingegno né coraggio, siccome è di fatto il dare il fieno alle oche” e cita il solo esempio dell’Aretino in “Rime burlesche” (3.33): “ ‘ch’altro è saper dare all’oche il fieno. E altro è tracannar l’acqua dal legno; e altro è lo scarcare un corpo pieno’
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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
Caro De Rienzo,
ho scritto "si potrebbe scrivere una ventina di cartelle".
Mi è sorto il dubbio: dovevo scrivere "si potrebbero scrivere ..."?
L'accordo è sulla ventina o sulle cartelle?
Mi dica. Grazie.
(Firma)
De Rienzo Giovedì, 20 Maggio 2010
Si potrebbe scrivere una ventina di cartelle.
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Gentile Professore, ventina significando “composto di circa venti unità” si può considerare un nome collettivo e in quanto tale l’accordo si può avere tanto con ventina quanto con cartelle.
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Esiste il verbo “sblusare”? E se se esiste che cosa significa?
Si clicchi su: http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/domande_e_risposte/lessico/lessico_220.html
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Un'altra parola della nostra lingua da salvare: l'aggettivo TOSTANO. Significa presto, rapido, veloce, sollecito, subitaneo. Sembra derivi dall'aggettivo "tosto" con passaggio di significato da "saldo" a quello di "subito" con l'aggiunta del suffisso "-ano".
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Gentile dott. Raso,
sento spesso l’espressione “fare un putiferio”, oppure “è successo un putiferio” per indicare un litigio, un parapiglia, una scenata e simili. Ma cos’è questo putiferio?
Grazie
Pasquale U.
Salerno
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Cortese Pasquale, le “risponde”, per me, il linguista Ottorino Pianigiani: http://www.etimo.it/?term=putiferio
giovedì 20 maggio 2010
Essere il sussi
Quest’espressione, probabilmente poco conosciuta, si riferisce alla persona che fa le spese delle burle e degli scherzi. È tratta da un vecchio gioco dei fanciulli. Si clicchi su http://www.etimo.it/?term=sussi
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Dallo "Scioglilingua" del Corriere della Sera in rete:
tre
Caro professore,
ho una domanda che riguarda il numerale tre, si scrive tre, ma ventitré, trentatré,vero? però se abbiamo a che fare con il numerale 8123 - ottocentoventitré anche dobbiamo scrivere tre con accento, ho ragione? ho trovato tanti siti in Internet dove non è scritto tre con accento in caso sopraddetto, questo è corretto? e per esempio se abbiamo il numerale 823.000 - 0ttocentoventitremila, in questo caso anche non possiamo usare l'accento scritto?
grazie per la risposta,
cordiali saluti
Silvia
Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 19 Maggio 2010
L'accentazione del numero tre non è obbligatoria.
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Ci spiace, cortese Professore, ma ancora una volta dobbiamo dissentire. I composti con “tre” si accentano sempre anche se nell’uso, purtroppo, l’accento è oscillante (ma obbligatorio). Tre, aggettivo numerale cardinale, si scrive senza l’accento; invece prendono sempre l’accento i suoi composti: ventitré, trentatré, quarantatré, centotré e via dicendo; però, mille e tre, duemila e tre e simili (senza accento), perché in questi casi ‘tre’, essendo staccato, è usato come parola a sé stante. I composti di ‘tre’, insomma, sono da considerare parole tronche e vanno sempre accentati: ventitré, quarantatré, centotré .
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A proposito di accenti, abbiamo inviato questa elettroposta al direttore di Scudit
Segnaliamo un’ “inesattezza”. Là dov’è scritto “se (pronome atono)” va corretto in “se congiunzione”. Il pronome sé, infatti, atono o tonico, si accenta sempre.
Cordialmente
da (preposizione) e (congiunzione) la (articolo o pronome) li (pronome) ne (pronome) se (pronome atono) si (pronome) te (pronome) che (pronome)
dà (verbo dare) è (verbo essere) là (avverbio) lì (avverbio) né (congiunzione) sé (pronome tonico) sì (avverbio) tè (sostantivo) ché (congiunzione rara)
Ché, inoltre, non è una “congiunzione rara”: sta per “perché” e introduce una proposizione causale, interrogativa e finale.
mercoledì 19 maggio 2010
Perché le uova e non "gli uovi"?
martedì 18 maggio 2010
"A crudo"
lunedì 17 maggio 2010
Il passato sigmatico
domenica 16 maggio 2010
AVVISO
giovedì 13 maggio 2010
Mettere il fodero in bucato
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Ecco un’altra parola, un verbo per l’esattezza, che ci piacerebbe fosse “rispolverata” e rimessa in circolazione: alleppare (o leppare). I vocabolari moderni, infatti, non la registrano. Significa “fuggire”. Fra i testi che la... attestano il vocabolario di Policarpo Petrocchi e quello del Tommaseo - Bellini. Per l’origine diamo la “parola” a Ottorino Pianigiani: http://www.etimo.it/?term=leppare&find=Cerca .
mercoledì 12 maggio 2010
Il sarcasmo e l'ironia
“Godi, Fiorenza, poi che se’ sí grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!”
martedì 11 maggio 2010
"Porta allarmata"
ho visto sulla porta di una Banca il cartello "Porta Allarmata", mi sono fatta due risate pensando alla povera porta preoccupata...
Ma è corretto dire porta allarmata?
Grazie e cordiali saluti
Francesca
(Località non specificata)
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Gentile Francesca,
di primo acchito si resta interdetti: come può una porta essere - come lei giustamente dice - “preoccupata”?
L’espressione non piace neanche a me, preferisco “porta dotata di dispositivi di allarme”, ma non è scorretta. Allarmato, nell'accezione che c'interessa è, ovviamente, presente sul GRADIT, del De Mauro:
“allarmato: Dotato di un dispositivo di allarme: attenzione, porta allarmata”.
È inoltre lemmatizzato sul Sabatini Coletti 2002:
“allarmare: Con significato tecnico di recente acquisizione [...] collegare ambienti e varchi a un impianto di allarme: allarmare le porte.”
E sul Devoto-Oli 2007:
“allarmato: Dotato di un sistema di allarme: impalcatura allarmata”.
E in altri autorevoli vocabolari.
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Forse è il caso di ricordare che “reticenza” e “riluttanza” hanno significati diversi. Perché questa precisazione? Perché molto spesso la stampa adopera i due sostantivi deaggettivali indifferentemente. Vediamo, dunque, cosa dice il vocabolario Gabrielli in rete cliccando su reticenza e riluttanza.
http://www.etimo.it/?cmd=id&id=14523&md=26c841557caf5d52a27f866c6fee22f9
http://www.etimo.it/?cmd=id&id=14694&md=e91b99acb79e016c75695045a84b6380
lunedì 10 maggio 2010
La briffalda
Tra le parole da salvare della nostra lingua metteremmo “briffalda”, anche se di origine non schiettamente italiana, ma francese. Chi è questa briffalda? È una donna di malaffare. Ai nostri orecchi il termine sembra “piú gentile” di prostituta, di meretrice e di peripatetica. Ottorino Pianigiani ci “spiega” come si è giunti dall’antico francese “brifaut” (‘ghiottone’, ‘avido’) all’accezione di donna dai facili costumi: http://www.etimo.it/?term=briffalda .
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Due parole su un verbo che - a nostro modesto modo di vedere - molto spesso è adoperato, soprattutto dai cosí detti mezzi d’informazione, a sproposito: subire. Il significato proprio di questo verbo è “sopportare”, “ricevere qualcosa di avverso, di sgradito”: Giulio, finalmente, ha finito di subire le angherie di certi amici. Ci viene da sorridere, quindi, quando sulla stampa leggiamo frasi tipo “la produzione ha subíto un leggero rialzo”. Il rialzo si “sopporta”? Ancora. Visto il significato passivo del predetto verbo non si dica o si scriva “subire passivamente”. http://www.etimo.it/?term=subire&find=Cerca
domenica 9 maggio 2010
Denigrare e ingiuriare
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* http://www.etimo.it/?cmd=id&id=11898&md=bbaefb23dfe8bd2f523378f2217fcf31
sabato 8 maggio 2010
Lamentare...
venerdì 7 maggio 2010
C'è investimento e... investimento
seguo da tempo, e con molto interesse, le sue preziose “noterelle” sul buon uso della lingua italiana. Le scrivo per una curiosità che mi “assilla” da tempo. L’ “investimento”, come recitano i vocabolari, ha duplici significati: ‘’Urtare con violenza, soprattutto con un mezzo di trasporto: ha evitato per miracolo l’investimento d'un pedone. Impiego di una determinata somma di danaro in capitale o in un'impresa fruttifera: investire in azioni, in titoli, in terreni; investimenti azionari, immobiliari, ecc.’’.
Come si spiegano questi significati che, in apparenza, sono in antitesi tra loro?
Grazie e ancora complimenti per il suo impareggiabile sito.
Tiberio A.
Viterbo
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Gentile Tiberio, grazie per le sue belle parole. Le faccio “rispondere”, per quanto attiene alla sua curiosità, da Ottorino Pianigiani. Clicchi su http://www.etimo.it/?cmd=id&id=9309&md=79699757a517e961232189e4c8d97c17
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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
accordo del participio passato
Scusi, è argomento già trattato ma sono in difficoltà...
Rivolgendosi a una donna è giusto dire:
ti ho pensata o ti ho pensato?
Grazie
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Giovedì, 06 Maggio 2010
"Ti ho pensata", perché il complemento oggetto è espresso da una particella con valore di pronome personale anteposta al verbo.
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Cortese Professore, una piccola correzione alla sua risposta. Nell’esempio riportato dal lettore il verbo pensare è “in veste” intransitiva (ti ho pensata>>ho pensato a te) e in quanto tale non può reggere il complemento oggetto. La particella pronominale “ti”, quindi, è un complemento di termine. La regola da lei menzionata, inoltre, vale tassativamente per i pronomi clitici ‘lo’, ‘la’, ‘li’, ‘le’ e ‘ne’. Con le altre particelle clitiche ‘mi’, ‘ti’, ‘ci’, ‘vi’, ‘si’ la concordanza con il complemento oggetto non è obbligatoria, dipende dal gusto di chi parla o scrive: Giuliana, ti ho vista oppure Giuliana, ti ho visto.
giovedì 6 maggio 2010
C'era un paio o c'erano un paio (di amici)?
mio figlio (III media) ha scritto in un componimento in classe che “fuori c’era un paio di amici ad attenderlo”. L’insegnante, “scandalizzata”, ha corretto “c’era” in “c’erano” sostenendo che in casi del genere il verbo deve essere tassativamente di numero plurale. Io non sono convinto. Lei che ne pensa?
Grazie
Federico S.
Frosinone
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Cortese Federico, sono io a scandalizzarmi per la “pochezza linguistica” della docente. Paio appartiene alla schiera dei cosí detti nomi collettivi e in quanto tali possono avere il verbo tanto nel numero singolare quanto nel numero plurale: c’era un paio di amici; c’erano un paio di amici. In casi del genere, insomma, il verbo si può concordare sia con il soggetto grammaticale (paio) sia con il soggetto logico (amici). Dipende dal gusto stilistico di chi scrive. Personalmente prediligo la concordanza a senso.
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Tra le parole da salvare, quelle, cioè, che sono state relegate nella “soffitta della lingua”, vedremmo “brigoso”, vale a dire litigioso, rissoso. È tratto dal basso latino “briga” che significa rissa, contesa. È un aggettivo riferibile tanto a persone quanto a cose: è un uomo brigoso. Riferito a cose assume il significato di “che dà noia, molestia” e simili: è un lavoro brigoso.
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Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
D'alto bordo
Perché si dice "prostituta d'alto bordo". Che significa l'"alto bordo"?
Grazie
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 05 Maggio 2010
La parola al Forum.
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L’espressione “d’alto bordo” che significa importante, autorevole, di condizione sociale elevata, è una metafora tratta dal gergo marinaro. Il bordo della nave è il fianco della nave stessa. Una nave, quindi, può essere d’alto o di basso bordo. Se il bordo (fianco) emergente dall’acqua è alto si dirà “d’alto bordo”; se, invece, l’altezza è ridotta si dirà “di basso bordo”. Di qui, appunto, l’uso figurato della locuzione.
mercoledì 5 maggio 2010
Vertito: participio passato di "vertere"
Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
Participio passato
Professore, in questo momento proprio non mi sovviene: qual è il participio passato del verbo "vertere"?
Grazie e buona giornata.
(Firma)
Risposta dell’esperto:
Risposta De Rienzo Martedì, 04 Maggio 2010
Non esiste. Ci troviamo di fronte a un verbo difettivo.
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Cortese Professore,
il participio passato di vertere ci “sarebbe”, sebbene di uso rarissimo: VERTITO. Ne fa menzione Aldo Gabrielli nel suo “Dizionario Linguistico Moderno” (pag. 1178) e si trova anche in alcuni libri tra cui "Giurisprudenza italiana e la legge riunite", Volume 95
Unione tipografico-editrice torinese - 1948
... si fosse trattato di giudizio tra un cittadino italiano ed un cittadino
sanmarinese, ma non quando il giudizio fosse vertito, come era vertito difatti...
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Mettiamo alla prova il nostro italiano cliccando su http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/prova_di_italiano/glossogramma_32.html
martedì 4 maggio 2010
La congiunzione "ma"
lunedì 3 maggio 2010
Mobilio o mobilia?
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Cortese dott. Raso,
mi aiuti, sono disperato perché non so come spiegare a mio figlio (V elementare) come distinguere le parole che si scrivono con la “c” da quelle che, invece, prendono la “q”. C’è una regola in proposito? Le sarò grato se mi illuminerà.
Rossano A.
Potenza
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Gentile Rossano,
la regola ci “sarebbe”, ma occorre conoscere il latino. Per ora abitui suo figlio a consultare il vocabolario per dissipare ogni dubbio sull’uso della “c” o della “q”. Quando apprenderà le prime nozioni di latino imparerà che in italiano conservano la “q” le parole che l’avevano in latino: liquore (latino ‘liquor’); quale (latino ‘qualis’); iniquo (latino ‘iniquus’). La medesima regola per la “c”: cuore (latino ‘cor’); cuoio (latino ‘corium’); scuola (latino ‘schola’). Spero di esserle stato d’aiuto.
domenica 2 maggio 2010
Non dire quattro, se non l'hai nel sacco
Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
Non dire quattro se non l'hai nel sacco cioè non affermare alcunché se non sei proprio sicuro.
Ma come si spiega questa locuzione?
(Firma)
Risposta:
De Rienzo Sabato, 01 Maggio 2010
La parola al Forum.
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Gentile Professore,
Ludovico Passarini (Pico Luri di Vassano) cosí spiega il detto “Non dir quattro, se non l’hai nel sacco”: “Tendeva la mattina una ragna da pigliare tordi, e altri uccelli un villano di Pillercoli, e la sera se n’andava insieme con un compagno a stendere, e di mano in mano che calava giú la rete, schiacciava il capo a’ tordi, e gli metteva in un sacco, che teneva il compagno in mano, e quando poneva i tordi nel sacco, non guardava sempre alla bocca di esso, perché teneva gli occhi nel sacco. Mentre che ficcava dentro i tordi, quando aveva dato loro la stretta al capo, diceva: e uno, e due, e tre, e cosí gli andava contando a uno a uno; ma quando fu al quarto non schizzò cosí bene; onde il dire, e quattro, e ‘l volar via il tordo fu tutt’uno. Sí che il compagno disse: Non dir quattro, ché non è nel sacco, che poi passò in proverbio; il quale dimostra che chi non ha la cosa ben masticata e sicura, non dee farne disegno certo, né andarsene preso alle grida”.
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Vivere e campare. Questi due verbi, pur potendosi considerare l’uno sinonimo dell’altro, hanno sfumature diverse di significato. Il primo vale “avere vita”, “esistere” e si riferisce a organismi animali e vegetali: Giuseppe ha cessato di vivere la notte scorsa; tutte le piante hanno bisogno di acqua per vivere. Il secondo sta per “sostentarsi”, “mantenersi in vita”: quel barbone campa di elemosina. Nei tempi composti “vivere” può coniugarsi tanto con l’ausiliare essere quanto con l’ausiliare avere (quest’ultimo di uso raro, per la verità). “Campare”, invece, prende tassativamente l’ausiliare essere.