I GRAMMATICI usano dividere le sillabe in
“aperte” quando finiscono con una vocale: ma-re; te-so-ro e in “chiuse” quando,
invece, finiscono con una consonante: al-cher-mes. Una parola può essere
costituita, quindi, di tutte sillabe aperte o di tutte sillabe chiuse; la
maggior parte dei vocaboli, però, è composta di sillabe che chiameremo “miste”
(aperte e chiuse): bab-bo; sin-da-co; mam-ma; sol-do. A questo punto il
discorso ci porta a spendere due… parole sulla divisione delle sillabe in fin
di riga (o di rigo); come si va “a capo”, insomma, con le parole formate con
prefissi “speciali”: ben-, in-, mal-, cis-, dis-, pos-, trans- o tras-. Le
parole così composte possono dividersi in sillaba senza tener conto del
prefisso (che fa sillaba a sé) oppure considerare il prefisso parte integrante
della parola. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Dispiacere si può dividere
considerando il prefisso sillaba a sé; avremo, quindi, dis-pia-ce-re, oppure,
“normalmente”, di-spia-ce-re. Trastevere – altro esempio – si può dividere
secondo l’una o l’altra “regola”: Tras-te-ve-re o Tra-ste-ve-re. Consigliamo
vivamente, a coloro che non sono in grado di distinguere con assoluta certezza
i prefissi componenti, di attenersi – nell’andare “a capo” – alla normale
divisione sillabica. Eviteranno, in questo modo, di incorrere in spiacevoli
strafalcioni. In caso di dubbio si può consultare una buona grammatica dove,
nel “sillabo”, sono riportati tutti gli argomenti trattati, messi anche in
ordine alfabetico.
STUPISCE il constatare
che molte persone confondono la preposizione
con la proposizione, ritengono, cioè,
i due termini l’uno sinonimo dell’altro. Vediamo, quindi – sia pure per sommi
capi – che cosa è la “proposizione” (con la “o”). Ce lo dice la stessa parola
latina dalla quale deriva (“propositio”, ‘cosa proposta’ alla considerazione,
alla discussione e, per tanto, “argomento”, “concetto”) vale a dire “gruppo di
parole unito a un verbo che esprima un pensiero riguardo a un dato argomento”,
insomma una frase: Giovanni legge attentamente; Paolo rimira le stelle;
Giuliano risolve i cruciverba. In tutti questi esempi ogni parola è unita a un
verbo e forma, o meglio esprime un concetto “proposto” (‘proposizione’) alla
nostra attenzione. Gli “ingredienti” essenziali di una proposizione sono il
soggetto e il verbo, senza quest’ultimo, anzi, non si ha alcuna proposizione in
quanto il gruppo di parole risulterebbe “slegato”. Ma cos’è il soggetto,
elemento “principe” – dopo il verbo – di una proposizione? Semplicissimo: è la
persona, l’animale o la cosa di cui si parla. Viene dal latino “subiectus” ed è
l’elemento “sottoposto” a un giudizio, vale a dire – per usare le parole del
linguista Francesco Ugolini – “il termine di cui si afferma una maniera
d’essere o d’agire”. Negli esempi sopra riportati “affermiamo” che Giovanni
legge attentamente, che Paolo rimira le stelle e che Giuliano risolve i
cruciverba; Giovanni, Paolo e Giuliano sono, per tanto, “elementi sottoposti” a
una nostra considerazione. Attenzione, quindi, non si confonda la “preposizione”
con la “proposizione”: il figlio di un nostro conoscente ha scritto – in un
compito in classe – che trovava “difficoltoso riconoscere i vari complementi
contenuti in una preposizione”.
Riteniamo superfluo riportare il giudizio negativo dell’insegnante,
fortunatamente di quelli con la “i” maiuscola. E visto che siamo in tema di
proposizioni evitate – se desiderate scrivere forbitamente – di adoperare
l’avverbio “onde” seguito da un infinito (anche se usato da “firme
eccellenti”): ti scrivo onde avvertirti del mio arrivo. Si dirà, correttamente,
ti scrivo “per” avvertirti del mio arrivo. Sí, siamo caduti nella pedanteria,
ma non importa. Onde, è bene ricordarlo, è un avverbio di luogo, precisamente
di moto da luogo, è il latino “unde” e vale “da dove”; non ci sembra corretto
adoperarlo, quindi, per introdurre una proposizione finale o causale. Non è,
insomma, una parolina ‘multiuso’ anche se molte cosí dette grandi firme non si
fanno scrupolo alcuno dell’uso improprio. Abbiamo sempre detto, infatti, che
non tutti gli scrittori sono linguisti e che non tutti i giornalisti sanno
adoperare la lingua a dovere. Voi, amici, seguite chi volete; se desiderate,
però, scrivere (e parlare) correttamente diffidate di queste “firme illustri”.
DORMENTE e dormiente sono entrambe le forme del participio
presente del verbo dormire e, in quanto tali, si possono adoperare
indifferentemente. La prima forma è quella piú comune e "piú
regolare" perché segue la "regola" del paradigma dei verbi della
III coniugazione che formano il participio presente aggiungendo al tema la
desinenza "-ente": "dorm" (tema), "-ente"
(desinenza). La seconda rispecchia la forma latina, cioè "dormiens,
dormientis": dormiente(m). Nell'uso, però, si tende ad adoperare la forma
latineggiante (dormiente) in funzione di sostantivo: il dormiente, i dormienti.
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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari
dell'uso: ferraguto. Aggettivo sostantivato
che sta per "ladro di
campagna".