mercoledì 15 novembre 2017

Il "sesso" del/della carcere


Il figliolo di un nostro amico ha “rimediato” un’insufficienza in un componimento in classe perché ha scritto “una” carcere anziché  “un” carcere, come gli ha fatto rilevare il suo professore di lingua e letteratura italiana. Ci dispiace immensamente per il figlio del nostro amico, ma ci dispiace ancora di piú per la “pochezza linguistica” dell’insegnante di scuola media superiore: l’alunno “sbagliando” non ha... sbagliato. Ci spieghiamo meglio.  Carcere – e il professore dovrebbe saperlo – nel singolare può essere tanto di genere maschile quanto di genere femminile, anche se quest’ultimo è di uso, per lo piú, letterario (nel plurale è tassativamente femminile: ahi, la stampa: *i carceri!). Vediamo, per sommi capi, la sua storia per capire la  “nascita” dei due generi.  Il termine carcere, dunque, indica contemporaneamente il luogo, o meglio l’edificio, ove viene scontata la pena e la pena medesima: lo hanno rinchiuso in carcere; gli hanno dato due anni di carcere. In quest’ultimo senso era molto comune, nei tempi andati, l’espressione  “carcere duro” (e ciò spiegherebbe il genere maschile) con cui veniva indicata una pena particolarmente rigorosa. Silvio Pellico, nelle  “Mie prigioni”, descrive minuziosamente questo tipo di pena: “Essere obbligato al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su rudi tavolacci, e mangiare il piú povero cibo immaginabile”. Da questa  espressione singolare maschile è nato il normale plurale maschile: carceri duri. Carcere, quindi, nel singolare può essere sia maschile sia femminile, in quest’ultimo caso rispetta la  “regola” dei sostantivi in  “-e” che sono, in buona parte, di genere femminile. Per concludere possiamo affermare che ‘carcere’ nel singolare è maschile se indica la pena: cinque anni di carcere; carcere preventivo; femminile se indica il luogo: una carcere fatiscente. C’è da dire, però, che nell’uso i due generi si confondono (e “confondono” i professori) con una netta prevalenza del maschile. Nel plurale sarà tassativamente femminile: le carceri. Per quanto attiene all'etimologia, diamo la "parola" a Ottorino Pianigiani, anche se ritenuto non fededegno da (quasi) tutti i linguisti.

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Sullo stesso argomento un interessantissimo articolo del prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Università di Catania

BOCCIARE LA MINISTRA?


Vari amici ci hanno messo a parte di una performance linguistica della ministra della Pubblica istruzione Gelmini, ‘rea’ di aver realizzato, pur dopo qualche iniziale esitazione, la forma i carceri al posto del più corrente “le carceri”. Su Internet abbiamo quindi potuto leggere facili giudizi di condanna come “La Gelmini non sa la grammatica”, “una perla ... della Sciacquetta sgrammaticata”, “E dopo l’egìda arrivano i carceri”, ecc. C’è però da chiedersi se tali facili giudizi di condanna siano giustificati da opere istituzionali, che codificano gli usi, come i vocabolari e le grammatiche. E ancor prima dagli usi dei parlanti colti.
 Ora, il ben noto Zingarelli (2009) etichetta la voce carcere come “s.m. o (lett.) f. (pl. carceri f. o raro m., arc. † carcere f.”. La caratterizzazione è invero ineccepibile. Il femm. la carcere è ormai voce “arcaica” o “letteraria”. Il plurale corrente è le carceri. Ma il maschile i carceri è solo “raro” e non certamente sbagliato! E questo basterebbe a dimostrare l’inconsistenza del giudizio di condanna. La consultazione di altri testi sconfessa ulteriormente la condanna di cui sopra. Anche il Dardano (1980-81) riporta le due varianti: “pl. ‘le o i carceri’”. Il dizionario di T. De Mauro (Paravia 2000), ex-ministro della Pubblica istruzione colloca addirittura il plurale “i carceri” nei quadri flessionali della voce, prima de “le carceri” nella nota grammaticale (“anche femm. pl. le carceri”). Un po’ più generico, ma senz’alcuna condanna, è il Gabrielli-Hoepli 2008: “nel pl. hanno convissuto a lungo m. e f., con prevalenza recente del f.”. Più selettivo è invece il Gabrielli illustrato 1989: “Il pl. sempre f. (‘le carceri’) [...]; il m. ormai solo nella locuz. storica ‘i carceri duri’”. Stranamente restrittivo invece, ma anche qui senz’alcuna condanna, è il Garzanti - Patota 2007: “il maschile ‘i carceri’ può essere usato in riferimento a singoli edifici (‘la costruzione di due nuovi carceri’)”. Una grammatica istituzionale come quella di L. Serianni (Utet 1988 e Garzanti 1997): non esita poi a riconoscere che “l’oscillazione si mantiene anche nel plurale (dove però è più comune il femminile)”.
 Sulla codificazione del plurale, altri dizionari, va anche detto, sono invece molto restrittivi, ignorando l’uso raro "i carceri", che viene implicitamente sanzionato. Così nell’Ottocento il manzoniano Giorgini-Broglio 1870 puntualizza: “Nel plur. sempre di gen. femm.”, e il Petrocchi 1884/1887: “al pl. solam. femm.”. Nel Novecento il Diz. Enc. Ital. (1955) col LUI (1970) e col Duro (1986) all’unisono: “il plur. è di forma femm. ‘le carceri’”; il purista Palazzi 1957 col Palazzi-Folena et alii 1992: “al pl. sempre f.: le carceri”; il Treccani 2003: “pl. le carceri”. E così ancora il De Felice-Duro (19741-19932), il DISC di Sabatini-Coletti (1997-2007), il Devoto-Oli 2008.
 Ma a parte i testi di codifica, quali sono gli usi reali e concreti dei parlanti? La “Letteratura Italiana Zanichelli” (LIZ) 2001 e ora BIZ (2010), ricca di circa 1.000 testi, su 64 autori (dal ’500 al ’900), ne segnala due che adoperano il masch. pl. i carceri: T. Campanella 1622 e S. Pellico 1832 (che pure utilizza ben 32 volte “le carceri”). E possiamo ancora aggiungere, grazie al Battaglia, ancora due esempi: di G. Prati (1841-1847) e di A. Gramsci av. 1937. E nel “Sole 24 Ore”, di fronte a oltre 170 esempi al femminile, ce ne sono due al maschile di V. Branca (8.IV.90 e 26.IX.93), che non disdegna peraltro il femm.
 A volersi poi chiedere il perché del maschile il carcere e del femm. le carceri, va ricordato che il sing. la carcere oggi forma “arcaica” o “letteraria” è già documentato nel ’200, prima del maschile attestato a partire dal Trecento (per es. in Dante e Boccaccio, che avranno contribuito al successivo prevalere del maschile il carcere, senza dire del 96,4% delle parole in “-ere” di genere maschile). E se si tratta di voce ereditaria dal “lat. carcere(m)”, è bene ricordare che nel latino classico era sì maschile, ma nel latino medievale (VIII sec.) di genere femminile. Che è alla base della forma dell’it. ant., nonché dello spagnolo (la carcel c. 1140), dell’antico francese (la cartre sec. X, chartre sec. XII), del provenzale (la carce) e del catalano.




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