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Una donna è "assessore" o "assessora"? lunedì 30 novembre 2015
Piantar la vigna e non berne il vino
Questa locuzione, assai antica, si adopera (o adoperava?)
per deridere le persone che si danno "arie da sapientoni", ma alla
resa dei conti... È simile, per certi
aspetti, a quella piú nota "fare i conti senza l'oste". L'espressione
è tratta da una novella che si perde nella notte dei tempi. Un contadino decise di piantare una vigna, ma
un indovino gli predisse che non avrebbe mai bevuto di quel vino. Il villano
non se ne curò e si mise a piantar le viti. Arrivò il tempo della vendemmia e
il contadino cominciò - come è naturale - a fare il vino. Quando fu pronto si
fece porgere un bicchiere per assaggiarlo, sorridendo al ricordo della
"profezia". Ma fece i conti senza l'oste. Un grosso porco si
introdusse nella vigna e cominciò a calpestarla, costringendo il contadino a
posare il bicchiere colmo di vino per correre a difendere il suo
"tesoro". Il villano, cosí, non bevve il vino della sua vigna, come
aveva "sentenziato"
l'indovino.
domenica 29 novembre 2015
Andare a spianto
Cortese dott. Raso,
il suo blog è veramente una fonte inesauribile di curiosità linguistiche oltre che di "lezioni" di lingua italiana. L'ho scoperto per caso e l'ho navigato in lungo e in largo apprendendo cose che, come spesso lei usa dire, non tutti i sacri testi grammaticali riportano come, per esempio, il plurale di "ambo". Le scrivo per conoscere l'origine di un modo di dire perché nessun testo consultato ha saputo "rispondermi". L'espressione è "andare (o mandare) a spianto" che, come si sa, significa versare in cattive condizioni economiche. Cos'è questo "spianto", dunque? Grazie infinite se avrà la cortesia di rispondermi e ancora complimenti per il suo impegno nel divulgare il buon uso della lingua italiana.
Giuseppe B.
Ravenna
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La parola del giorno (di ieri) dello Zingarelli, "stufare", ci ha richiamato alla mente un nostro vecchio intervento che riproponiamo.
il suo blog è veramente una fonte inesauribile di curiosità linguistiche oltre che di "lezioni" di lingua italiana. L'ho scoperto per caso e l'ho navigato in lungo e in largo apprendendo cose che, come spesso lei usa dire, non tutti i sacri testi grammaticali riportano come, per esempio, il plurale di "ambo". Le scrivo per conoscere l'origine di un modo di dire perché nessun testo consultato ha saputo "rispondermi". L'espressione è "andare (o mandare) a spianto" che, come si sa, significa versare in cattive condizioni economiche. Cos'è questo "spianto", dunque? Grazie infinite se avrà la cortesia di rispondermi e ancora complimenti per il suo impegno nel divulgare il buon uso della lingua italiana.
Giuseppe B.
Ravenna
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Gentile Giuseppe, per quale motivo non dovrei risponderle
(soprattutto dopo i complimenti che ho ricevuto. Scherzo, naturalmente)? La
locuzione, dunque, come lei ha anticipato, si riferisce a una persona che cade
in miseria. È tratta dal verbo "spiantare", che significa "sradicare, estirpare un
albero" dal terreno e un albero "spiantato", ovviamente, non può
dare piú frutti. In senso figurato, quindi, la persona che è andata a spianto è
stata "sradicata" dalla agiatezza, non può piú godere, quindi, di
"frutti economici". ***
La parola del giorno (di ieri) dello Zingarelli, "stufare", ci ha richiamato alla mente un nostro vecchio intervento che riproponiamo.
venerdì 27 novembre 2015
Amputare e imputare
«L'uomo è amputato di due rapine e di sequestro di
persona». Incredibile, ma proprio
cosí scriveva un giornalino locale, che
non menzioniamo per carità di patria. Il giornalista estensore dell'articolo
ritiene, probabilmente, che "amputare" sia una variante di "imputare" in
quanto cambia soltanto la vocale iniziale. Non è cosí, naturalmente; i due
verbi, entrambi della prima coniugazione, hanno significati diversi: il primo (amputare) vale, come si può leggere
in un qualsivoglia vocabolario della
lingua italiana, "tagliare, asportare mediante operazione chirurgica"
(amputare un piede); il secondo (imputare) sta per "accusare, incolpare,
incriminare" (l'uomo è imputato di appropriazione indebita). I suddetti
verbi, però, hanno la medesima radice latina "putare" e qui,
probabilmente, la confusione tra i due. Vediamo, per tanto, la differenza
affidandoci a Ottorino Pianigiani. Si clicchi su amputare e imputare.
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La parola (di ieri) proposta da "unaparolaalgiorno.it": supercazzola.
Ci corre l'obbligo di correggere questa frase: «... il numero di comici che ha ricorso a...». In questo caso il verbo "ricorrere" è adoperato intransitivamente e si coniuga con l'ausiliare "essere" (il numero di comici che è ricorso).
(I curatori del sito in oggetto hanno provveduto ad apportare la correzione).
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La parola del giorno dello Zingarelli: discordare.
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La parola (di ieri) proposta da "unaparolaalgiorno.it": supercazzola.
Ci corre l'obbligo di correggere questa frase: «... il numero di comici che ha ricorso a...». In questo caso il verbo "ricorrere" è adoperato intransitivamente e si coniuga con l'ausiliare "essere" (il numero di comici che è ricorso).
(I curatori del sito in oggetto hanno provveduto ad apportare la correzione).
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Un'altra perla del vocabolario Gabrielli
"ritoccato" (in Rete):
ossequente
[os-se-quèn-te]
non corretto ossequiente
agg. (pl. -ti)
Che porta ossequio; ubbidiente, rispettoso: giovani ossequienti ai loro maestri; essere o. alle leggi
I
"ritoccatori" specificano, correttamente, che la forma con la
"i" (ossequiente) è errata, ma l'esempio...[os-se-quèn-te]
non corretto ossequiente
agg. (pl. -ti)
Che porta ossequio; ubbidiente, rispettoso: giovani ossequienti ai loro maestri; essere o. alle leggi
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La parola del giorno dello Zingarelli: discordare.
giovedì 26 novembre 2015
Ti conosco, mascherina!
Ciò che avete appena letto non è un modo di dire ma un'esclamazione adoperata - per lo più in senso scherzoso - per far intendere all'interlocutore di avere capito le sue vere intenzioni nonostante le simulazioni e le finzioni "adottate": ti conosco, mascherina! ho capito ciò che vuoi; non sei riuscito a celare le tue vere intenzioni. L'espressione - ancora in uso e adoperata in senso figurato - è stata "trasportata" nel linguaggio di tutti i giorni dal gergo delle feste mascherate di un tempo. La locuzione era, infatti, frequentissima e si usava per dire a qualcuno che era stato riconosciuto nonostante la maschera gli coprisse il volto. E a proposito di maschera, ci sembra non abbisognevole di spiegazioni l'espressione "sembrare una maschera", riferita a una persona dal volto eccessivamente truccato e con colori particolarmente vistosi. La medesima locuzione si usa nei confronti di qualcuno vestito in modo rutilante, con tinte contrastanti e... squillanti: Alfonso, come ti sei conciato, sembri una maschera!
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Sbandare: quale ausiliare?
Tutti i vocabolari che abbiamo consultato (cartacei e in Rete) sono concordi nel segnalare il verbo "avere" quale ausiliare del verbo "sbandare": l'automobile ha sbandato ed è finita contro un muro. E hanno perfettamente ragione perché "sbandare", come tutti i verbi intransitivi che indicano un moto fine a sé stesso, nei tempi composti prende l'ausiliare avere. Solo il Treccani ammette anche l'ausiliare "essere". Una rapida ricerca con Googlelibri (l'auto ha/è sbandato/a) ha dato 32 occorrenze con l'ausiliare avere e 8 con l'ausiliare essere.
Abbiamo
l’impressione che nell’immaginario collettivo (anche se non si deve mai
generalizzare) si faccia una gran confusione tra giornalisti, scrittori e...
linguisti. Si accredita la tesi secondo la quale un giornalista cosí detto di
grido, un giornalista dal nome prestigioso, sia anche un ottimo linguista.
Questa tesi, a nostro modo di vedere, è falsa e, quindi, da respingere
recisamente. Un ottimo giornalista è colui che sa “scegliere” le notizie e, una volta “assimilate”, le commenta per il grande pubblico
con parole semplici, come farebbe un insegnante di fronte ai suoi allievi. Il
giornalista – in un certo senso – è l’educatore della pubblica opinione. I
giornalisti dal nome prestigioso (ma chi stabilisce il “prestigio”?) che non rispettano le norme grammaticali
per puro snobismo non possono essere definiti linguisti nel senso letterale del
termine, e sono colpevoli di “lesa
lingua” quanto, se non di piú, i giornalisti che non applicano le regole perché
non le conoscono. Il giornalista-linguista si preoccupa, nello scrivere, di non
incorrere in “inesattezze” che
potrebbero turbare l’ “equilibrio linguistico-grammaticale” dei lettori,
soprattutto dei lettori-studenti, mettendo cosí in discussione quanto alcuni
docenti (quelli con la “D” maiuscola, se ce ne sono ancora, visto lo sfacelo in cui versa la scuola italiana) si sforzano
d’insegnare ai loro discenti, a dispetto dei giornalisti che “fanno la lingua”.
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Sbandare: quale ausiliare?
Tutti i vocabolari che abbiamo consultato (cartacei e in Rete) sono concordi nel segnalare il verbo "avere" quale ausiliare del verbo "sbandare": l'automobile ha sbandato ed è finita contro un muro. E hanno perfettamente ragione perché "sbandare", come tutti i verbi intransitivi che indicano un moto fine a sé stesso, nei tempi composti prende l'ausiliare avere. Solo il Treccani ammette anche l'ausiliare "essere". Una rapida ricerca con Googlelibri (l'auto ha/è sbandato/a) ha dato 32 occorrenze con l'ausiliare avere e 8 con l'ausiliare essere.
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Linguisti e giornalisti
mercoledì 25 novembre 2015
Che bella caterinetta
La parola del giorno dello Zingarelli: caterinetta.
E quella proposta da questo portale: cempennare.
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Filadelfino e Filadelfiese - si presti attenzione perché, spesso, i due termini si confondono. Il primo indica l'abitante di Filadelfia, un comune in provincia di Vibo Valentia, il secondo l'abitante della città statunitense.
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Per celia abbiamo cercato, con Googlelibri, "beneficienza", la sorpresa è stata... sorprendente. Guardate qui. Forse è il caso di chiarire, a scanso di equivoci, che si scrive senza la "i" (beneficenza).
martedì 24 novembre 2015
Le "perle" del nuovo vocabolario Gabrielli (in rete)
Povero professor
Aldo Gabrielli, si starà rivoltando nella tomba alla vista del suo vocabolario
ritoccato e rovinato dai suoi "revisionisti". Ecco, infatti, ancora
una "perla" dei ritoccatori a proposito dell'uso corretto del verbo "appropriare".
Scrive l'insigne linguista nel suo "Dizionario Linguistico Moderno"
(pag. 53): «Appropriare è verbo transitivo e regge quindi il complemento
oggetto senza l'inserzione di alcuna particella: "appropriare lo stile al
soggetto". Quando è usato con la particella pronominale
("appropriarsi") ha il significato di "appropriare a sé"
una cosa, "render proprio l'altrui", e respinge ovviamente la
particella "di"; si dirà quindi correttamente "appropriarsi una
somma di denaro", e non "appropriarsi di una somma di denaro"».
Come potrete vedere, cliccando qui, i
"ritoccatori" del vocabolario lo hanno contraddetto. Il
"nuovo" vocabolario Gabrielli, insomma, è pieno di "perle".
Un'altra ancora? L'invariabilità del sostantivo "dopopranzo".
Il Maestro, nel suo "Dizionario" (pag. 425), scrive, invece, che il
predetto sostantivo si pluralizza normalmente: il dopopranzo, i dopopranzi. Perché? I sostantivi composti di
una preposizione e di un nome maschile singolare prendono la normale desinenza
del plurale. I revisori del vocabolario Gabrielli, comunque, stiano tranquilli, non si cruccino:
hanno l'avallo di altri "autorevoli" dizionari...
E a proposito di vocabolari, il Treccani dà il sostantivo dopolavoro invariato nel plurale e dopopranzo, invece, variabile. Eppure i due sostantivi hanno la medesima "composizione". Misteri eleusini!
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La parola che proponiamo è: trutilare. Verbo sinonimo di "zirlare". Qui la coniugazione completa del verbo non molto conosciuto.
E a proposito di vocabolari, il Treccani dà il sostantivo dopolavoro invariato nel plurale e dopopranzo, invece, variabile. Eppure i due sostantivi hanno la medesima "composizione". Misteri eleusini!
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La parola che proponiamo è: trutilare. Verbo sinonimo di "zirlare". Qui la coniugazione completa del verbo non molto conosciuto.
lunedì 23 novembre 2015
Il petriolo
La parola proposta da questo portale è: petriolo.
Grosso imbuto di legno per versare il vino nella botte.
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Un po' d'ortografia
Zigrinato
– non zirighinato.
Zig
zag – anche in grafia unita, zigzag. In due parole, senza trattino.
Zigzagare
– anche zizzagare.
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Stupisce, e non poco, il constatare che il vocabolario Treccani (che per la sua autorevolezza viene subito dopo la Crusca) scriva che "appropriarsi" seguito dal complemento oggetto sia "meno comune". Al contrario, è l'unica forma corretta.
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Stupisce, e non poco, il constatare che il vocabolario Treccani (che per la sua autorevolezza viene subito dopo la Crusca) scriva che "appropriarsi" seguito dal complemento oggetto sia "meno comune". Al contrario, è l'unica forma corretta.
domenica 22 novembre 2015
Sua maestà la congiunzione Che
Riproponiamo un
nostro vecchio intervento sul "che", congiunzione dai molteplici usi che non tutti, forse, conoscono e per
questo motivo viene spesso bistrattata anche da coloro che si piccano di
"fare la lingua".
Tutti i grammatici sono concordi – una volta tanto – nel definire la congiunzione “che” regina delle congiunzioni subordinanti; la ritroviamo, infatti, a introdurre quasi sempre ogni specie di proposizione subordinata. Il titolo di regina le spetta, dunque, per “diritto linguistico”. Oltre a essere una congiunzione dichiarativa – che è la sua principale funzione – la “regina” è anche congiunzione causale: si arrabbiò moltissimo ‘che’ io fossi mancato all’appuntamento; e finale: stava sempre attento ‘che’ i figli si comportassero bene; e consecutiva: il freddo è tale ‘che’ non si resiste; e comparativa: è più intelligente ‘che’ non sembri; e temporale: lo incontrai ‘che’ era inverno inoltrato. Altre volte si può trovare davanti ad altre specie di proposizioni subordinate in compagnia di altre parole; talvolta anche fusa con queste ultime, tanto ‘che’ è appena riconoscibile: allorché (allor che), fuorché (fuor che), sennonché (se non che), poiché (poi che), ancorché (ancor che) e via dicendo. A questo proposito non siamo affatto d’accordo con alcuni scrittori “moderni” che “scopiazzano” i loro colleghi francesi che riducono al minimo l’uso delle congiunzioni: preferiscono uno stile letterario che lasci indipendenti il più possibile le proposizioni l’una dall’altra; non amano, insomma, la subordinazione. La moderna lingua d’Oltralpe preferisce dire, per esempio, “pioveva moltissimo. Da tempo non si vedeva una pioggia così abbondante” in luogo di “vien giù una pioggia ‘quale’ non si vedeva da tempo”. Anche in casa nostra – come dicevamo – c’è la tendenza a sopprimere più che si può le congiunzioni, a imitazione dei Francesi, secondo la famosissima “legge” che stabilisce l’erba del vicino essere più verde. Certo, non si può negare il fatto – evidentissimo – che le congiunzioni appesantiscono il periodo; i periodi con pochissime congiunzioni risultano indubbiamente molto più snelli. Ma è altrettanto certo il fatto che è proprio del genio della nostra lingua – idioma gentil sonante e puro, per dirla con l’Alfieri – concatenare in modo logico le varie proposizioni del periodo e metterne bene in evidenza i rapporti finali, temporali, causali e gli altri che esistono tra questi. E questo compito è proprio delle congiunzioni. Per questo motivo condanniamo – senza appello – i moderni scrittori che privilegiano lo “stile gallico” al posto di quello “italico”. Il nostro stile è il vero erede di quello latino, quant’altro mai complesso, organico, compatto, concatenato. Ma non basta. A infilzare una lunga teoria di proposizioni indipendenti e necessariamente brevi – a imitazione dei moderni scrittori francesi – si finisce con il ridurre il discorso – e, quindi, il nostro scritto – a una cadenza sincopata, asmatica, singhiozzata, che a lungo non può che generare pena e monotonia. Quando ci capita di leggere una paginetta di quelle “minifrasi”, ciascuna delle quali va per proprio conto, ci sembra di sentire un discorso dinoccolato, disarticolato, senza scheletro. Il discorso, insomma, di un selvaggio. Per concludere queste noterelle riteniamo, dunque, che sia opportuno rimanere fedeli alla nostra lunga tradizione linguistica – consacrata da moltissimi “mostri” letterati – perché quando si sa maneggiare bene la penna e si fa un uso accorto delle congiunzioni i nostri scritti avranno un bell’effetto e un maggior vigore d’espressione. Attenzione però, ripetiamo, al loro uso corretto. Nella lingua parlata, per esempio, non si fa alcuna distinzione tra “ovvero” e “oppure” e si adopera l’una o l’altra congiunzione con valor disgiuntivo. Ciò è un grossolano errore: solo “oppure” è una congiunzione disgiuntiva con il significato di “o”; mentre “ovvero” è congiunzione di equivalenza (o esplicativa) e sta per “cioè”, “ossia”. Perché alcuni vocabolari non specificano la differenza
che intercorre tra le due congiunzioni? O, peggio, le attestano come sinonimi?
Tutti i grammatici sono concordi – una volta tanto – nel definire la congiunzione “che” regina delle congiunzioni subordinanti; la ritroviamo, infatti, a introdurre quasi sempre ogni specie di proposizione subordinata. Il titolo di regina le spetta, dunque, per “diritto linguistico”. Oltre a essere una congiunzione dichiarativa – che è la sua principale funzione – la “regina” è anche congiunzione causale: si arrabbiò moltissimo ‘che’ io fossi mancato all’appuntamento; e finale: stava sempre attento ‘che’ i figli si comportassero bene; e consecutiva: il freddo è tale ‘che’ non si resiste; e comparativa: è più intelligente ‘che’ non sembri; e temporale: lo incontrai ‘che’ era inverno inoltrato. Altre volte si può trovare davanti ad altre specie di proposizioni subordinate in compagnia di altre parole; talvolta anche fusa con queste ultime, tanto ‘che’ è appena riconoscibile: allorché (allor che), fuorché (fuor che), sennonché (se non che), poiché (poi che), ancorché (ancor che) e via dicendo. A questo proposito non siamo affatto d’accordo con alcuni scrittori “moderni” che “scopiazzano” i loro colleghi francesi che riducono al minimo l’uso delle congiunzioni: preferiscono uno stile letterario che lasci indipendenti il più possibile le proposizioni l’una dall’altra; non amano, insomma, la subordinazione. La moderna lingua d’Oltralpe preferisce dire, per esempio, “pioveva moltissimo. Da tempo non si vedeva una pioggia così abbondante” in luogo di “vien giù una pioggia ‘quale’ non si vedeva da tempo”. Anche in casa nostra – come dicevamo – c’è la tendenza a sopprimere più che si può le congiunzioni, a imitazione dei Francesi, secondo la famosissima “legge” che stabilisce l’erba del vicino essere più verde. Certo, non si può negare il fatto – evidentissimo – che le congiunzioni appesantiscono il periodo; i periodi con pochissime congiunzioni risultano indubbiamente molto più snelli. Ma è altrettanto certo il fatto che è proprio del genio della nostra lingua – idioma gentil sonante e puro, per dirla con l’Alfieri – concatenare in modo logico le varie proposizioni del periodo e metterne bene in evidenza i rapporti finali, temporali, causali e gli altri che esistono tra questi. E questo compito è proprio delle congiunzioni. Per questo motivo condanniamo – senza appello – i moderni scrittori che privilegiano lo “stile gallico” al posto di quello “italico”. Il nostro stile è il vero erede di quello latino, quant’altro mai complesso, organico, compatto, concatenato. Ma non basta. A infilzare una lunga teoria di proposizioni indipendenti e necessariamente brevi – a imitazione dei moderni scrittori francesi – si finisce con il ridurre il discorso – e, quindi, il nostro scritto – a una cadenza sincopata, asmatica, singhiozzata, che a lungo non può che generare pena e monotonia. Quando ci capita di leggere una paginetta di quelle “minifrasi”, ciascuna delle quali va per proprio conto, ci sembra di sentire un discorso dinoccolato, disarticolato, senza scheletro. Il discorso, insomma, di un selvaggio. Per concludere queste noterelle riteniamo, dunque, che sia opportuno rimanere fedeli alla nostra lunga tradizione linguistica – consacrata da moltissimi “mostri” letterati – perché quando si sa maneggiare bene la penna e si fa un uso accorto delle congiunzioni i nostri scritti avranno un bell’effetto e un maggior vigore d’espressione. Attenzione però, ripetiamo, al loro uso corretto. Nella lingua parlata, per esempio, non si fa alcuna distinzione tra “ovvero” e “oppure” e si adopera l’una o l’altra congiunzione con valor disgiuntivo. Ciò è un grossolano errore: solo “oppure” è una congiunzione disgiuntiva con il significato di “o”; mentre “ovvero” è congiunzione di equivalenza (o esplicativa) e sta per “cioè”, “ossia”. Perché alcuni vocabolari non specificano la differenza
che intercorre tra le due congiunzioni? O, peggio, le attestano come sinonimi?
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Avevamo segnalato ai responsabili lessicografi del
vocabolario Treccani che il verbo "defaticare" non è una variante di
"defatigare" ma un verbo a sé stante e con un significato opposto.
L'errore non è stato emendato. Torniamo "alla carica", sperando
che... Ecco ciò che scrivemmo.
Leggiamo dal vocabolario “Treccani” in rete:
defatigare
defatigare (non com. defaticare) v. tr. [dal lat. defatigare, comp. di de- e fatigare «affaticare»] (io defatigo, tu defatighi, ecc.), letter. – Stancare, esaurire le capacità di resistenza di una persona. ◆ Part. pres. defatigante anche come agg., che affatica, che logora le forze. ◆ Part. pass. defatigato, anche come agg., affaticato, spossato.
-------------------
“Defaticare” non è una variante poco comune di “defatigare”. Sono due verbi a sé stanti e con significati diversi. “Defatigare”, con la “g”, è pari pari il latino ‘defatigare’ composto con il prefisso “de-” (che non ha valore sottrattivo) e il verbo ‘fatigare’ (affaticare) e significa “stancare”, “logorare”, “affaticare”. “Defaticare”, con la “c”, è composto con il prefisso sottrattivo o di allontanamento “de-” e il sostantivo “fatica” (‘che toglie, che allontana la fatica’). Si adopera soprattutto nel linguaggio sportivo nella forma riflessiva e significa “compiere determinati esercizi per togliere dai muscoli l’eccesso di acido lattico formatosi in seguito a sforzi prolungati”. Si potrebbe dire quindi, in senso lato, che “defatigare” sta per “procurare la fatica”; “defaticare” per allontanarla.
Altri vocabolari, comunque, sono incorsi nel medesimo “errore” del Treccani.
defatigare
defatigare (non com. defaticare) v. tr. [dal lat. defatigare, comp. di de- e fatigare «affaticare»] (io defatigo, tu defatighi, ecc.), letter. – Stancare, esaurire le capacità di resistenza di una persona. ◆ Part. pres. defatigante anche come agg., che affatica, che logora le forze. ◆ Part. pass. defatigato, anche come agg., affaticato, spossato.
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“Defaticare” non è una variante poco comune di “defatigare”. Sono due verbi a sé stanti e con significati diversi. “Defatigare”, con la “g”, è pari pari il latino ‘defatigare’ composto con il prefisso “de-” (che non ha valore sottrattivo) e il verbo ‘fatigare’ (affaticare) e significa “stancare”, “logorare”, “affaticare”. “Defaticare”, con la “c”, è composto con il prefisso sottrattivo o di allontanamento “de-” e il sostantivo “fatica” (‘che toglie, che allontana la fatica’). Si adopera soprattutto nel linguaggio sportivo nella forma riflessiva e significa “compiere determinati esercizi per togliere dai muscoli l’eccesso di acido lattico formatosi in seguito a sforzi prolungati”. Si potrebbe dire quindi, in senso lato, che “defatigare” sta per “procurare la fatica”; “defaticare” per allontanarla.
Altri vocabolari, comunque, sono incorsi nel medesimo “errore” del Treccani.
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