La «boiata», vale a dire una “stupidaggine”, una “cosa fatta male”, una “scemenza”, sembra sia l’italianizzazione della voce prettamente settentrionale ‘boiàda’, “cosa scotta”, “bollita”, “spappolata”, dal verbo “boj” (bollire) e una cosa... spappolata è mal riuscita, male eseguita. Nell’accezione di “azione malvagia, brutale”, “infamia” viene proprio da ‘boia’, ‘carnefice’ e questo dal
mercoledì 30 giugno 2010
La berlina e la boiata
La «boiata», vale a dire una “stupidaggine”, una “cosa fatta male”, una “scemenza”, sembra sia l’italianizzazione della voce prettamente settentrionale ‘boiàda’, “cosa scotta”, “bollita”, “spappolata”, dal verbo “boj” (bollire) e una cosa... spappolata è mal riuscita, male eseguita. Nell’accezione di “azione malvagia, brutale”, “infamia” viene proprio da ‘boia’, ‘carnefice’ e questo dal
martedì 29 giugno 2010
Parole a... "piede libero"
Cominciamo dalla nostalgia. Avreste mai immaginato che quel desiderio intenso per qualcosa che si è lasciato temporaneamente o per sempre, la nostalgia, appunto, è un “dolore tutto nostro”? Se analizziamo il termine dal punto di vista etimologico scopriamo che il vocabolo è composto con le voci greche “nòstos” (ritorno) e “algia” (sofferenza, dolore). La nostalgia, letteralmente dunque, è un forte dolore provocato dalla sofferenza (‘algia’) data dal desiderio del ritorno (‘nòstos’) ai propri luoghi o ai propri cari. Quando la parola nacque era adoperata esclusivamente nel linguaggio medico; solo verso la fine dell’Ottocento cominciò a essere impiegata nel parlare di tutti i giorni nel significato attenuato di “rimpianto”: ho nostalgia del mio paese, vale a dire rimpiango il mio paese e soffro dal desiderio di tornarvi.
E a proposito di medicina e di medico (altra parola di “tutti i giorni”), se apriamo un qualsivoglia vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: colui che cura le malattie che non richiedono intervento chirurgico. La nostra sete di sapere, però, non è soddisfatta in quanto il dizionario non ci ha svelato il significato “nascosto” del termine. Insomma, chi è questo medico? È il latino “medicu(m)”, tratto dal verbo “mederi” (riflettere), quindi “curare” (dopo aver riflettuto). Il medico, insomma, “riflette” per poter curare. La persona, invece, che non riflette o, peggio, che non ragiona, nel linguaggio comune viene definita “folle”. Anche questo termine viene dal latino “folle(m)” (cuscino gonfio d’aria). Di qui, in senso figurato, il vocabolo è passato a indicare una “testa piena d’aria”, quindi “vuota” e chi ha la testa vuota non è in grado di connettere, di ragionare è, quindi, un… folle.
Lasciamo i “pazzi” e occupiamoci di due termini militari: caporale e sergente. Per questi ci affidiamo alle sapienti note di Aldo Gabrielli, insigne linguista.
“…Non occorre essere esperti di lingua per sentire subito, cosí ad orecchio, che ‘caporale’ risale alla parola ‘capo’ (…) e può quindi vantare una stretta cuginanza con ‘capitano’. In origine, anzi, il capitano era soggetto al caporale, appellativo generico di chi esercitava un comando (…). Caporali del popolo erano a Firenze quei cittadini che il popolo eleggeva ogni anno a tutela dei propri diritti contro l’aristocrazia; e infatti lo storico del Trecento Giovanni Villani, nella sua ‘Cronaca’ ci parla ‘delli maggiori e piú possenti caporali dell’annata’; e ci fa anche sapere che i caporali comandavano su quarantamila sergenti’. Davvero una gerarchia in evoluzione. Del resto non dimentichiamo che Napoleone si fregiò del titolo di ‘caporale’ di Francia. E non soltanto Napoleone. Il ‘sergente’ invece ebbe (…) un’origine piuttosto oscura. Il nome, infatti, è una semplice variante di ‘servente’, participio presente del verbo ‘servire’, influenzato dall’antico francese ‘sergent’, cioè ‘colui che serve’, un servo”. E finiamo proprio con la... parola affidandoci al vocabolario Gabrielli in rete.
lunedì 28 giugno 2010
C'è ratto e... ratto
sono Jhonny, il blogghista che le ha inviato un commento di apprezzamento al post “Fegato fa rima con...”. Ora Le scrivo per una curiosità. Il termine ratto significa “rapimento” e “topo”, come si spiega questo “dualismo semantico”? La ringrazio e le porgo cordiali saluti.
Jhonny
(località omessa)
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Cortese amico, ratto ha anche un terzo significato, di uso letterario, però: veloce, rapido, svelto. L’origine non è la medesima. Ratto nell’accezione di “rapimento” - ricordiamo il ratto delle Sabine, di Proserpina - è il latino “raptus”, participio passato di “rapere” (rapire). Nel linguaggio giurisprudenziale è un reato contro la libertà sessuale consistente nel sottrarre o nel ritenere, con la violenza, con l’inganno o con la minaccia, una donna, a scopo di libidine o di matrimonio. Nel significato di “topo” è, invece, il germanico “Ratte”, voce attestata in tutta l’area romanza e germanica occidentale. Nell’accezione letteraria di “veloce”, infine, è il latino “rapidus”. Ma da “rapidus” come è venuto fuori “ratto”. Lo spiega Giacomo Devoto: “Con normale sincope della vocale postonica e assimilazione progressiva del grado di articolazione da ‘pd’ a ‘tt’ ”.
http://www.etimo.it/?term=ratto&find=Cerca
domenica 27 giugno 2010
L'alfabeto
“Io ho un libretto nel quale si contengono tute le scienze, e con pochissimi altri se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l’alfabeto; è non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa o quella vocale con quelle consonanti o con quell’altre, ne caverà le risposte verissime a tutt’i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l’accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell’altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci ed insomma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che sulla tavolozza siano né occhi né penne né squame né foglie né sassi”. (“Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”).
sabato 26 giugno 2010
Fegato fa rima con...
questioni di fegato
Gentile prof De Rienzo, gentili forumisti, chiedo la vostra preziosa collaborazione per avere delucidazioni sull'origine della parola fegato. Quando nei lontani tempi del ginnasio mi imbattei nella traduzione latina e greca di questo termine trovai nel primo caso iecur-iecinoris e nel secondo hepar-hepatos, così chiesi al mio professore perché il termine italiano fegato fosse così dissimile sia dalla forma greca che da quella latina. La spiegazione che mi venne fornita fu la seguente: le donne nell'antica Roma solevano preparare una pietanza a base di fegato e fichi -iecur figàtum- che chiamavano brevemente figàtum. Successivamente l'accento si è spostato e il vocabolo è diventato da piano a sdrucciolo: da qui la parola fegato.
Qualcuno di voi mi potrebbe suggerire delle spiegazioni alternative?
A proposito di fegato, è vero che è l'unica parola che in italiano non fa rima con alcunché? Se siete d'accordo proporrei un simbolico "Premio Scioglilingua" a chi riuscisse a trovare un vocabolo italiano che faccia rima con fegato.
Grazie dell'attenzione e... vinca il migliore!
Cordialmente,
(Firma)
Risposta dell’esperto:
De Rienzo Venerdì, 25 Giugno 2010
L'etimologia più probabile è dal latino "ficatum" (attestato nel III secolo) che da principio si riferiva solo al fegato degli animali ingrassato con i fichi.
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Gentile Professore, il Dizionario Etimologico del Pianigiani (http://www.etimo.it/?term=fegato&find=Cerca) dà la sua stessa “origine etimologica” di fegato. Quanto a parole che fanno rima con fegato ce ne sono a iosa. Basta cliccare su questo collegamento: http://www.goldnet.it/~image/index.htm
Sotto il profilo “tecnico” si può parlare, però, di una “rima grammaticale o desinenziale”, cioè di rima con parole che hanno la medesima desinenza come, per esempio, fegato/affogato in cui la desinenza “-gato” si trova in entrambi i termini.
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Albo notanda lapillo (giorno da segnare con una pietra bianca)
I cortesi blogghisti “digiuni” di latino ci perdoneranno se segnaliamo questa locuzione latina che significa “giorno fortunato”, uno di quelli da segnare sul calendario. Quante volte vi sarà capitato di esclamare: che avvenimento, bisogna scriverlo sul calendario! Quest’espressione latina si adopera, quindi, allorché si vuole mettere in risalto un giorno gaio come quello, per esempio, in cui si riceve una visita gradita e inaspettata. Per i Latini il colore nero era simbolo di sventura, mentre il bianco era il simbolo della felicità, tanto è vero che, in un processo, per dare il voto di condanna o di assoluzione si servivano di sassolini neri o bianchi.
venerdì 25 giugno 2010
Il predicato
giovedì 24 giugno 2010
Ridere: transitivo o intransitivo?
far ridere
Salve a tutti. Vorrei girare un quesito che mi è stato posto recentemente e a cui non sono riuscito a dare una risposta esaustiva. La voce verbale "far ridere" dovrebbe essere transitiva: si fa ridere qualcuno, una determinata cosa fa ridere qualcuno...Tuttavia si dice e si scrive (credo non a torto, ma ora mi sorge il dubbio) "a me fa ridere..". In questo caso si utilizza un complemento di termine e non un complemento oggetto. Eppure, se quest' ultima forma è corretta, dovrebbe valere lo stesso per tutte le altre persone del verbo e, per quanto riguarda la terza singolare, si potrebbe dire "gli fa ridere"(lo stesso che"a lui fa ridere"). Tuttavia quest'ultima forma non mi sembra corretta e sarei decisamente propenso a dire che sia accettabile solo l'utilizzo del complemento oggetto (lo fa ridere). Naturalmente è del tutto arbitrario che applichi una regola diversa a seconda della persona...Quindi vi chiedo: dove sbaglio? Qual è la forma corretta?
(Firma)
Risposta del linguista:
De Rienzo Mercoledì, 23 Giugno 2010
Far ridere è verbo transitivo, il che non esclude che possa avere un complemento di termine.
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Cortese Professore,
vediamo la questione con un’ottica diversa, scindendo i due verbi (far ridere). Far ridere si può considerare un’espressione polirematica (il verbo fare non seguito da “ridere” non avrebbe, infatti, alcun senso) e in quanto tale può avere tanto il complemento oggetto quanto il complemento di termine: a me fanno ridere certe espressioni; lo fanno ridere solo certi film. Ridere, essendo fondamentalmente un verbo intransitivo, non può introdurre il complemento oggetto: gli risero in faccia. Adoperato transitivamente, e molto spesso con il significato di “deridere” e simili, si trova solo in campo letterario: la novella di Panfilo fu in parte risa e tutta commendata dalle donne (Boccaccio), fu accolta cioè dalle risa delle donne.
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I verbi performativi
Non tutte le grammatiche trattano un tipo di verbo chiamato “performativo”. Vediamolo.
I verbi performativi esistono solo alla prima persona singolare del presente indicativo e sono così definiti perché il pronunciarli equivale a compiere l'azione che essi descrivono, ovvero per compiere l'azione che essi descrivono bisogna pronunciarli. "Giuro di aver detto la verità", "Prometto di venire al più presto", "Nego ogni cosa" sono tutti esempi di funzione performativa del verbo. È sufficiente cambiare soggetto, "Roberto giura di aver detto la verità", "Tu prometti, ma non mantieni", "Voi negate l'evidenza", o tempo verbale, "Giuravo di aver detto la verità", per verificare come i verbi giurare, promettere e negare perdano la loro funzione performativa e assumano quella costativa o descrittiva, in quanto dire giura, prometti, negate e giuravo, non serve per compiere l'azione, ma per descriverla (notare che dire "io corro" anche nell'atto del correre mi serve per descrivere l'azione, ma non per compierla). Altri verbi che alla prima persona del presente indicativo assumono funzione performativa sono per esempio: dire, ammettere, affermare, ecc. (www.wikipedia.it)
performativo
http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Vocabolario_online/P/VIT_III_P_091330.xml
mercoledì 23 giugno 2010
L'inedia? Mancanza di cibo
martedì 22 giugno 2010
Sequestro e rapimento
Due parole, due, sull’uso corretto di “rapimento” e “sequestro”. Ci affidiamo alle sapienti note del linguista Luciano Satta. Invitiamo, quindi, coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere a seguire i suoi preziosi consigli.
A vocabolari chiusi, noi diciamo che c’è una differenza. E chi la conosce non si meravigli della presente noterella, che noi facciamo perché la differenza viene rispettata solo di rado. Per quel che riguarda l’azione, possiamo usare indifferentemente uno dei due sostantivi, con i corrispondenti verbi: “Il rapimento (il sequestro) è avvenuto per la strada”, “La donna è stata rapita (sequestrata) per la strada”. Ma quando invece dell’azione si parla dello stato, noi distingueremmo, facendo a meno di ‘rapimento’ e usando ‘sequestro’: “Il sequestro è durato un mese”, e non “Il rapimento è durato un mese”. Sennò, altro che moviola. In parole povere, secondo noi ‘rapimento’ indica l’azione e basta, ‘sequestro’ può indicare sia l’azione sia lo stato.
lunedì 21 giugno 2010
Il treno è deragliato o ha deragliato?
Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
daniela scrive:
20 giugno 2010 alle 16:30
vorrei sapere se è corretto utilizzare l’ausiliare “essere” per verbi come deragliare, sbandare, straripare in frasi del tipo: “l’auto è finita nel fosso dopo essere sbandata” “il treno è deragliato a causa di un masso sui binari” “il fiume è straripato a causa del maltempo” e simili. Vorrei porre anche un’altra domanda: la maestra del mio nipotino sostiene che dire “ho rimasto” invece di “mi è rimasto” oggi è accettato come corretto perchè diventato ormai di uso comune e non più solo dialettale. Faccio bene se continuo a correggerlo o devo rassegnarmi? Grazie.
20 giugno 2010 alle 17:04
L’uso degli ausiliari non segue una regola sistematica. Per quanto riguarda i verbi intransitivi si usa “essere” o “avere” tenendo conto di varie considerazioni: se il verbo è o non è di movimento (con altre indicazioni che riguardano il tipo di movimento); se l’azione è effettivamente compiuta, agita dal soggetto oppure se il processo viene subito o sperimentato da questi. Alcuni verbi intransitivi possono formare i tempi composti con entrambi gli ausiliari, talvolta assumendo sfumature di significato diverse: è il caso di “deragliare”, “sbandare” e “straripare”.
Non si rassegni, invece, a correggere “ho rimasto”, perché “rimanere” vuole come ausiliare “essere”.
Simonetta Losi
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Un piccolo emendamento alla risposta della dr.ssa Losi. I verbi “deragliare”, “sbandare” (e “decollare”) prendono tassativamente l’ausiliare “avere”: il treno ha deragliato, l’automobile ha sbandato (l’aereo ha decollato). “Straripare”, invece, può prendere, indifferentemente, tanto ‘avere’ quanto ‘essere’: l’Adige ha straripato o è straripato. Per quanto attiene ai verbi intransitivi che indicano un movimento si adopererà l’ausiliare avere se il “movimento” è fine a sé stesso: ieri ho corso sempre; l’ausiliare essere se si intende mettere in evidenza il “risultato” dell’azione: appena appresa la notizia la figlia è corsa subito in ospedale.
Dimenticavamo: “questi” si adopera solo in funzione di soggetto.
"Accanto a questo e quello esistono due forme esclusivamente pronominali: questi e quegli. Il loro uso è limitato a persone, al maschile singolare, alla funzione di soggetto; oggi hanno sempre valore anaforico".
Giuseppe Pittàno "Dizionario italiano"
"Questi come pronome dimostrativo personale si usa solo al singolare maschile e come soggetto: questi dice di essere suo cugino".
Vincenzo Ceppellini "Dizionario grammaticale"
"Questi, pronome dimostrativo di persona (...). Si usa solo in posizione di soggetto e solo per il maschile singolare".
Maurizio Dardano Pietro Trifone "La lingua italiana" pag. 171
"Questi, quegli si adoperano soltanto al maschile singolare in funzione di soggetto (per i complementi si ricorre a questo e quello)"
domenica 20 giugno 2010
(Sono i) Misteri Eleusini
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* http://it.wikipedia.org/wiki/Misteri_eleusini
http://www.riflessioni.it/dizionario_religioni/misteri-eleusini.htm
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Ieri abbiamo visto che il dialetto meridionale ha influito sulla grafia di “libriccino”. Oggi, collegandoci al sito in calce, vediamo - sia pure parzialmente - quali parole dialettali sono entrate a pieno titolo nella lingua nazionale.
http://www.smpe.it/folklore/dia2ita.asp
sabato 19 giugno 2010
Libriccino? Sí, con due "c"
Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
giuliana scrive:
18 giugno 2010 alle 12:01
Buongiorno.
Libricino o libriccino?
io sono per la seconda.
grazie
giuliana
linguista scrive:
18 giugno 2010 alle 12:24
Usi senz’altro “libriccino”, sebbene l’alternativa sia attualmente piuttosto diffusa, ammessa da alcuni vocabolari, confortata da qualche esempio antico (nella nostra tradizione letteraria, però, prevale di gran lunga “libriccino”).
Massimo Arcangeli
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Sconsigliamo recisamente l’ “alternativa libricino”. Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, recita a chiare lettere: non libricino. Come si giustifica, però, la doppia “c”? Il motivo va ricercato nel fatto che la lingua italiana è, in un certo senso, un miscuglio di dialetti e “libriccino” ha subíto, nella grafia, l’influenza del dialetto meridionale che, al contrario di quello settentrionale, il veneto in particolare, tende al raddoppiamento delle consonanti.
http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=44757&r=19148
Nevicare e mentire
venerdì 18 giugno 2010
Fare la scarpetta
Perché si dice “fare la scarpetta” intendendo pulire con un pezzo di pane quel che resta nel piatto?
Ciò detto, l’origine dell’espressione non è trasparente. C’è chi pensa che, in quest’accezione, scarpetta rimandi a un tipo di pasta alimentare di forma concava, che avrebbe favorito perciò la raccolta del sugo residuo nella scodella o nel piatto. Altri ritengono che, per via del gesto sì famigliare ma ritenuto poco elegante designato dall’espressione, ci si rifaccia figuratamente all’oggetto scarpetta, scarpa leggera e flessibile, per alludere a un’azione da “morto di fame”.
Il GDLI dà il 1987 come data di prima attestazione della locuzione nell’italiano scritto.
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C’è anche un’altra spiegazione che riteniamo “piú aderente” alla realtà.
In Siria, nei tempi andati, il pane aveva la forma di scarpa perché veniva lavorato e battuto con i piedi e infornato subito dopo. Nella cultura culinaria di quel Paese questo tipo di pane veniva usato, molto spesso, per inzupparlo nella minestra di polpa di melanzane con verdure e noci, condita con olio d'oliva e salsa di melograno.
* * *
Le “confessioni” (glottologiche) di tre linguisti e uno scrittore. Si clicchi su http://www.treccani.it/Portale/sito/lingua_italiana/speciali/dizionario/mainSpeciale.html
giovedì 17 giugno 2010
Da cattivo corvo, cattivo uovo
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* si clicchi su http://it.wikipedia.org/wiki/Corace_(retore)
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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
nomi composti
Un'aborto-dipendente riferito ad una donna. Con o senza apostrofo? Io lo metterei in quanto si accorda con il femminile di "donna dipendente". Grazie
(Firma)
Risposta del linguista:
Anche io.
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Gentilissimo Professore,
non ce ne voglia, ma non possiamo assolutamente condividere la sua risposta. Aborto è un sostantivo maschile cominciante con vocale e in quanto tale richiede l’articolo “un”, senza apostrofo (un uomo). Il fatto che si riferisca a una “donna dipendente” non c’entra assolutamente nulla con l’apostrofo. Sarebbe diverso, invece, se aborto fosse un aggettivo. Non riusciamo a capire, poi, che cosa significhi (e, quindi, che senso abbia) “donna dipendente”. Qualche cortese blogghista può illuminarci?
mercoledì 16 giugno 2010
Strafalcioni...
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Tra le parole della nostra amata lingua che andrebbero salvate metteremmo il sostantivo deverbale “dottanza”, vale a dire paura, dubbio, esitazione, timore e simili. Il sostantivo non è schiettamente italiano provenendo dal provenzale “doptar”, che però è il latino “dubitare”.
martedì 15 giugno 2010
L'articolo è sempre obbligatorio?
Gentilissimo dott. Raso,
un amico mi ha segnalato il Suo insostituibile blog per l’uso corretto della lingua italiana, oggi piú che mai “succuba” di quella inglese. La Sua è un’iniziativa veramente encomiabile: dare lezioni gratuite, di questi tempi... Approfitto della “gratuità” per chiederle di spendere due parole sull’uso corretto dell’articolo: quando è obbligatorio usarlo e “come”. Confidando nella Sua proverbiale squisitezza - come dice il mio amico - La ringrazio anticipatamente e Le porgo i miei devoti omaggi.
Lorenzo P.
Lecce
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Cortese Lorenzo, la ringrazio, innanzi tutto, per le sue gentili parole. Quanto alla sua richiesta, il caso vuole che l’argomento sia già stato trattato sul “Cannocchiale”, glie lo ripropongo scusandomi con gli altri blogghisti per la... “ripetizione”
Se apriamo un qualsivoglia libro di grammatica leggiamo, nella parte che tratta dell’articolo, la solita “pappardella” che imparammo – a suo tempo – in terza o quarta elementare: l’articolo è quella parte variabile del discorso che si mette prima del nome per indicarne il genere e il numero in modo determinato o indeterminato. Siamo sicuri di non peccare di presunzione se affermiamo – a questo proposito – che molte persone, anche tra le piú “acculturate”, non conoscono il significato “intrinseco” dell’articolo. Colpa loro? No. Colpa delle grammatiche e della scuola e, per questa, di molti insegnanti che non sentono il dovere di approfondire l’argomento (forse non lo conoscono?). Vediamo di supplire alle carenze scolastiche. Questa “paroletta” (articolo), come viene definita da alcune grammatiche, che si premette al nome “per meglio indicarlo” è il latino “articulus”, diminutivo di “artus” (membro, giuntura) e in origine indicava il “piccolo arto”, la “giuntura” del corpo. In linguistica, per tanto, si adopera questo termine per indicare l’elemento che introduce e “sostiene” il sostantivo, come le giunture del corpo sostengono le membra.
Con il trascorrere del tempo e per estensione l’articolo ha acquisito anche altri significati come “punto”, “suddivisione”, “sezione” (l’articolo di un giornale non è una “sezione” del giornale stesso?). Abbiamo, cosí, i vari “articoli” esposti in un negozio: articoli di abbigliamento, articoli sportivi e via dicendo. L’articolo, sempre per estensione, è anche ciascuna delle suddivisioni di un regolamento, di una legge, di un trattato (l’insieme degli articoli, cioè delle “giunture” costituisce, o se preferite, costituiscono il regolamento, la legge). A proposito di giornali, alcuni sostengono che l’articolo in senso giornalistico sia un calco sull’inglese “articles”. È una tesi, questa, discutibile a nostro modo di vedere...
Ma torniamo, un attimo (non attimino, per carità!), all’articolo grammaticale vedendo per sommi capi il suo uso corretto. La norma generale impone l’articolo davanti a tutti i nomi comuni; si omette, però, e l’omissione è obbligatoria, in numerose locuzioni o espressioni particolari come, per esempio, “aver sonno”, “far paura”, “andare a cavallo”, “camicia da notte”, “sopportare con pazienza” ecc. Dei nomi propri richiedono l’articolo determinativo, solo quello, si badi bene, i nomi dei monti: il Cervino, il Bianco; i nomi dei fiumi: il Po, il Tevere; i nomi di regione, di nazione, di continente: il Lazio, la Grecia, l’Asia. È altresí necessario l’uso dell’articolo davanti ai cognomi: il Bianchi, il Rossi, il Ferrari. Davanti ai cognomi di personaggi illustri e conosciuti l’articolo si può porre o omettere, dipende dal gusto di chi scrive o parla: Manzoni o il Manzoni, Leopardi o il Leopardi.
Rifiutano categoricamente l’articolo i nomi di città, salvo quelli in cui l’articolo – per “consuetudine popolare” – è diventato parte integrante del nome: La Spezia, L’Aquila, La Valletta ecc. È consigliabile, anzi, “obbligatorio” l’articolo davanti ai nomi di città se sono preceduti da un aggettivo o accompagnati con una specificazione: la Roma umbertina, la Firenze medievale, la dotta Bologna. E a proposito dei nomi geografici, dei fiumi in particolare, alcune volte ci troviamo di fronte al dubbio amletico circa il genere di articolo da adoperare: maschile o femminile?
Si dice, generalmente, che i nomi dei fiumi che terminano in “-o”, in “-e” e in
lunedì 14 giugno 2010
Il saluto militare
domenica 13 giugno 2010
L'ambasciatore
(Ambasciatore) Termine che, anche senza pensare alle feluche, evoca (noi diremmo meglio ‘richiama’, ndr) immagini ricche di importanti valenze politiche ed economiche e che sembrerebbe quindi illogico collegare con gente che non sapeva nemmeno scrivere; pure, “ambactus” (questa è la forma latina sotto cui ce lo ha tramandato Cesare) indicava presso i Galli lo schiavo piú vicino al suo signore, che accompagnava in pace e in guerra e seguiva nell’ultimo viaggio, uccidendosi accanto al suo cadavere. Gli elementi fiduciari e di riservatezza tipici dell’incarico hanno fatto sí che il titolo venisse gradualmente applicato ai messi dei sovrani e delle repubbliche, lasciando il nome di “legato” o “nunzio”, entrambi di trasparente origine latina, ai soli inviati della Santa Sede, notoriamente piú tradizionalista.
* * *
Tra le parole della nostra lingua da salvare segnaliamo l’aggettivo “scaramazzo” , di etimologia non chiara. Significa che non è ben tondo, ma presenta protuberanze; sinonimo, quindi, di gibbosità. Si dice soprattutto delle perle non perfettamente tonde. È “immortalato” in molti libri tra cui il vocabolario di Policarpo Petrocchi e quello degli Accademici della Crusca: Vocabolario degli Accademici della Crusca, Volume 5 - Pagina 91
1763
sabato 12 giugno 2010
La "direttora"?
Enzo scrive:
Salve, vorrei sapere se è corretto in italiano dire “la direttora” anziché la direttrice. Io penso di no, ma lo leggo su quotidiani e su alcune testate giornalistiche. Grazie
linguista scrive:
I cosiddetti “nomina agentis” con uscita maschile in -tore, formano di regola il femminile in -trice. L’unica eccezione a questa norma è il termine “dottore” che ha, al femminile, “dottoressa”, e questo perché, pur essendo originariamente un nomen agentis (dottore è, etimologicamente, colui che “docet”, cioè che impartisce insegnamenti), ormai non viene più percepito come tale ma come parola autonoma.Se le è capitato di incontrare qua e là un “direttora”, si deve essere trattato, nella migliore delle ipotesi, di un uso ironico della parola. Almeno così c’è da sperare.
Alessandro Di Candia
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Dottoressa non è l’unica eccezione, vi sono altri sostantivi che pur terminando in -tore” non formano il femminile in “-trice” ma “regolarmente” in “-tora”: pastore>pastora; impostore>impostora; tintore>tintora; fattore>fattora. Quest’ultimo, però, oscilla: tra fattoressa e fattrice. Quanto a “direttora” si trova già in passato attestato nel vocabolario del Tommaseo e Bellini (http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=direttora&searchfor=direttora&searching=true )
ma ben presto relegato nella soffitta della lingua, privilegiando la forma “direttrice”. Ora sembra stia facendo nuovamente il suo ingresso nel nostro lessico, come testimoniano molti libri tra cui quello dei linguisti Giovanni Adamo e Valeria Della Valle: Neologismi quotidiani: un dizionario a cavallo del millennio, 1998-2003 - Pagina 326
venerdì 11 giugno 2010
Come è nata la "toletta"
giovedì 10 giugno 2010
Affèttare e... afféttare
Si clicchi su entrambi i verbi affettare affettare
mercoledì 9 giugno 2010
"Diritto di" o "diritto a"?
Il sostantivo si costruisce preferibilmente cosí: “diritto a” in presenza di un sostantivo se vi è la preposizione articolata (diritto alla retribuzione) o l’articolo indeterminato (diritto a una retribuzione) o l’aggettivo indefinito (diritto a qualche retribuzione); “diritto di” ancora in presenza di un sostantivo, se non vi è articolo (diritto di sciopero) o in presenza di un verbo all’infinito (diritto di scioperare). È superfluo dire che se il verbo dipendente è di modo finito si usa la congiunzione “che”, con il verbo al congiuntivo (il diritto che si sappia la verità).
martedì 8 giugno 2010
Acuto o grave? La monetina non risolve...
lunedì 7 giugno 2010
Stuccare vale anche nauseare
domenica 6 giugno 2010
"L'erbe"? Perché no!
Da "Domande e risposte" del "Treccani" in rete:
Vorrei sapere se scrivere “l’elezioni” è errato oppure è soltanto una forma arcaica, non più usata ma egualmente corretta.
Mentre l’articolo determinativo femminile al singolare può presentarsi, davanti a vocale, anche nella forma piena (la amata, la epoca, ecc.), che, peraltro, la norma preferirebbe evitare a vantaggio della variante elisa (l’amata, l’epoca), al plurale, come scrive Luca Serianni nella sua grammatica Italiano (garzantina), «le è di uso generale. Già cinquant’anni fa [oggi gli anni sono diventati settanta, ndr] Bruno Migliorini osservava che “la forma apostrofata comincia a prendere una sfumatura di sostenutezza, di pretenziosità, o viceversa di pronunzia plebea: l’armi […], l’ali sanno di letterario, l’ernie di troppo popolare».
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Noi non saremmo così perentori. L'articolo determinativo plurale "le" si può benissimo apostrofare (ma non lo consigliamo) davanti a parole che cominciano con "e": l'erbe, l'elezioni, l'edere; è errato apostrofare "le" davanti a parole che cominciano con le altre vocali: *l'ombre; *l'armi; *l'oche; *l'idi; *l'unghie.
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Un consiglio del linguista Luciano Satta sul "simposio" (linguistico, ovviamente)
Ma sì. diciamo e scriviamo pure il "simposio" e i "simposi", anche quando si parla di convegni. L'obiezione: ma usando l'italiano sembra che i convegni abbiano mangiato e bevuto, invece di discutere, ciò che non sembra più usando il latino "symposium". Replica. Primo: non è vero che sembra. Secondo: se sembra, pace. Terzo: se sembra con l'italiano, sembra anche con il latino, dove intravediamo anzi i moderni convegnisti paludati da antichi romani dilaniare arrosti senza usare posate, bere a boccia da pingui anfore e poi fare l'orgetta con le segretarie travestite da schiave. Quarto: vorremmo sapere se proprio tutti sanno che nella versione antica ci vuole la y. Quinto: i fautori di "symposium" si arrangino con il plurale, che potrebbe essere invariabile, "i symposium"; ma allora lo scrivente si becca l'accusa di ignorante perché non ha fatto correttamente il plurale latino "symposia"; lo stesso gli accade se cerca di cavarsela con un plurale alla straniera, "i symposiums".
sabato 5 giugno 2010
Parchimetro? Cronoparco
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FERRAIOLO, ecco un’altra parola da salvare. Il sostantivo in questione non ha nulla in comune con l’operaio che lavora il ferro: è un mantello a ruota con bavero. Perché si chiama ‘ferraiolo’? Ce lo spiega Ottorino Pianigiani cliccando su http://www.etimo.it/?term=ferraiolo&find=Cerca
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Rimanere per endice
Moltissimi blogghisti, senza ombra di dubbio, avranno ‘provato’ personalmente questo modo di dire in alcune circostanze - sia pure senza rendersene conto, in quanto la locuzione è poco conosciuta e, quindi, raramente adoperata - soprattutto in occasione di festicciole tra compagni di lavoro. Non vi è mai capitato, infatti, di “restare a denti asciutti” per non avere avuto il tempo di avvicinarvi al tavolo dei dolci e delle bevande? Quest’espressione si può usare sia in senso proprio sia in senso figurato quando si vuole mettere in rilievo il fatto che una persona, pur avendo uguali diritti, resta, appunto, “a denti asciutti”, “a mani vuote” rispetto ad altre che, al contrario, ricavano vantaggi. Il modo di dire trae il nome dall’ “endice”, cioè dall’uovo di marmo che si lascia nel nido delle galline per indicare loro il punto in cui debbono depositare le uova. Queste vengono prelevate periodicamente dal nido, di conseguenza può capitare che le persone che arrivano ultime trovino solo... l’endice.
endice
venerdì 4 giugno 2010
C'è mezzana e... mezzana
Riprendiamo il viaggio - interrotto tempo fa - attraverso la lingua italiana alla ricerca di parole omofone ma di significato diverso. Facciamo tappa al sostantivo “mezzana” che ha, appunto, tre diversi significati principali: 1) vela quadra a poppa della nave; 2) sorta di mattonella schiacciata per pavimenti; 3) donna che fa da mediatrice in rapporti amorosi. Tutti e tre i sostantivi hanno il medesimo padre: l’aggettivo e sostantivo “mezzano”, che ‘sta in mezzo’. Vediamo, in proposito, il “Treccani” in linea:
meżżana s. f. [femm. dell’agg. e sost. mezzano]. – 1. Nel linguaggio marin.: a. L’albero poppiero di un veliero a tre alberi a vele quadre (attrezzatura «a nave»), oppure l’albero posto all’estrema poppa di un veliero a due alberi, a vele di taglio. b. Il pennone più basso dell’albero di mezzana, che, se a vele quadre, non porta vela e serve per tener distesa la vela superiore (contro-mezzana), venendo perciò chiamato anche verga secca. c. La vela di taglio dell’albero di mezzana, se questo ne porta una sola. 2. Formato di carta da stampa avente le dimensioni di cm 44 × 60. 3. Tipo di seta cucirina in cui il torto consta di due filati con ritorsione da sinistra a destra. 4. ant. a. Mattone di media grandezza usato per pavimentazione di stanze. b. La corda centrale di alcuni strumenti musicali come il liuto e sim. 5. Riferito a persona: a. Donna che fa da tramite per rapporti o incontri amorosi, spec. se illeciti o mercenarî (sinon. quindi, per lo più, di ruffiana). b. In Lombardia, nome (anche mezzanina) con cui si designano le ragazze che, nei laboratorî di sartoria, sono addette ai lavori ausiliarî e meno impegnativi. Nelle filande di seta, operaia (detta anche mezzante) adibita di volta in volta a diversi lavori (scopinatura o filatura). ◆ Dim. meżżanina (in partic. col sign. 5 b) e, con accezioni specifiche, meżżanèlla (v.).
Vediamo anche Ottorino Pianigiani cliccando su http://www.etimo.it/?term=mezzano e su http://www.etimo.it/?cmd=id&id=10902&md=ba194b90a6f4a835c7722ca8a762473d
giovedì 3 giugno 2010
Drastici provvedimenti...
Chissà quante volte, cortesi blogghisti, avete sentito frasi tipo “sono stati presi drastici provvedimenti per limitare i danni...”. Bene, anzi male, malissimo: quell’aggettivo “drastici” - a nostro modo di vedere - è adoperato impropriamente nel significato di “severi”, “notevoli”, “risoluti” e simili. Perché il suo impiego fosse adoperato sempre a proposito sarebbe necessario che tutti ne conoscessero il suo... impiego originario. Vediamo, intanto, la sua origine. Viene dal greco “drastikòs”, tratto da “dràô”, “agire” (http://www.etimo.it/?term=drastico&find=Cerca). Drastico significa, quindi, “che agisce con efficacia”. Per il suo significato fu adoperato, in origine, in campo medico: è un drastico medicinale, volendo evidenziare, per l’appunto, la sollecita efficacia. In seguito se ne fece un uso metaforico non condiviso dal linguista Alfredo Panzini quando sosteneva che i “drastici” provvedimenti presi gli sembravano un po’ troppo metaforici. Se drastico significa, infatti, “che agisce con efficacia” non si può sostenere che i provvedimenti sono drastici fino a quando non se ne sono visti gli effetti. Ma questo significa voler cercare, a tutti i costi, il classico pelo nell’uovo; anche se facciamo nostra la tesi del Panzini. L’uso improprio, per non dire abuso o addirittura errore, nasce - come dicevamo all’inizio - quando al predetto aggettivo si vuol dare il significato di “notevole”: c’è stato un drastico aumento delle bollette telefoniche. Oppure quando si adopera drastico come sinonimo di “severo”. Basterebbe - prima di scrivere - riflettere un attimo sul significato delle parole da adoperare (ricorrendo, magari, all’ausilio di un buon vocabolario) per non incappare in inesattezze o, peggio, in errori che alcune volte rasentano il ridicolo: la situazione meteorologica è drastica, ancora mal tempo su tutta la penisola. Abbiamo esagerato? Decidete voi, amici amanti del bel parlare e del bello scrivere.
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Ancora una parola da salvare, esattamente un verbo: BORDARE, vale a dire picchiare ferocemente, bastonare. È un verbo cosiddetto denominale provenendo dal sostantivo "bordone", che era il bastone che usavano i pellegrini, per appoggiarsi, durante il viaggio.
mercoledì 2 giugno 2010
L'edicola
sono un assiduo frequentatore del suo blog, che trovo insuperabile. Le scrivo per una piccola curiosità: l’edicola indica una “costruzione sacra” ma si adopera anche per designare un chiosco per la rivendita di giornali. Come si spiega questo passaggio semantico?
Grazie e cordiali saluti
Osvaldo P.
Ancona
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Cortese Osvaldo, le faccio “rispondere” da due insigni linguisti, Aldo Gabrielli e Ottorino Pianigiani. Clicchi su edicola e su http://www.etimo.it/?term=edicola
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Piantare il bordone in un luogo
Ecco un modo di dire, forse poco conosciuto e, quindi, poco adoperato, che si usa riferito a una persona che, non “invitata”, si stabilisce per un certo tempo in una casa per mangiare e dormire, ignorando la discrezione. La locuzione fa riferimento al bordone, cioè al lungo bastone che adoperavano i pellegrini durante i loro viaggi. Con molta probabilità, dunque, il pellegrino dei tempi andati, che posava il bordone sotto un tetto ospitale, aveva le medesime caratteristiche che ancora oggi ha l’ospite inatteso...