lunedì 30 novembre 2015

Piantar la vigna e non berne il vino

Questa locuzione, assai antica, si adopera (o adoperava?) per deridere le persone che si danno "arie da sapientoni", ma alla resa dei conti...  È simile, per certi aspetti, a quella piú nota "fare i conti senza l'oste". L'espressione è tratta da una novella che si perde nella notte dei tempi.  Un contadino decise di piantare una vigna, ma un indovino gli predisse che non avrebbe mai bevuto di quel vino. Il villano non se ne curò e si mise a piantar le viti. Arrivò il tempo della vendemmia e il contadino cominciò - come è naturale - a fare il vino. Quando fu pronto si fece porgere un bicchiere per assaggiarlo, sorridendo al ricordo della "profezia". Ma fece i conti senza l'oste. Un grosso porco si introdusse nella vigna e cominciò a calpestarla, costringendo il contadino a posare il bicchiere colmo di vino per correre a difendere il suo "tesoro". Il villano, cosí, non bevve il vino della sua vigna, come aveva  "sentenziato" l'indovino.

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Una donna è "assessore" o "assessora"?

Assessora, non v'è dubbio alcuno. Si clicchi qui. È lo stesso caso di una donna eletta "sindaco".

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La parola proposta da questo portale: allenzare. Verbo della prima coniugazione, vale "fasciare", "bendare" e simili.

domenica 29 novembre 2015

Andare a spianto

Cortese dott. Raso,
 il suo blog è veramente una fonte inesauribile di curiosità linguistiche oltre che di "lezioni" di lingua italiana. L'ho scoperto per caso e l'ho navigato in lungo e in largo apprendendo cose che, come spesso lei usa dire, non tutti i sacri testi grammaticali riportano come, per esempio, il plurale di "ambo".  Le scrivo per conoscere l'origine di un modo di dire perché nessun testo consultato ha saputo "rispondermi". L'espressione è "andare (o mandare) a spianto" che, come si sa, significa versare in cattive condizioni economiche.  Cos'è questo "spianto", dunque? Grazie infinite se avrà la cortesia di rispondermi e ancora complimenti per il suo impegno nel divulgare il buon uso della lingua italiana.
 Giuseppe B.
  Ravenna

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Gentile Giuseppe, per quale motivo non dovrei risponderle (soprattutto dopo i complimenti che ho ricevuto. Scherzo, naturalmente)? La locuzione, dunque, come lei ha anticipato, si riferisce a una persona che cade in miseria. È tratta dal verbo "spiantare",  che significa "sradicare, estirpare un albero" dal terreno e un albero "spiantato", ovviamente, non può dare piú frutti. In senso figurato, quindi, la persona che è andata a spianto è stata "sradicata" dalla agiatezza, non può piú godere, quindi, di "frutti economici".

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La parola del giorno (di ieri) dello Zingarelli, "stufare", ci ha richiamato alla mente un nostro vecchio intervento che riproponiamo.

venerdì 27 novembre 2015

Amputare e imputare

«L'uomo è amputato di due rapine e di sequestro di persona».  Incredibile, ma   proprio cosí scriveva  un giornalino locale, che non menzioniamo per carità di patria. Il giornalista estensore dell'articolo ritiene, probabilmente, che "amputare"  sia una variante di "imputare" in quanto cambia soltanto la vocale iniziale. Non è cosí, naturalmente; i due verbi, entrambi della prima coniugazione, hanno significati diversi:  il primo (amputare) vale, come si può leggere in  un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, "tagliare, asportare mediante operazione chirurgica" (amputare un piede); il secondo (imputare) sta per "accusare, incolpare, incriminare" (l'uomo è imputato di appropriazione indebita). I suddetti verbi, però, hanno la medesima radice latina "putare" e qui, probabilmente, la confusione tra i due. Vediamo, per tanto, la differenza affidandoci a Ottorino Pianigiani. Si clicchi su amputare e imputare.

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La parola (di ieri) proposta da "unaparolaalgiorno.it": supercazzola.
Ci corre l'obbligo di correggere questa frase: «... il numero di comici che ha ricorso a...». In questo caso il verbo "ricorrere" è adoperato intransitivamente e si coniuga con l'ausiliare "essere" (il numero di comici che è ricorso).
(I curatori del sito in oggetto hanno provveduto ad apportare la correzione).

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Un'altra perla del vocabolario Gabrielli "ritoccato" (in Rete):

ossequente
[os-se-quèn-te]
non corretto ossequiente
agg. (pl. -ti)
Che porta ossequio; ubbidiente, rispettoso: giovani ossequienti ai loro maestri; essere o. alle leggi
I "ritoccatori" specificano, correttamente, che la forma con la "i" (ossequiente) è errata, ma l'esempio...

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La parola del giorno dello Zingarelli: discordare.

giovedì 26 novembre 2015

Ti conosco, mascherina!

Ciò che avete appena letto non è un modo di dire ma un'esclamazione adoperata - per lo più in senso scherzoso - per far intendere all'interlocutore di avere capito le sue vere intenzioni nonostante le simulazioni e le finzioni "adottate": ti conosco, mascherina! ho capito ciò che vuoi; non sei riuscito a celare le tue vere intenzioni. L'espressione - ancora in uso e adoperata in senso figurato - è stata "trasportata" nel linguaggio di tutti i giorni dal gergo delle feste mascherate di un tempo. La locuzione era, infatti, frequentissima e si usava per dire a qualcuno che era stato riconosciuto nonostante la maschera gli coprisse il volto. E a proposito di maschera, ci sembra non abbisognevole di spiegazioni l'espressione "sembrare una maschera", riferita a una persona dal volto eccessivamente truccato e con colori particolarmente vistosi. La medesima locuzione si usa nei confronti di qualcuno vestito in modo rutilante, con tinte contrastanti e... squillanti: Alfonso, come ti sei conciato, sembri una maschera!

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Sbandare: quale ausiliare?

Tutti i vocabolari che abbiamo consultato (cartacei e in Rete) sono concordi nel segnalare il verbo "avere" quale ausiliare del verbo "sbandare": l'automobile ha sbandato ed è finita contro un muro. E hanno perfettamente ragione perché "sbandare", come tutti i verbi intransitivi che indicano un moto fine a sé stesso, nei tempi composti prende l'ausiliare avere. Solo il Treccani ammette anche l'ausiliare "essere". Una rapida ricerca con Googlelibri  (l'auto ha/è sbandato/a) ha dato 32 occorrenze con l'ausiliare avere e 8 con l'ausiliare essere.


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Linguisti e giornalisti

 Abbiamo l’impressione che nell’immaginario collettivo (anche se non si deve mai generalizzare) si faccia una gran confusione tra giornalisti, scrittori e... linguisti. Si accredita la tesi secondo la quale un giornalista cosí detto di grido, un giornalista dal nome prestigioso, sia anche un ottimo linguista. Questa tesi, a nostro modo di vedere, è falsa e, quindi, da respingere recisamente. Un ottimo giornalista è colui che sa  “scegliere” le notizie e, una volta  “assimilate”, le commenta per il grande pubblico con parole semplici, come farebbe un insegnante di fronte ai suoi allievi. Il giornalista – in un certo senso – è l’educatore della pubblica opinione. I giornalisti dal nome prestigioso (ma chi stabilisce il  “prestigio”?) che non rispettano le norme grammaticali per puro snobismo non possono essere definiti linguisti nel senso letterale del termine, e sono colpevoli di  “lesa lingua” quanto, se non di piú, i giornalisti che non applicano le regole perché non le conoscono. Il giornalista-linguista si preoccupa, nello scrivere, di non incorrere in  “inesattezze” che potrebbero turbare l’ “equilibrio linguistico-grammaticale” dei lettori, soprattutto dei lettori-studenti, mettendo cosí in discussione quanto alcuni docenti (quelli con la “D” maiuscola, se ce ne sono ancora, visto lo sfacelo in cui versa la scuola italiana) si sforzano d’insegnare ai loro discenti, a dispetto dei giornalisti che “fanno la lingua”.



mercoledì 25 novembre 2015

Che bella caterinetta



La parola del giorno dello Zingarelli: caterinetta.
E quella proposta da questo portale: cempennare.

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Filadelfino e Filadelfiese - si presti attenzione perché, spesso, i due termini si confondono. Il primo indica l'abitante di Filadelfia, un comune in provincia di Vibo Valentia, il secondo l'abitante della città statunitense.

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Per celia abbiamo cercato, con Googlelibri, "beneficienza", la sorpresa è stata... sorprendente. Guardate qui. Forse è il caso di chiarire, a scanso di equivoci, che si scrive senza la "i" (beneficenza).

martedì 24 novembre 2015

Le "perle" del nuovo vocabolario Gabrielli (in rete)

Povero professor Aldo Gabrielli, si starà rivoltando nella tomba alla vista del suo vocabolario ritoccato e rovinato dai suoi "revisionisti". Ecco, infatti, ancora una "perla" dei ritoccatori a proposito dell'uso corretto del verbo "appropriare".  Scrive l'insigne linguista nel suo "Dizionario Linguistico Moderno" (pag. 53): «Appropriare è verbo transitivo e regge quindi il complemento oggetto senza l'inserzione di alcuna particella: "appropriare lo stile al soggetto". Quando è usato con la particella pronominale ("appropriarsi") ha il significato di "appropriare a sé" una cosa, "render proprio l'altrui", e respinge ovviamente la particella "di"; si dirà quindi correttamente "appropriarsi una somma di denaro", e non "appropriarsi di una somma di denaro"».  Come potrete vedere,  cliccando qui, i "ritoccatori" del vocabolario lo hanno contraddetto. Il "nuovo" vocabolario Gabrielli, insomma, è pieno di "perle". Un'altra ancora? L'invariabilità del sostantivo "dopopranzo". Il Maestro, nel suo "Dizionario" (pag. 425), scrive, invece, che il predetto sostantivo si pluralizza normalmente: il dopopranzo, i dopopranzi. Perché? I sostantivi composti di una preposizione e di un nome maschile singolare prendono la normale desinenza del plurale. I revisori del vocabolario Gabrielli, comunque, stiano tranquilli, non si cruccino: hanno l'avallo di altri "autorevoli" dizionari...
E a proposito di vocabolari, il Treccani dà il sostantivo dopolavoro invariato nel plurale e dopopranzo, invece, variabile. Eppure i due sostantivi hanno la medesima "composizione". Misteri eleusini!

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La parola che proponiamo è: trutilare. Verbo sinonimo di "zirlare". Qui la coniugazione completa del verbo non molto conosciuto.

lunedì 23 novembre 2015

Il petriolo

La parola proposta da questo portale è:  petriolo. Grosso imbuto di legno per versare il vino nella botte.

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Un po' d'ortografia

Zigrinato – non zirighinato.

Zig zag – anche in grafia unita, zigzag. In due parole, senza trattino.

Zigzagare – anche zizzagare.

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Stupisce, e non poco, il constatare che il vocabolario Treccani (che per la sua autorevolezza viene subito dopo la Crusca) scriva che "appropriarsi" seguito dal complemento oggetto sia "meno comune". Al contrario, è l'unica forma corretta.

 

domenica 22 novembre 2015

Sua maestà la congiunzione Che

Riproponiamo un nostro vecchio intervento sul "che", congiunzione dai molteplici  usi che non tutti, forse, conoscono e per questo motivo viene spesso bistrattata anche da coloro che si piccano di "fare la lingua". 









Tutti i grammatici sono concordi una volta tanto nel definire la congiunzione che” regina delle congiunzioni subordinanti; la ritroviamo, infatti, a introdurre quasi sempre ogni specie di proposizione subordinata. Il titolo di regina le spetta, dunque, per diritto linguistico. Oltre a essere una congiunzione dichiarativa che è la sua principale funzione la reginaè anche congiunzione causale: si arrabbiò moltissimo che’ io fossi mancato allappuntamento; e finale: stava sempre attento che’ i figli si comportassero bene; e consecutiva: il freddo è tale che’ non si resiste; e comparativa: è più intelligente che’ non sembri; e temporale: lo incontrai che’ era inverno inoltrato. Altre volte si può trovare davanti ad altre specie di proposizioni subordinate in compagnia di altre parole; talvolta anche fusa con queste ultime, tanto che’ è appena riconoscibile: allorché (allor che), fuorché (fuor che), sennonché (se non che), poiché (poi che), ancorché (ancor che) e via dicendo. A questo proposito non siamo affatto daccordo con alcuni scrittori moderni che scopiazzano” i loro colleghi francesi che riducono al minimo luso delle congiunzioni: preferiscono uno stile letterario che lasci indipendenti il più possibile le proposizioni luna dallaltra; non amano, insomma, la subordinazione. La moderna lingua dOltralpe preferisce dire, per esempio, “pioveva moltissimo. Da tempo non si vedeva una pioggia così abbondante” in luogo di “vien giù una pioggia quale’ non si vedeva da tempo. Anche in casa nostra come dicevamo cè la tendenza a sopprimere più che si può le congiunzioni, a imitazione dei Francesi, secondo la famosissima “leggeche stabilisce lerba del vicino essere più verde. Certo, non si può negare il fatto – evidentissimo che le congiunzioni appesantiscono il periodo; i periodi con pochissime congiunzioni risultano indubbiamente molto più snelli. Ma è altrettanto certo il fatto che è proprio del genio della nostra lingua idioma gentil sonante e puro, per dirla con lAlfieri – concatenare in modo logico le varie proposizioni del periodo e metterne bene in evidenza i rapporti finali, temporali, causali e gli altri che esistono tra questi. E questo compito è proprio delle congiunzioni. Per questo motivo condanniamo senza appello i moderni scrittori che privilegiano lo stile gallico” al posto di quello “italico. Il nostro stile è il vero erede di quello latino, quantaltro mai complesso, organico, compatto, concatenato. Ma non basta. A infilzare una lunga teoria di proposizioni indipendenti e necessariamente brevi a imitazione dei moderni scrittori francesi si finisce con il ridurre il discorso e, quindi, il nostro scritto a una cadenza sincopata, asmatica, singhiozzata, che a lungo non può che generare pena e monotonia. Quando ci capita di leggere una paginetta di quelle “minifrasi, ciascuna delle quali va per proprio conto, ci sembra di sentire un discorso dinoccolato, disarticolato, senza scheletro. Il discorso, insomma, di un selvaggio. Per concludere queste noterelle riteniamo, dunque, che sia opportuno rimanere fedeli alla nostra lunga tradizione linguistica – consacrata da moltissimi “mostri letterati perché quando si sa maneggiare bene la penna e si fa un uso accorto delle congiunzioni i nostri scritti avranno un belleffetto e un maggior vigore despressione. Attenzione pe, ripetiamo, al loro uso corretto. Nella lingua parlata, per esempio, non si fa alcuna distinzione tra ovvero” e oppure” e si adopera luna o laltra congiunzione con valor disgiuntivo. Ciò è un grossolano errore: solo oppure” è una congiunzione disgiuntiva con il significato di o”; mentre ovvero” è congiunzione di equivalenza (o esplicativa) e sta per cioè, ossia. Perché alcuni vocabolari non specificano la differenza
che intercorre tra le due congiunzioni? O, peggio, le attestano come sinonimi?
 
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Avevamo segnalato ai responsabili lessicografi del vocabolario Treccani che il verbo "defaticare" non è una variante di "defatigare" ma un verbo a sé stante e con un significato opposto. L'errore non è stato emendato. Torniamo "alla carica", sperando che... Ecco ciò che scrivemmo.


Leggiamo dal vocabolario “Treccani” in rete:
defatigare
defatigare (non com. defaticare) v. tr. [dal lat. defatigare, comp. di de- e fatigare «affaticare»] (io defatigo, tu defatighi, ecc.), letter. – Stancare, esaurire le capacità di resistenza di una persona.
Part. pres. defatigante anche come agg., che affatica, che logora le forze. Part. pass. defatigato, anche come agg., affaticato, spossato.
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“Defaticare” non è una variante poco comune di “defatigare”. Sono due verbi a sé stanti e con significati diversi. “Defatigare”, con la “g”, è pari pari il latino ‘defatigare’ composto con il prefisso “de-” (che non ha valore sottrattivo) e il verbo ‘fatigare’ (affaticare) e significa “stancare”, “logorare”, “affaticare”. “Defaticare”, con la “c”, è composto con il prefisso sottrattivo o di allontanamento “de-” e il sostantivo “fatica” (‘che toglie, che allontana la fatica’). Si adopera soprattutto nel linguaggio sportivo nella forma riflessiva e significa “compiere determinati esercizi per togliere dai muscoli l’eccesso di acido lattico formatosi in seguito a sforzi prolungati”. Si potrebbe dire quindi, in senso lato, che “defatigare” sta per “procurare la fatica”; “defaticare” per allontanarla.
Altri vocabolari, comunque, sono incorsi nel medesimo “errore” del Treccani.