L'argomento di oggi è stato trattato molto tempo fa, lo riproponiamo - per sommi capi - perché ci è stato richiesto da numerosi blogghisti.
Ci sembra particolarmente interessante spendere due parole su un uso o, meglio, su un costume linguistico e letterario: lo pseudonimo. Il termine, in senso proprio, significherebbe "che porta un nome falso" derivando, il vocabolo, dal greco "pseudo" (falso) e "ònyma", variante dialettale di "ònoma" (nome). La falsità, tuttavia, è in senso benevolo: non si può includere sotto questa parola, per esempio, il nome falso che un incallito delinquente fornisce alla polizia per sviare le indagini. Gli pseudonimi sono affini ai soprannomi in quanto sia gli uni sia gli altri sono dei modi di chiamare le persone non rispettando il nome e il cognome autentici. C'è, tuttavia, fra i due modi una differenza fondamentale: il soprannome è imposto da altri, lo pseudonimo è scelto dalla persona interessata. L'uso dello pseudonimo era assai diffuso, nei secoli passati, all'atto dell'arrolamento, con il cosí detto nome di battaglia, soprattutto nella vicina Francia, tra il Seicento e il Settecento. Da noi, quando Garibaldi si arrolò nella marina sarda si impose il nome di battaglia, di vago "sapore classico", di Cleòmbroto. Dopo un periodo di silenzio i nomi di battaglia ricomparvero nella guerra italo-austriaca (gli irredenti correvano il rischio di essere condannati come disertori se scoperti, con il vero nome, a militare nelle forze armate italiane) e, piú recentemente, nelle file della Resistenza. L'usanza dello pseudonimo è dilagata, però, in letteratura per opera di personaggi "di rilievo" che desideravano conservare l'anonimato come, per esempio, il re Giovanni di Sassonia che tradusse la 'Divina Commedia' con il falso nome di Filalete o la regina Elisabetta di Romania, che firmava i propri scritti letterari con lo pseudonimo di Carmen Sylva. Non si sottrassero all'usanza degli pseudonimi alcuni scrittori che ritenevano il nome vero non bello e "sonoro" come l'avrebbero desiderato. Altre volte, invece, il cambiamento di nome non è dovuto alla sua "sonorità" ma al ritegno degli interessati a "sbandierarlo": si tratta, molto spesso, di giovani che si cimentano in campo letterario per la pima volta e attendono, prima di "esibirsi" con il vero nome, il verdetto dei critici; talvolta di donne che preferiscono pubblicare i propri scritti con il nome di un uomo. Tipico, a questo riguardo, l'esempio di George Sand. Restando in campo letterario meritano particolare attenzione i nomi accademici: nell'Accademia degli Umidi gli pseudonimi si riferivano tutti all'acqua o ai pesci; nell'Accademia della Crusca i nomi alludevano, invece, al pane o alla farina: l'Intriso, l'Insaccato, l'Infarinato. L'Arcadia "vive" nel mondo pastorale greco e adotta nomi conformi a quella finzione: Cario, Alfesibeo, Corilla Olimpica. Ma anche il teatro, per concludere queste modeste noterelle, non si sottrae all'usanza del mondo letterario e per gli stessi motivi sopra accennati.
Ci sembra particolarmente interessante spendere due parole su un uso o, meglio, su un costume linguistico e letterario: lo pseudonimo. Il termine, in senso proprio, significherebbe "che porta un nome falso" derivando, il vocabolo, dal greco "pseudo" (falso) e "ònyma", variante dialettale di "ònoma" (nome). La falsità, tuttavia, è in senso benevolo: non si può includere sotto questa parola, per esempio, il nome falso che un incallito delinquente fornisce alla polizia per sviare le indagini. Gli pseudonimi sono affini ai soprannomi in quanto sia gli uni sia gli altri sono dei modi di chiamare le persone non rispettando il nome e il cognome autentici. C'è, tuttavia, fra i due modi una differenza fondamentale: il soprannome è imposto da altri, lo pseudonimo è scelto dalla persona interessata. L'uso dello pseudonimo era assai diffuso, nei secoli passati, all'atto dell'arrolamento, con il cosí detto nome di battaglia, soprattutto nella vicina Francia, tra il Seicento e il Settecento. Da noi, quando Garibaldi si arrolò nella marina sarda si impose il nome di battaglia, di vago "sapore classico", di Cleòmbroto. Dopo un periodo di silenzio i nomi di battaglia ricomparvero nella guerra italo-austriaca (gli irredenti correvano il rischio di essere condannati come disertori se scoperti, con il vero nome, a militare nelle forze armate italiane) e, piú recentemente, nelle file della Resistenza. L'usanza dello pseudonimo è dilagata, però, in letteratura per opera di personaggi "di rilievo" che desideravano conservare l'anonimato come, per esempio, il re Giovanni di Sassonia che tradusse la 'Divina Commedia' con il falso nome di Filalete o la regina Elisabetta di Romania, che firmava i propri scritti letterari con lo pseudonimo di Carmen Sylva. Non si sottrassero all'usanza degli pseudonimi alcuni scrittori che ritenevano il nome vero non bello e "sonoro" come l'avrebbero desiderato. Altre volte, invece, il cambiamento di nome non è dovuto alla sua "sonorità" ma al ritegno degli interessati a "sbandierarlo": si tratta, molto spesso, di giovani che si cimentano in campo letterario per la pima volta e attendono, prima di "esibirsi" con il vero nome, il verdetto dei critici; talvolta di donne che preferiscono pubblicare i propri scritti con il nome di un uomo. Tipico, a questo riguardo, l'esempio di George Sand. Restando in campo letterario meritano particolare attenzione i nomi accademici: nell'Accademia degli Umidi gli pseudonimi si riferivano tutti all'acqua o ai pesci; nell'Accademia della Crusca i nomi alludevano, invece, al pane o alla farina: l'Intriso, l'Insaccato, l'Infarinato. L'Arcadia "vive" nel mondo pastorale greco e adotta nomi conformi a quella finzione: Cario, Alfesibeo, Corilla Olimpica. Ma anche il teatro, per concludere queste modeste noterelle, non si sottrae all'usanza del mondo letterario e per gli stessi motivi sopra accennati.
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