lunedì 13 gennaio 2020

Ancora sul "piuttosto che..."


Dal dott. Claudio Antonelli riceviamo e volentieri pubblichiamo

I linguisti Valeria  Della Valle e Giuseppe Patota, con il manualetto "Piuttosto che, le cose da non dire, gli errori da non fare" (Sperling & Kupfer, 163 pagine), intendono istruire il lettore circa "le cose da non dire e gli errori da non fare", e mettono alla gogna finanche nel titolo l'errore supremo: il "piuttosto che" usato in senso balordo. Oso dire un po' brutalmente, ma molto onestamente, che questa operetta denunciante "gli errori da non fare" è forse anche un esempio di libro "da non scrivere". O da non scrivere nel modo in cui gli autori l'hanno fatto. La prova ci è data da un libretto che dissoda lo stesso terreno, ossia gli errori correnti in italiano, ma attraverso il quale l'autore, Sabrina Carollo, ottiene risultati infinitamente superiori: "Parlare e scrivere senza errori" (editore: Giunti Demetra). 

Questa mia recensione giunge in ritardo - il libro è stato pubblicato nel 2013 - ma anche se la mia vocetta fosse stata tempestiva, essa non avrebbe alterato il coro di lodi che gli addetti ai lavori e gli amici degli amici riversarono a suo tempo su questo lessico degli errori.  Lessico che non contiene certamente gli errori più comuni, perché in esso le lacune sono tante. 

Noi sappiamo che nella normale lingua italiana, "piuttosto che" significa, o dovrebbe significare, "anziché". Ma, ci avvertono i dizionari (vedi lo Zingarelli): esiste un uso colloquiale sballato di "piuttosto che" che gli fa prendere il posto di "o", "oppure",  "o anche"... 

Il "piuttosto che" dell'errore, anzi dell'orrore, è visto dagli autori come una sorta di metastasi minacciante la lingua italiana, ed è pertanto fatto bersaglio di mille anatemi: "tossina grammaticale", "immonda accezione disgiuntiva", "sciatteria linguistica", "infelice novità lessicale", "sgrammaticatura"...

Nell'illustrare i termini erronei, che paginetta dopo paginetta gli autori ci propongono per ordine alfabetico, è dato un esempio concreto dell'errore, e anche spesso dell'autore di questo, con un invito al lettore di non seguire un tal cattivo esempio. L'invito prende la forma di "Non fate come...".  E dopo i punti di sospensione appare il nome dell'autore della frase contenente l'errore. 

L'enfasi sembra addirittura posta più che sul peccato sul peccatore. Detto altrimenti: traspare da questo libretto il desiderio di mettere alla berlina l'autore dell'errore d'italiano denunciato. E Berlusconi e la sua compagine sono i destinatari preferiti delle frecciate linguistico-(politiche) contenute nel libretto.

Nel capitolo introduttivo dal titolo solenne: "Splendori e miserie del 'piuttosto che'", ci si aspetterebbe che gli autori dessero spiegazioni chiare circa il significato degenere di "piuttosto che". Anzi, la prima cosa da fare, per gli autori, sarebbe stata di darci il significato corretto di "piuttosto che" (che nel suo uso normale significa: "anziché", "invece di…"); e ragguagliarci quindi sull'uso scorretto che invece taluni ne fanno.  Ma niente di tutto ciò: gli autori ci forniscono, in più di sei pagine, in apertura di libro una farragine di elementi informativi sulla storia, il tralignamento, gli adepti, i persecutori del "piuttosto che"; e non si capisce bene quando gli autori parlano del "piuttosto che" legittimo e quando invece si riferiscono a quello illegittimo. Torno a ripetere: il tutto è presentato in una maniera così confusa da lasciare perplessi. 
La scarsa chiarezza dell'introduzione si trasforma in vera oscurità quando gli autori, con l'intenzione di darci un esempio di "Piuttosto che" ("più tosto") nobile e antico, citano contemporaneamente Brunetto Latini e Dante. Ma non si capisce se il passo letterario trascritto appartenga a Dante o invece al Latini, dato l'uso ambiguo che è fatto dei due punti introducenti il brano storico che vanta uno dei primi "piuttosto che" della nostra letteratura. 
Parlo qui, senza presunzione, ma da bibliotecario che conosce e rispetta le regole delle citazioni se non altro come esse vengono fatte in Canada e negli USA.
 Il chiarimento del tipo di errore che noi facciamo, quando usiamo la locuzione incriminata, è liquidato, nel farraginoso capitolo consacrato a "piuttosto che", con la seguente spiegazione laconica: l'uso errato di questa espressione avviene quando ce ne serviamo "in funzione disgiuntiva",  ossia come un "o disgiuntivo". Quanto al significato di "disgiuntivo", al lettore non rimarrà altro che consultare la grammatica o il vocabolario di casa. 
Perché non aver aggiunto "o anche", "oppure" a questa striminzita vocale "o", disgiuntiva o non disgiuntiva che sia, che spiega ben poco?
La condanna senza appello dell'uso erroneo di "piuttosto che" è motivata non solo dal fatto che l'uso erroneo perverte il significato di ciò che si vuol dire (ma solo una volta troviamo l'avvertimento "crea ambiguità nella comunicazione") ma anche dal carattere snob della cerchia presso la quale - secondo gli autori - questa "infelice novità lessicale" è nata e si è diffusa. "È utile e istruttivo (e, lo confessiamo, anche divertente) fare le bucce a chi di comunicazione vive e vegeta" leggiamo nel volumetto. Programma chiaro che sottoscrivo, come se fosse il mio, in questa mia modesta recensione.
Io non sono un difensore del condannabile errore, che gli autori presentano come diffusissimo: "il piuttosto che" usato al posto di "o", "oppure", "o anche", ma che io ho incontrato rare volte, tanto da averci messo un bel po' - come dicevo -  prima di capire nelle confuse prime pagine del libretto l'uso erroneo fattone dai personaggi che gli autori mettono alla gogna. Insomma ho stentato un po' a capire qual è l'uso inappropriato del famigerato "piuttosto che…" che loro denunciano con veemenza e disdegno. E come me altri lettori saranno rimasti disorientati circa la scarsa chiarezza del testo.
Il "piuttosto che" usato in senso erroneo è, secondo me, da condannare soprattutto perché travisa, distorce, capovolge il senso del messaggio in cui è inserito. Ma gli autori non si attardano tanto sull'ambiguità che crea un "piuttosto che" usato in  maniera erronea. Il loro bersaglio principale sono i mal parlanti. E apprendiamo che Michela Vittoria Brambilla (ministra del turismo del quarto governo  Berlusconi) è la detentrice del record italiano di "piuttosto che" sbagliati, pronunciati nello stesso discorso. I due giustizieri linguistici denunciano numerosi altri abusi grammaticali e sintattici della Brambilla, tanto che questa potrebbe, secondo me, rivendicare il titolo di coautrice del manualetto, vista la sua sostanziosa contribuzione ai testi in esso contenuti. 
Il chiaro orientamento politico, anti-destra e progressista, di questo libretto dedicato agli "errori da non fare" spiega anche il commento elogiativo espresso, a suo tempo, da Silvana Mazzocchi dalle colonne di "Repubblica" nei confronti di questo, secondo lei, prezioso "breviario". Un breviario dai toni politico-moralistici che non enuncia nessuna regola, ma dà la versione sbagliata e quindi la correzione di un certo numero di termini erronei, scelti non si sa bene in base a quali criteri. 
Il numero dei termini erronei riportati nel libretto è assai limitato. Abbondano invece nell'operetta gli spazi bianchi e le pagine vuote, quasi che gli autori volessero riempire il numero di pagine prefisso senza preoccuparsi troppo dei contenuti. Ampi spazi sono poi occupati da testi carichi di lunghe frasi; il tutto per mettere in evidenza una sola  parola errata. Sarebbe stato più logico estrarre dal testo la proposizione contenente la parola censurabile, e omettere l'intera pappardella usata come riempitivo. Ad esempio la condanna di "coefficente", al posto del corretto coefficiente, ci frutta una mezza pagina di lunghe frasi cariche di cifre e percentuali. La sola citazione del sito web da cui questo lungo testo è tratto occupa ben tre righe. 
All'obiezione che un paio di righe per ogni voce erronea sarebbe bastato, si potrebbe opporre che l'errore compiuto da quel particolare mal parlante ricorre diverse volte nel suo scritto e che quindi è opportuno, per fini didattici, mostrare l'intero testo in cui  l'errore in questione è stato ripetuto dallo scrivente. In realtà, dandoci l'intero testo, con l'errore ripetuto, gli autori mostrano che il loro intento principale è di prendersi beffe di colui che lo ha commesso, e del quale ci forniscono il nome, il cognome, la funzione… Si trattasse di testi letterari, di documenti ufficiali, di sentenze di tribunale, la cosa sarebbe interessante, ma non nel caso di un pinco pallino che è fatto balzare agli onori della cronaca linguistica solo per un oscuro svarione.
 Il risultato di questa ripetitività, quando una sola delle tante frasette sarebbe bastata, è di sottrarre utili spazi nel libro, che è già di per sé molto misero di contenuti. Ma la carenza maggiore di questo manualetto è proprio il dilettantismo, in apparenza privo di rigore metodologico. L'acribia (con l'accento sulla seconda "i") se vogliamo...
"Elementarietà" al posto del termine esatto "elementarità" è una voce che permette ai due autori di sovraccaricare un'intera pagina con un testo scritto, malamente, da altri. Elementare, Watson? Direbbe Sherlock Holmes, il quale subito capirebbe che lo scopo di tante lunghe citazioni, inserite nel lessico per darci l'esempio di un semplice termine sbagliato, è una maniera assai comoda di riempire un lessico senza troppo curarsi della sua sostanza.
Il metodo del libretto è basato sull'enumerazione dei termini errati. Ma la lista di queste parole erronee è ben magra; non solo, ma gli errori sono presentati a noi lettori passivamente senza che gli autori si preoccupino di enunciare la regola che ci permetterebbe in futuro di evitarli nel caso in cui una tale regola esista. Scorrendo i termini inseriti nel lessico, viene il sospetto che i termini denunciati siano stati scelti a caso e non per la loro frequenza o gravità, e che persino errori di battitura siano stati inclusi in questo breviario. Non manca poi la denuncia di errori tratti dalla Rete. Ma gli scritti postati in Internet, blog, forum, e altri spazi del genere sono opera di gente che scrive affrettatamente, senza eccessive preoccupazioni per la grammatica. Noi sappiamo che in Rete l'ultima delle preoccupazioni è il rigore nello scrivere. Ad esempio: "Non fate come... Flavio Briatore, imprenditore, Twitter, 11 dicembre 2012: non dovrei  arrabiarmi". 
Vengono poi messi alla gogna errori poco diffusi, come "d'avvero" al posto di "davvero". Gli autori denunciano persino gli errori di pronuncia. Alla voce "laurea" gli autori si prendono burla di Elena Guarnieri del Tg5 che avrebbe detto "laura ad honorem" al posto di "laurea ad honorem". 
Si tratta di lingua parlata, e quando si parla può scivolare un errorino. Oltretutto, chi può veramente distinguere il suono di "ea" da quello di "a", inserito in una parola pronunciata rapidamente in televisione?
Nel libretto vi è un numero limitato di termini inglesi (al plurale) e per ognuno di essi gli autori specificano che la parola va usata solo al singolare. Prendiamo "films". "La parola films è invariabile; non bisogna aggiungere la s finale al plurale" ci è detto, senza che gli autori si preoccupino di enunciare la semplice regola: in italiano il termine straniero va in genere usato solo al singolare. 
Questo procedere parola per parola, senza voler darci la regoletta a carattere generale, quando essa esiste, come se il lettore fosse impermeabile a ragionamenti  solo un po' più astratti, crea un problema perché il lettore si pone allora la domanda: E gli altri termini inglesi, ormai moneta corrente nel linguaggio degli italiani ma che non vediamo inseriti nella lista, devono essere usati anch'essi sempre al singolare?  Il lessico condanna ugualmente la s finale di "fans", "call centers", "rumors", "snacks", "talent-scouts", "budgets"... Ma tralascia tanti altri termini inglesi che gli italiani usano ormai quotidianamente. Alla voce "Rumors" troviamo: "questa parola, che l'inglese ha assunto direttamente dall'italiano, in italiano è invariabile; non bisogna aggiungere la s finale al plurale: i 'rumor', non i 'rumors'." Il lettore si sarebbe anche aspettato di conoscere il significato di "rumor", dato che la parola inglese "rumor" (voci, dicerie) non è l'esatto equivalente dell'italiano "rumore".
Non un solo cenno è fatto dagli autori a questa invasione nella lingua italiana di termini inglesi, spesso inutili e quasi sempre mal pronunciati e mal capiti, o usati solo in una sola delle loro accezioni originarie. Gli autori, nemici dichiarati dello snobismo, hanno perso un'occasione preziosa per difendere la correttezza della lingua italiana contro queste importazioni abusive di termini inglesi che rattrappiscono il nostro idioma. E che, oltretutto, ci rendono ridicoli agli occhi di quegli stranieri che, desiderosi di imparare l'italiano, non possono che rimaner meravigliati di fronte al nostro ridicolo spirito imitativo, snobistico nelle intenzioni ma che tradisce, in realtà, una mentalità da lustrascarpe, anzi da "sciuscià".
La formula del dizionarietto con le parole poste in ordine alfabetico permette una rapida consultazione rispetto ad altri manualetti concepiti in maniera differente. Grazie al metodo dell'ordine alfabetico, quando si ha un dubbio ortografico su una parola, basta cercare nel dizionarietto. Ma occorrerebbe allora che il lessico fosse sostanzioso, ossia che contenesse un numero sufficiente di parole, anche perché abbiamo visto che l'operetta di Della Valle e Patota  ha un approccio puramente empirico, e non dà spiegazioni sulle regole generali, quando esse esistono. Risultato? Forse otto volte su dieci se si consulta "Piuttosto che", desiderosi di appagare un dubbio, si va in bianco.  Apprendiamo che "regime" è una parola che "deve essere pronunciata con l'accento sulla i, non sulla e", ma se cerchiamo "zaffiro" e "recluta" non caviamo un ragno dal buco perché questi termini sono assenti dal lessico.
"Finché" questa parola deve essere scritta non con l'accento grave (è) ma con l'accento acuto (é), ci ammoniscono gli autori. Ma mancano nel manualetto "fuorché", "cosicché"... Strano poi che non si sia pensato di inserire "è", voce della terza persona singolare del presente indicativo del verbo essere, la quale va scritta con l'accento grave e non con l'accento acuto, errore quest'ultimo molto piu' frequente del fuorché con l'accento grave.
"Abborrire: bisogna dire e scrivere aborrire, con una sola b", leggiamo nel volumetto. Aggiungerei io: in certe regioni un tal errore è assai frequente, a causa soprattutto della pronuncia ossia della maniera particolare di parlare della gente del luogo. Nel Veneto è invece frequente l'errore contrario: ossia l'uso di una sola consonante anche quando la parola contiene una doppia. 
Sempre in relazione all'uso, nel parlare e nello scrivere, di consonanti doppie al posto delle semplici, si stenta a capire il criterio che gli autori hanno seguito nello scegliere le parole che illustrano questa particolare categoria di errori. Ma le parole pronunciate e talvolta scritte alla romanesca o alla napoletana, ossia con una consonante doppia al posto di una semplice, sono legioni in Italia.
"Conobbi" usato alla seconda persona singolare del passato remoto di conoscere, al posto quindi di "tu conoscesti" è un grave errore, ci avvertono gli autori. Ma è un errore, aggiungerei io, strano e raro. 
Tra i mal parlanti troviamo sindaci, conduttori, burocrati, personaggi dello spettacolo, comuni cittadini… Vi troviamo anche un cantante. Avvertono gli autori: Non fate come ... Julio Iglesias che nella canzone "A meno che" usa i verbi all'indicativo (accetti, uccidi, credi) e non il sacrosanto congiuntivo: "accetti, uccida, creda." Strano che non denuncino anche l'"ammore" delle canzoni napoletane. 
Un "Qual è" erroneamente scritto con l'apostrofo mette invece alla berlina Saviano, patentato scrittore italiano. Ma di mira sono presi, come ho già detto, soprattutto i politici della parte avversa. Appare evidente che i discorsi di Berlusconi non piacciono ai due autori, che lo citano spesso dopo l'avviso "Non  fate come…". A Berlusconi gli autori rimproverano, tra l'altro, l'uso di "avvocatessa", errato "perché contiene una sfumatura  spregiativa". Anche altri linguisti propendono per l'uso di avvocato o di avvocata al posto di "avvocatessa", ma mi sembra eccessivo considerarlo termine spregiativo. Anzi è forma diffusa, che non può essere equiparata a "giudichessa", "vigilessa", "ministressa", "generalessa", forme, quest'ultime, d'impronta, sì , ridicola.  Apprendiamo anche che "benedire" non fa all'imperfetto "benedivo" né "benediva", forme incorrette che i due autori giustamente condannano, propinandoci però l'intero discorso dell'allora presidente del consiglio; discorso evidentemente da condannare, anzi da maledire, in blocco.
"Davanti casa", "davanti l'albergo" sono espressioni condannate, perché manca "alla" e "allo": davanti alla casa, davanti all'albergo. Gli autori, che propinano le loro pillole d'italiano corretto, omettono di ricordarci che "Davanti San Guido" è uno strafalcione non dei berlusconiani, né di Bagnasco, né di Briatore e neppure di Di Pietro o di Elkann, ma di Carducci. 
"Acrìbia: l'unica pronuncia corretta è acribìa, con l'accento sull'ultima i". Gli autori avrebbero potuto dare contemporaneamente il significato di questa parola di rarissimo uso. E già che ci siamo, io trovo che "Piuttosto che; le cose da non dire, gli errori da non fare" difetta proprio di acribìa = accurata e scrupolosa osservanza delle regole proprie di uno studio, una ricerca e simili (Zingarelli).

(Claudio Antonelli)


(Ecco cosa scrivono gli autori) 


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La lingua "biforcuta" della stampa

Da un autorevole quotidiano in rete leggiamo: (...) Lo afferma Benedetto XVI in un libro a quattro mani con il cardinale Robert Sarah, che uscirà il 15 gennaio e del quale Le Figaro pubblica delle anticipazioni (...).

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A quattro mani si suona il pianoforte, un libro si scrive a due mani.

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