di
Salvatore Claudio Sgroi *
La
"femminilizzazione" dei
nomi di professione e delle cariche -- per intenderci, casi come la ministra, la magistrata, la presidente (della Camera, ecc.), la sindaca, la notaia, la
rettrice (dell'Ateneo), la pro-rettrice, la direttrice (del Dipartimento), la dirigente (scolastica),
la dottoressa, ecc. -- è ben presente,
con diversa fortuna secondo i termini, non solo in italiano, ma in tante lingue
del mondo. Ed è stata giudicata da uno storico della lingua come Pier Vincenzo Mengaldo
(1994) "quasi una rivoluzione" linguistica.
Diverse
al riguardo sono le reazioni da parte dei parlanti dinanzi a tali usi. In
termini di "diritti e doveri linguistici" del parlante, direi 1°) che
il parlante (maschio o femmina) ha sempre il diritto di dire "questo o quel femminile non mi piace
proprio", "non lo userò mai" ecc. Oppure il contrario.
Suo dovere è però 2°) non dire che questa o
quella forma al femminile è "errata", e che quindi chi la usa
sbaglia, se non altro perché è sempre comprensibile. Né tanto meno egli può
imporre il proprio uso (maschile o femminile che sia) agli altri.
Massima
libertà d'uso quindi da parte del parlante e rispetto degli usi altrui diversi.
Nei
rapporti con gli altri, il dovere della cortesia impone invece di adeguarsi
all'uso voluto dal proprio interlocutore. E quindi "Signora
Presidente" (o "Direttore") se questo è l'allocutivo desiderato
dalla interlocutrice.
In
una società in cui la donna è a vario titolo discriminata rispetto al maschio, o
vittima (vedi i femminicidi), la teoria sessista della lingua -- giunta
alla ribalta in Italia circa 30 anni fa -- ritenendo la lingua strutturalmente
maschilista e anti-femminista, ha voluto mettere in primo piano l'immagine
della donna, soprattutto nei casi in cui il termine di genere maschile denota
non solo il maschio ma anche la donna, proponendo anzi imponendo il nome di
genere femminile (la ministra e non il ministro se si tratta di una donna),
come nei casi di cui sopra. Il limite del sessismo linguistico è quindi il suo
carattere prescrittivista.
Qual'è
la posizione assunta al riguardo dall'Accademia
della Crusca, e dal suo dinamico presidente, Claudio Marazzini? Il lettore
potrà apprenderlo scorrendo l'informatissimo volumetto in 8° col titolo
mengaldiano «Quasi una rivoluzione»,
sottotitolo I femminili di professione e
cariche in Italia e all'estero ( pp. 136).
Il
volumetto è costituito da un agguerritissimo saggio di un giovane studioso, Giuseppe Zarra (pp. 20-120), relativo
all'italiano, allo spagnolo, al francese, al tedesco e all'inglese, da tre
interventi di C. Marazzini (pp. 5-12; 121-29; 131-34) e da una prefazione (pp.
13-17) di Yorick Gomez Gane. (Ma manca un indice degli esempi e dei nomi).
Il
dilemma se è bene dire la ministra oppure il ministro riferito in entrambi i casi
a una donna, lo scioglie il presidente della Crusca, che non potendo (ahimè)
proporre una sola Regola, dinanzi alla varietà degli usi dei parlanti apparentemente
ingovernabile, ne propone due, o per meglio dire una regola regolante con due Varianti.
Marazzini
afferma infatti di doversi "rassegn[are] all'oscillazione tra maschile
non marcato [es. il ministro] e
femminile [la ministra], fino a
quando non ci sarà il netto prevalere di una forma sull'altra" (p. 133).
Intanto, una "buona soluzione" (ibid.) è, afferma l'A., "adottare [i]
il femminile quando abbiamo il nome [proprio] (La presidente Boldrini, La
ministra Boschi), [ii] il maschile non marcato quando la carica è
menzionata di per sé in atti ufficiali (La
circolare del ministro, Il ministro decreta, maschio o femmina che
sia)" (ibid.).
Potremmo
definire questa posizione normativista, un "neo-sessismo
'con juicio'", rispetto al "vetero-sessismo" di altri
studiosi (maschi o femmine), che vorrebbero in tutti i casi La ministra decreta, ecc..
A
monte della teoria sessista della lingua, neo- o vetero- che sia, sta però un
fraintendimento teorico della categoria grammaticale del "genere",
etimologicamente inteso come segnalatore del sesso maschio-femmina del
referente animato, animale (umano e non-umano),
peraltro antico retaggio della grammatica greco-latina.
Il
genere grammaticale, malgrado
l’etimo, indica invero solo secondariamente, e solo per i nomi animati il sesso
(peraltro non senza incoerenze). La funzione primordiale è quella di obbligare tutti
i nomi (animati e non) all’accordo,
alla coesione morfo-sintattica, per
facilitare la comunicazione (es. Il
terremoto è stato (non: *è stata)
terribile; Il presidente è stato eletto [non: *eletta]).
Ogni
lingua può peraltro segnalare, se il parlante lo desidera, oltre il ruolo anche
il sesso degli individui. Di fatto, il parlante ha quindi a disposizione due
Regole. La Regola-1 per cui usa la
forma non-marcata al maschile se vuol far riferimento solo al ruolo, senza
badare al sesso. E la Regola-2 per cui usa il femminile se vuole esplicitare anche
il sesso. E le due Regole possono essere compresenti in uno stesso testo. Nel
volumetto Parole ai giovani di Papa Francesco (della LEV)
si leggono frasi con nomi maschili riferiti a maschi e femmine: per es. (i)
"dobbiamo avere cura dei giovani
cercando per loro lavoro"; il/la
giovane è solo "chi è nell'età compresa tra la tarda adolescenza e la
maturità", senza far riferimento al sesso; -- (ii) "Dobbiamo avere
cura degli anziani" (di
entrambi i sessi).
E
accanto voci maschili (per maschi) e voci femminili (per femmine): per es. (i) nomi
ambigenere "un giovane e una
giovane", (ii) nomi mobili "(cari) ragazzi e ragazze", (iii)
"un ragazzo e una ragazza", (iv)
nomi indipendenti "ogni uomo e ogni donna".
Qualcuno
direbbe forse che il Papa è sessista? maschilista?, anti-femminista?
* Docente di linguistica generale presso l'Università di Catania
Autore tra l'altro di
--Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante (Utet 2010);
-- Scrivere per gli italiani nell'Italia post-unitaria (Cesati 2013);
--Dove va il congiuntivo? (Utet 2013);
-- Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016)