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Far la mamma di San Pietro
Si adopera questa locuzione - forse poco conosciuta - quando
si vuole mettere in particolare evidenza l'avarizia di una donna. Si dice, infatti, di colei che ama il denaro
e i propri averi piú di sé stessa e non darebbe un bicchier d'acqua neanche se
l'assetato le cadesse davanti svenuto. Il modo di dire è prettamente popolare
e, in quanto tale, la sua origine si perde nella notte dei tempi. Potrebbe essere una leggenda, dunque, cosí
come la racconta Giuseppe Pitré (Palermo 1841-1916), medico e studioso di
"cose popolari". Vediamola. «Narrasi, dunque, che la mamma di San Pietro
fu sí avara e di cuor duro, che non andava povero a bussare al suo uscio, il
quale non fosse cacciato via come un ladro. Visse cosí fino all'estrema vecchiezza , non avendola ravveduta né le
prediche di Gesú , né gli esempi di carità dati dal figlio. Com'è vero che
quando un viziaccio s'è radicato fin da fanciulli nel nostro animo, non c'è che
un miracolo di Dio, che ne lo sradichi. Fatto è, che la madre di San Pietro
morí con quel peccato nell'anima, e andò all'inferno. Erano passati molti molti
anni e la misera penava sempre nello
stesso fuoco; e mandava continue preci al figlio, ch'è il custode delle porte
del paradiso. Egli le udí una volta, e n'ebbe (occorre dirlo?) gran pietà; e
pregò tanto il buon Dio, che ottenne di liberarla, se si trovasse che in vita
di lei, per un atto anche minimo di carità, le fosse stato detto una volta
sola, "Dio te ne renda merito". Cerca, cerca, si trovò davvero che un
giorno aveva dato una buccia di porro a un poverello, il quale disse: "Dio
te lo rimeriti". Di ciò lieto San Pietro, va nel giardino celeste, e carpe
un porro; e per miracolo l'allunga tanto tanto, tenendolo per la coda, che ne
arriva il capo all'inferno dov'era la madre; e il figlio le dice:
"Attaccati, mamma, al porro, ch'io traggo su piano piano". La madre
appena ode le parole del figlio e vede il capo del porro lo afferra subito e
lentamente comincia ad uscire dal fuoco. Come la videro gli altri dannati
cominciarono ad attaccarsi al lembo della sua veste e ai piedi: anch'essi
volevano uscire dal fuoco. La madre di San Pietro, quindi, si vide come
assediata dalle api e cominciò a tirare calci a destra e a manca, gridando:
"Andatevene"; lo fece con tanta rabbia e violenza da rompere il gambo
del porro e... paffete, cadde indietro dentro al fuoco. E cosí il Signore la
castigò».
***
La parola che proponiamo oggi è: encorico. È un aggettivo non attestato in tutti i vocabolari e
significa "che è del luogo". Si veda anche qui.
***
Se non cadiamo in errore tutti (?) i vocabolari dell'uso, anche quelli più "autorevoli", attestano il sostantivo "sosia" invariabile e riferibile tanto a un uomo quanto a una donna. E fin qui, tutto normale. La "anormalità" - a nostro modo di vedere - sta nel fatto che detti vocabolari usano l'articolo femminile quando il sostantivo in oggetto si riferisce a una donna: le sosia della regina Elisabetta. No, i sosia della regina Elisabetta. Sosia era il nome di un servo di Mercurio e da nome proprio è divenuto nome comune, ma "maschio" era e maschio deve restare, anche se si riferisce a una donna. Ma tant'è.
4 commenti:
Tant'è e tanto deve essere se la totalità dei più autorevoli vocabolari riconoscono il femminile la sosia. Sulla base di quale legge grammaticale si sente autorizzato a smentirli?
Caro anonimo,
non li smentisco io (non sono nessuno), ma un grande della lingua, lo scomparso prof. Aldo Gabrielli:
«“Quante volte ho sentito frasi come queste: ‘Anna è la sosia di sua madre’, ‘Quell’attrice non è certo la sosia della Garbo’, parlando di due persone che si somigliano come due gocce d’acqua o non si somigliano affatto. E tutte le volte mi vien da dire: che erroraccio! Erroraccio perché? Ma perché sosia è un nome maschile, e maschio ha da restare, anche se da nome proprio una trasformazione l’ha già fatta diventando nome comune. Infatti questo Sosia, per chi non lo ricordasse, è il nome del servo di Anfitrione, nella famosa commedia di Plauto (…). Nella commedia plautina accade che un giorno Mercurio, mandato sulla terra da Giove, assumesse l’identico aspetto di Sosia, allo scopo di giocare alcune beffe diciamo piccanti all’infelice Anfitrione. Questo soggetto fu poi ripreso dal Molière nella commedia intitolata appunto ‘Amphitryon’, e il nome del servo, divenuto subito popolarissimo in Francia, da proprio si trasformò in comune, venendo a indicare persona somigliantissima a un’altra al punto da essere scambiata con questa. Noi riprendemmo il termine dal francese in questa accezione figurata verso la metà dell’Ottocento. Ma sempre come maschile, si capisce. Perciò dobbiamo dire ‘il sosia’, nel plurale ‘i sosia’, sia con riferimento a uomo sia con riferimento a donna. Non possiamo dare a Sosia una sorella dello stesso nome! Diremo quindi correttamente ‘Anna è il sosia di sua madre’, ‘Quell’attrice non è certo il sosia della Garbo’. Stona quel maschile accostato a un femminile? Ma stona forse dire ‘Anna è il ritratto, il doppione, il modello, lo stampo di sua madre? (…)”».
Avevo già letto il punto di vista di Aldo Gabrielli, sempre riesumato da lei, che per la sesta volta torna all'attacco con il sosia e le medesime parole.
Avevo chiesto quale regola grammaticale proibisce di dire la sosia, ma mi arrendo. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Caro anonimo,
un sostantivo "invariato" (generalmente sempre maschile e, quindi, con l'articolo maschile) non cambia di "sesso", il genere lo conserva e nel singolare e nella forma (invariata) plurale: Giovanni è il sosia di Pasquale; Maria è il sosia di Renata; Paolo e Mario sono i sosia di Carlo e Alberto; Giulia e Silvana sono i sosia di Maddalena e Carmelina. Giuseppe è un cerbero; Susanna è un cerbero (non UNA cerbero). Spero di essere stato esaustivo.
Con i migliori saluti
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