Dal dr Claudio Antonelli (da Montréal) riceviamo e pubblichiamo
“The
grass is always greener on the other side of the fence.” Questo
detto anglosassone ricorre ormai di frequente in italiano: “L’erba
del vicino è sempre più verde”. Occorre subito precisare che
mentre nella versione italiana del proverbio l’erba ha sempre un
significato metaforico, nella versione originale inglese il termine
“grass” ha anche un significato fortemente realistico.
Ma è solo l’erba del vicino a suscitare l’interesse dell’uomo
di casa anglosassone? No, è l’erba di casa sua ad appassionarlo
tantissimo. Nell’espressione “The grass of home” l’erba di
casa identifica la dimora, il focolare domestico. “L’erba di casa
mia” suscita negli anglosassoni, quando vivono lontani da casa,
nostalgie e rimpianti. Innumerevoli canzoni anglo-americane esaltano
infatti il mitico “grass of home”.
Noi italiani, quando viviamo in un paese straniero, rimpiangiamo i
fichi, i pomodori, l’uva, la frutta, i cibi, i formaggi, i vini, i
liquori del nostro paesello, della nostra regione. Ma anche per noi
italiani, colonizzati dalla cultura americana, l’espressione
“l’erba di casa” identifica ormai la dimora, la casa, il
focolare domestico. Vedi la canzone “L’erba di casa mia” di
Massimo Ranieri, nella quale questi vanta accoratamente, ma io
correggerei: comicamente, le qualità sentimentali, estetiche,
organolettiche dell’erbetta della propria casa lontana. Molti
napoletani troveranno improbabile il rimpianto di Massimo per la sua
erbetta di casa, sapendo ch’egli è originario del vicolo
Pallonetto di Santa Lucia, luogo certamente di gran fascino ma
cementificato e senza uno stelo d’erba.
Ormai anche noi italiani, una volta partiti dal paesello,
rimpiangiamo, sul modello sentimentale inglese, l’erba di casa, e
se rimasti al paesello invidiamo invece l’erba del vicino. Tutto
ciò stando ai nuovi canoni linguistici che il copia-incolla, invalso
nei confronti di termini ed espressioni del mondo anglo-americano, ha
introdotto nel nostro mondo latino-mediterraneo dove la mitica erba,
fino a non molto fa, contava assai poco.
Ma procediamo ad un’analisi più approfondita dell’espressione:
“L’erba del vicino…”. Per la Treccani: “L’erba del vicino
è sempre più verde” è un’espressione proverbiale che si è
diffusa in seguito al film con Cary Grant e Deborah Kerr del 1960:
“The grass is greener”. Commenta la Treccani: “Sembra un
precetto morale ma è solo il titolo di una commedia americana”.
Per Wikipedia invece, “L’erba del vicino è sempre più verde”
è un “proverbio della cultura popolare italiana”. Circa la
nascita del detto, Wikipedia precisa: “Anticamente le capre
tendevano a mangiare l’erba dei terreni confinanti preferendola a
quella che cresceva sui terreni dei padroni”. Spiegazione che
chiaramente attribuisce al mondo animale nostrano, e non ai
proprietari degli animali, queste presunte invidie italiche per i
fili d’erba del podere vicino. Sarebbero quindi le capre, le pecore
e le mucche italiane ad aver nutrito nei secoli questa invidia
mangereccia, alimentando indirettamente anche le invidie dei loro
pecorai e mandriani verso l’erba del fortunato proprietario del
campo limitrofo.
Nel mondo anglosassone non è la capra ma è l’individuo a
bramare l’erba del vicino, sempre crudelmente più verde della sua.
Questo, tutti noi che viviamo in un paese d’impronta anglosassone
(nel mio caso il Canada) lo sappiamo molto bene. Non penso che vi sia
un altro simbolo così potente dei valori canadesi quanto il
praticello. Nella scala dei valori dei nordamericani, quebecchesi
inclusi, l’erbetta – “gazon” in francese, “grass” in
inglese – rappresenta l’ordine, la pulizia, la bellezza, la
laboriosità, i valori domestici, i buoni rapporti tra vicini. Di qui
un impegno totale a favore dell’erba.
Pare accertato che i pesticidi aumentino il rischio della malattia
di Parkinson. Ma nella strenua lotta che i canadesi conducono per
migliorare l’aspetto del praticello è fatto largo uso di
pesticidi. La micidiale battaglia per la bellezza-purezza dello stelo
d’erba lo impone. E i soldatini, armati di tutto punto, vanno
all’attacco delle odiate malerbe. Il manto erboso deve essere
purificato di ogni erba estranea, ostile, cattiva; non solo, ma deve
avere la giusta tinta, la giusta altezza, anzi bassezza, ed essere
folto, sano, compatto. Ciò richiede una guerra senza quartiere
condotta con insetticidi, utensili ad hoc, falciatrici. Sicché
d’estate è tutto un rimbombare di strumenti meccanici e un dannoso
esalare di fumi di scarico che impestano tutto.
Simili a insetti ronzanti, programmati dalla natura per un
imperscrutabile suo disegno, i proprietari tondono ostinati il
praticello, estirpano i “dandelions” (cicorietta selvatica,
taràssacco, dente di leone, soffione, boffarello, pissacane,
piscialetto) veri fiori del male. E guardano con invidia, con un
animo direi da ruminante, il prato del vicino la cui erbetta,
immancabilmente, appare più verde della loro. Il tutto all’insegna
dei pesticidi, del rumore, dello spreco, dell’esagerazione,
dell’ossessione, del conformismo. E dell’invidia.
L’espressione, “l’erba del vicino è sempre più verde” ha
in Nord-America un significato innanzitutto letterale. I dizionari di
lingua inglese da me consultati sono chiari al riguardo: “Il
significato originale di questa frase idiomatica deriva dal fatto
che, quando una persona guarda oltre il recinto del proprio giardino,
pensa che l’erba del vicino sia più verde e quindi migliore”. E
che il verde dell’erba del proverbio sia veramente il colore del
manto erboso, e non sia un termine da intendersi in senso unicamente
metaforico, ci è stato dimostrato dallo scienziato James Pomerantz.
Questi, dopo aver a lungo studiato l’intrigante fenomeno dell’erba
più verde, ha trovato infine la spiegazione scientifica al mistero,
causa di tanti tormenti. In “An Ecological Analysis of an Old
Aphorism” (1983), Pomerantz dimostra che quando l’erba è
osservata a una certa distanza essa appare più verde, di quando
invece noi, stando sul posto, osserviamo i fili d’erba dall’alto,
perpendicolarmente, perché in tal caso il manto erboso appare meno
integro e compatto e rivela spiragli che lasciano intravedere il
suolo.
L’invidia dell’erbetta è giunta in Italia molto tardi. In una
penisola, è doveroso aggiungere, i cui abitanti erano già in preda
a molte invidie.
Sono voluto andare più in fondo nella mia ricerca del filo
conduttore dell’attuale ridicolo detto, ricostituendolo nella sua
formulazione originaria. E con soddisfazione posso dire che sono
riuscito a risalire alla fonte letteraria originaria delle antiche
vere invidie dell’italiano nei confronti del suo vicino di casa; a
causa delle quali invidie l’invito “ama il prossimo tuo come te
stesso” è restato fino ad oggi lettera morta nella penisola. Ma
sono dovuto risalire molto indietro nel tempo.
Ovidio, nella sua “Ars amatoria”, opera che non è certamente
un catalogo di sementi d’orto o di piante da vivaio, ci permette di
ben circoscrivere l’ambito mangereccio e sensuale delle vere
invidie dell’italiano antico e direi eterno, ammiratore non di
superfici erbose, di steli d’erba e di prati all’inglese, ma di
messi ubertose, di fertili rotondità e di attraenti nudità.
Ovidio (Ars amatoria, Libro I, 349-350): “Fertilior seges est
alienis semper in agris, vicinumque pecus grandius uber habet”. In
italiano: “La messe dei campi altrui appare più fertile, e più
ricco di latte il gregge vicino”. O anche: “Il grano nei campi
altrui è sempre più fertile (di quello nei nostri) e il bestiame
vicino ha mammelle più grandi (turgide)”. In inglese: “The crop
is always greater in the lands of another, and the cattle of our
neighbour are deemed more productive than our own”. O anche: “Crops are always more fertile in
someone else’s fields, and the cattle next door has bigger udders”.
Da ciò si vede chiaramente che l’oggetto delle invidie storiche
dell’abitante del Bel Paese non è l’erbetta; sono invece i
frutti di cui il vicino “ingiustamente” gode.
Oso dire che se la mania del prato all’inglese, suscitatore di
sterili invidie, dovesse attecchire in Italia al posto delle
tradizionali, sane invidie italiane per l’orticello fecondo di
frutti e qualche volta anche per la moglie e la figlia del vicino
perché dotate di una sana bellezza, questa invidia vegetale
comporterebbe un immiserimento del nostro bagaglio identitario, così
ricco e fertile come attestato dalle parole del nostro grande Ovidio.
Ma purtroppo, sul piano linguistico, l’immiserimento è già
avvenuto.
Il “culto dell’erbetta”, torno a ripetere, ha assai poco a
che vedere con l’Italia; Paese, dove a provocare le invidie tra
vicini di casa e di campo – come abbiamo visto – non è mai stato
il classico prato all’inglese ma erano la rigogliosità e la
grossezza degli ortaggi e dei frutti, e la floridezza degli
animali...
Com’è potuta avvenire questa trasformazione dell’abitante
della penisola, mangiatore di spaghetti, risotti, polente, ossibuchi,
e avido divoratore di frutta fresca e di verdure, in un ruminante
anglofono bramoso della verde erbetta? Ve l’ho già spiegato:
questa trasformazione è avvenuta in virtù della galoppante
colonizzazione linguistica in atto nella penisola. La trasformazione,
insomma, non è di natura antropologica ma di carattere puramente
lessicale. A trionfare sono state le forti invidie a carattere
linguistico rivolte al mondo americano.
Non paghi di aver adottato termini ed espressioni inglesi, quasi
sempre usati a sproposito, gli italiani sono passati ad adottare
anche i proverbi d’oltre mare. E così nella stessa maniera in cui
nel parlare e nello scrivere dei nostri giornalisti “fare fiasco”
è stato rimpiazzato da “fare flop”, “montepremi” da
“jackpot”, “revisione della spesa” da “spending review”,
“ovazione” da “standing ovation”, “tifoso” da
“supporter”, la mutazione pro-USA del parlare e dello scrivere in
Italia ha investito anche i proverbi. Non tutti però, penso infatti
che dovremo ancora aspettare un bel po’ prima di veder adottato un
equivalente italiano del virile ma troppo britannico “Nothing to
fear but fear itself”, che prenda il posto dei nostri tremebondi
“Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, “Chi va piano va sano
e va lontano”, “Chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni”,
“Chi lascia la via vecchia per quella nuova, sa quel che lascia ma
non quel che trova”. Aforismi dai quali traspare che
l’atteggiamento abituale dell’abitante medio della penisola si
ispira a prudenza e diffidenza verso gli altri e al timore di fare un
salto nel buio.
I tanto diffidenti italiani, un tempo timorosi del salto nel buio,
sono invece divenuti linguisticamente dei paracadutisti. Governo in
testa, infatti, gli italiani si tuffano comicamente a pesce nel
bailamme cacofonico degli anglicismi, senza curarsi della violenza
che fanno alle proprie corde vocali e agli altrui timpani.
La triste conclusione: Ovidio, esiliato a Tomi dove è rimasto
dolorosamente fedele a Roma, non sarebbe certamente orgoglioso, oggi,
delle metamorfosi linguistiche degli italiani.
Claudio Antonelli
(Le
immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se
víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse:
fauras@iol.it)