giovedì 21 novembre 2024

L'omeoteleuto

 


N
el meraviglioso universo della linguistica italiana ci sono termini che, nonostante siano prettamente tecnici, posseggono una bellezza intrinseca. Uno di questi è "omeoteleuto" (o “omioteleuto”), vocabolo probabilmente sconosciuto ai più perché non sempre è trattato nelle comuni grammatiche scolastiche. Ma vediamo l’accezione di questo sintagma e che cosa nasconde. Cominciamo, dunque, questo affascinante viaggio linguistico alla scoperta dell’origine, del significato e dell’uso del termine in oggetto.

Partiamo dalle radici del lessema. "Omeoteleuto", dunque, trae origine dal greco antico, precisamente da "homoteleuton". È composto da due parti fondamentali: "homo-", che significa "uguale" o "simile", e "teleuton", che deriva da "telos" e vale "fine" o "conclusione" ('uguale fine', 'uguale conclusione'). Questo ci dà un ‘indizio’ preziosissimo: l'omeoteleuto si riferisce a una somiglianza o uguaglianza di “qualcosa” alla fine della proposizione. Immaginiamo, per esempio, di avere due fili che, pur partendo da punti diversi, si intrecciano perfettamente alla fine; ecco, questa, potremmo dire, è l' “essenza” dell'omeoteleuto.

Questo si palesa attraverso la ripetizione di suoni identici o simili, soprattutto alla fine di parole vicine. L’omeoteleuto, però, non è solo un caso fortuito, ma uno strumento potentissimo, specialmente in ambito poetico, retorico e letterario, messoci a disposizione dalla linguistica per dare un tocco di stile ai nostri scritti o discorsi. Pensiamo, infatti, a una poesia in cui le parole alla fine dei versi suonano come una melodia armoniosa: è la magia dell'omeoteleuto. Uno degli esempi più celebri di omeoteleuto si riscontra nella "Divina Commedia" del sommo poeta (Inferno, canto V): "Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”. In questi versi le parole "perdona", "forte" e "m’abbandona" finiscono con suoni simili creando, così, un effetto di rima che enfatizza la musicalità e la drammaticità del momento.

Anche nel campo retorico – come dicevamo – l’omeoteleuto può farla da padrone. Le famose parole di Giulio Cesare "veni, vidi, vici" sfruttano la ripetizione del suono "i" per rendere la sua affermazione incisiva e facilmente “ricordabile”. Questa figura retorica, insomma, non solo cattura l'attenzione, ma rafforza anche il messaggio, rendendolo indimenticabile. Ma attenzione, c’è un però.

L'omeoteleuto può avere anche un lato... insidioso. Nei manoscritti del Medio Evo, per esempio, la ripetizione di suoni simili poteva portare a errori di copiatura. Immaginiamo un amanuense che deva trascrivere la frase "la gatta corre nel campo e caccia il topo che salta nel campo". È molto facile che, essendoci campo e campo, il copista possa omettere la seconda occorrenza di "nel campo", scrivendo, solamente, "la gatta corre nel campo e caccia il topo che salta". 

Nella letteratura moderna gli scrittori ricorrono all'omeoteleuto per creare effetti stilistici particolari. In una frase come, per esempio, "giocava con il gatto sul prato e subito scattò come un matto", le parole "gatto" e "matto" condividono il medesimo suono finale "-tto", conferendo un ritmo piacevole e una certa musicalità alla narrazione. Per concludere queste noterelle diciamo che l'omeoteleuto è una figura retorica affascinante che, pur essendo spesso nascosta, gioca un ruolo primario nella nostra comunicazione quotidiana e no. Che si tratti di poesia, discorsi retorici o semplici errori di copiatura, adoperare (e riconoscere) l'omeoteleuto può arricchire il nostro linguaggio e renderlo più “musicale”.



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martedì 19 novembre 2024

Perseguire...

 


In un regno incantato, oltre le colline verdi e le immense foreste, viveva una giovane principessa, Elena. La giovane aristocratica era conosciuta in tutto il regno per la sua determinazione e la sua capacità di perseguire i suoi obiettivi fino a sfiorare la perfezione. 

 
Un giorno, suo padre, il re, le chiese di trovare una cura per una misteriosa malattia che affliggeva tutti i sudditi. Elena, decisa a trovare una soluzione, cominciò a perseguire il suo scopo con tutta la forza dell’animo. Viaggiò per terre lontane, studiò antichi manoscritti e consultò tutti i saggi del regno. Durante uno dei suoi numerosi viaggi scoprì che il verbo "perseguire" deriva dal latino "persequi", composto con il prefisso "per-" (attraverso) e il verbo "sequi" (seguire). L’origine del verbo, quindi, rifletteva perfettamente la sua missione di raggiungere (perseguire) il suo scopo attraverso ogni difficoltà. Dopo molte avventure e sfide trovò, finalmente, una rara erba magica che curava quella misteriosa malattia. Grazie alla sua determinazione la giovane principessa riuscì, dunque, a perseguire il suo obiettivo salvando da sicura morte gli abitanti del regno. 
 
Ma nel piccolo regno c'era anche un malvagio stregone soprannominato Morbius. Questi seminava il terrore con le sue magie oscure, oltre a commettere molti reati. Il re, stanco delle sue malefatte, decise di perseguire Morbius per i suoi crimini. Si rivolse ancora ad Elena, che guidò le guardie reali nella cattura dello stregone. Durante la cattura, Elena ricordò quanto aveva scoperto circa l'etimologia di "perseguire": seguire attraverso, in questo caso, attraverso la legge e la giustizia. Dopo un processo equo, Morbius fu condannato per i suoi crimini contro il regno e imprigionato in una torre dove non poteva più fare del male a nessuno. 
 
Così, in quel piccolo regno incantato, tutti i sudditi impararono a usare il verbo "perseguire" in entrambe le sue accezioni: come simbolo della determinazione nel raggiungere un obiettivo e come atto di portare giustizia contro i malfattori. E vissero tutti felici e contenti, sapendo di essere protetti dalla saggezza e dal coraggio della loro principessa. 





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lunedì 18 novembre 2024

Ragionando sull'italico idioma


N
el nostro idioma - crediamo lo sappiano tutti - non è possibile stabilire una regola generale per distinguere il genere “naturale” e quello “grammaticale” dei sostantivi. Ciò è dimostrabile attraverso numerosi esempi. Nella nostra lingua è infatti facile trovare sostantivi riferiti a maschi ma che sotto il profilo grammaticale sono femminili: spia; guardia; guida; sentinella. E viceversa, sostantivi grammaticalmente maschili riferiti a donne come, per esempio, soprano e contralto. Le cose si ingarbugliano maggiormente quando, passando dalle persone alle cose, ci imbattiamo in sostantivi che secondo il genere “naturale” debbono essere neutri, mentre nella lingua di Dante sono ora di genere maschile ora di genere femminile. Perché, per esempio, la guerra è femminile mentre il conflitto è maschile? Ancora. Perché il coraggio è maschile mentre il suo contrario, la paura, è femminile? Per quale motivo l’arte è femminile e l’artificio è maschile? Una spiegazione per ognuna di queste stranezze ci sarebbe, anzi c’è, ed è di carattere prettamente etimologico-grammaticale, non di certo naturale. Queste piccole noterelle per mettere in evidenza - come accennato all’inizio - il fatto che non è possibile stabilire dei criteri logici generalizzabili per la classificazione dei sostantivi nel genere femminile o maschile. Solo un buon vocabolario può venirci in aiuto. 


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Probabilmente molti linguisti dissentiranno su quanto stiamo per scrivere, ma siamo confortati da numerosi vocabolari, quelli con la V maiuscola. In buon italiano non è consigliabile adoperare il verbo espletare nel significato di «adempiere, compiere, ultimare» e simili. Il verbo in oggetto è di sapore burocratico e in quanto tale è meglio lasciarlo alla... burocrazia. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere userà (nei suoi componimenti) verbi più appropriati alla bisogna come finire, portare a compimento, concludere e simili; la nostra lingua è ricca di verbi similari. Così pure sarà bene evitare i sostantivi (fuori del linguaggio burocratico) espletazione ed espletamento. 

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Forse non tutti sanno che "tranquillare" sarebbe da preferire al piú comune "tranquillizzare". È, infatti, pari pari il latino “tranquillare”. Tranquillizzare ricalca il francese ‘tranquilliser’. Il "tranquillante" che cosa è se non il participio presente sostantivato di tranquillare? Qualcuno dice: "dammi un tranquillizzante"? 


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I verbi vivere e campare, pur potendosi considerare l’uno sinonimo dell’altro, hanno sfumature diverse di significato. Il primo vale “avere vita”, “esistere” e si riferisce a organismi animali e vegetali: Giuseppe ha cessato di vivere la notte scorsa; tutte le piante hanno bisogno di acqua per vivere. Il secondo sta per “sostentarsi”, “mantenersi in vita”: quel barbone campa di elemosina. Nei tempi composti “vivere” può coniugarsi tanto con l’ausiliare essere quanto con l’ausiliare avere (quest’ultimo di uso raro, per la verità). “Campare”, invece, prende tassativamente l’ausiliare essere. 



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domenica 17 novembre 2024

L’erba del vicino è sempre più verde

 


Dal dr Claudio Antonelli (da Montréal) riceviamo e pubblichiamo


“The grass is always greener on the other side of the fence.” Questo detto anglosassone ricorre ormai di frequente in italiano: “L’erba del vicino è sempre più verde”. Occorre subito precisare che mentre nella versione italiana del proverbio l’erba ha sempre un significato metaforico, nella versione originale inglese il termine “grass” ha anche un significato fortemente realistico.

Ma è solo l’erba del vicino a suscitare l’interesse dell’uomo di casa anglosassone? No, è l’erba di casa sua ad appassionarlo tantissimo. Nell’espressione “The grass of home” l’erba di casa identifica la dimora, il focolare domestico. “L’erba di casa mia” suscita negli anglosassoni, quando vivono lontani da casa, nostalgie e rimpianti. Innumerevoli canzoni anglo-americane esaltano infatti il mitico “grass of home”.

Noi italiani, quando viviamo in un paese straniero, rimpiangiamo i fichi, i pomodori, l’uva, la frutta, i cibi, i formaggi, i vini, i liquori del nostro paesello, della nostra regione. Ma anche per noi italiani, colonizzati dalla cultura americana, l’espressione “l’erba di casa” identifica ormai la dimora, la casa, il focolare domestico. Vedi la canzone “L’erba di casa mia” di Massimo Ranieri, nella quale questi vanta accoratamente, ma io correggerei: comicamente, le qualità sentimentali, estetiche, organolettiche dell’erbetta della propria casa lontana. Molti napoletani troveranno improbabile il rimpianto di Massimo per la sua erbetta di casa, sapendo ch’egli è originario del vicolo Pallonetto di Santa Lucia, luogo certamente di gran fascino ma cementificato e senza uno stelo d’erba.

Ormai anche noi italiani, una volta partiti dal paesello, rimpiangiamo, sul modello sentimentale inglese, l’erba di casa, e se rimasti al paesello invidiamo invece l’erba del vicino. Tutto ciò stando ai nuovi canoni linguistici che il copia-incolla, invalso nei confronti di termini ed espressioni del mondo anglo-americano, ha introdotto nel nostro mondo latino-mediterraneo dove la mitica erba, fino a non molto fa, contava assai poco.

Ma procediamo ad un’analisi più approfondita dell’espressione: “L’erba del vicino…”. Per la Treccani: “L’erba del vicino è sempre più verde” è un’espressione proverbiale che si è diffusa in seguito al film con Cary Grant e Deborah Kerr del 1960: “The grass is greener”. Commenta la Treccani: “Sembra un precetto morale ma è solo il titolo di una commedia americana”.

Per Wikipedia invece, “L’erba del vicino è sempre più verde” è un “proverbio della cultura popolare italiana”. Circa la nascita del detto, Wikipedia precisa: “Anticamente le capre tendevano a mangiare l’erba dei terreni confinanti preferendola a quella che cresceva sui terreni dei padroni”. Spiegazione che chiaramente attribuisce al mondo animale nostrano, e non ai proprietari degli animali, queste presunte invidie italiche per i fili d’erba del podere vicino. Sarebbero quindi le capre, le pecore e le mucche italiane ad aver nutrito nei secoli questa invidia mangereccia, alimentando indirettamente anche le invidie dei loro pecorai e mandriani verso l’erba del fortunato proprietario del campo limitrofo.

Nel mondo anglosassone non è la capra ma è l’individuo a bramare l’erba del vicino, sempre crudelmente più verde della sua. Questo, tutti noi che viviamo in un paese d’impronta anglosassone (nel mio caso il Canada) lo sappiamo molto bene. Non penso che vi sia un altro simbolo così potente dei valori canadesi quanto il praticello. Nella scala dei valori dei nordamericani, quebecchesi inclusi, l’erbetta – “gazon” in francese, “grass” in inglese – rappresenta l’ordine, la pulizia, la bellezza, la laboriosità, i valori domestici, i buoni rapporti tra vicini. Di qui un impegno totale a favore dell’erba.

Pare accertato che i pesticidi aumentino il rischio della malattia di Parkinson. Ma nella strenua lotta che i canadesi conducono per migliorare l’aspetto del praticello è fatto largo uso di pesticidi. La micidiale battaglia per la bellezza-purezza dello stelo d’erba lo impone. E i soldatini, armati di tutto punto, vanno all’attacco delle odiate malerbe. Il manto erboso deve essere purificato di ogni erba estranea, ostile, cattiva; non solo, ma deve avere la giusta tinta, la giusta altezza, anzi bassezza, ed essere folto, sano, compatto. Ciò richiede una guerra senza quartiere condotta con insetticidi, utensili ad hoc, falciatrici. Sicché d’estate è tutto un rimbombare di strumenti meccanici e un dannoso esalare di fumi di scarico che impestano tutto.

Simili a insetti ronzanti, programmati dalla natura per un imperscrutabile suo disegno, i proprietari tondono ostinati il praticello, estirpano i “dandelions” (cicorietta selvatica, taràssacco, dente di leone, soffione, boffarello, pissacane, piscialetto) veri fiori del male. E guardano con invidia, con un animo direi da ruminante, il prato del vicino la cui erbetta, immancabilmente, appare più verde della loro. Il tutto all’insegna dei pesticidi, del rumore, dello spreco, dell’esagerazione, dell’ossessione, del conformismo. E dell’invidia.

L’espressione, “l’erba del vicino è sempre più verde” ha in Nord-America un significato innanzitutto letterale. I dizionari di lingua inglese da me consultati sono chiari al riguardo: “Il significato originale di questa frase idiomatica deriva dal fatto che, quando una persona guarda oltre il recinto del proprio giardino, pensa che l’erba del vicino sia più verde e quindi migliore”. E che il verde dell’erba del proverbio sia veramente il colore del manto erboso, e non sia un termine da intendersi in senso unicamente metaforico, ci è stato dimostrato dallo scienziato James Pomerantz. Questi, dopo aver a lungo studiato l’intrigante fenomeno dell’erba più verde, ha trovato infine la spiegazione scientifica al mistero, causa di tanti tormenti. In “An Ecological Analysis of an Old Aphorism” (1983), Pomerantz dimostra che quando l’erba è osservata a una certa distanza essa appare più verde, di quando invece noi, stando sul posto, osserviamo i fili d’erba dall’alto, perpendicolarmente, perché in tal caso il manto erboso appare meno integro e compatto e rivela spiragli che lasciano intravedere il suolo.

L’invidia dell’erbetta è giunta in Italia molto tardi. In una penisola, è doveroso aggiungere, i cui abitanti erano già in preda a molte invidie.

Sono voluto andare più in fondo nella mia ricerca del filo conduttore dell’attuale ridicolo detto, ricostituendolo nella sua formulazione originaria. E con soddisfazione posso dire che sono riuscito a risalire alla fonte letteraria originaria delle antiche vere invidie dell’italiano nei confronti del suo vicino di casa; a causa delle quali invidie l’invito “ama il prossimo tuo come te stesso” è restato fino ad oggi lettera morta nella penisola. Ma sono dovuto risalire molto indietro nel tempo.

Ovidio, nella sua “Ars amatoria”, opera che non è certamente un catalogo di sementi d’orto o di piante da vivaio, ci permette di ben circoscrivere l’ambito mangereccio e sensuale delle vere invidie dell’italiano antico e direi eterno, ammiratore non di superfici erbose, di steli d’erba e di prati all’inglese, ma di messi ubertose, di fertili rotondità e di attraenti nudità.

Ovidio (Ars amatoria, Libro I, 349-350): “Fertilior seges est alienis semper in agris, vicinumque pecus grandius uber habet”. In italiano: “La messe dei campi altrui appare più fertile, e più ricco di latte il gregge vicino”. O anche: “Il grano nei campi altrui è sempre più fertile (di quello nei nostri) e il bestiame vicino ha mammelle più grandi (turgide)”. In inglese: “The crop is always greater in the lands of another, and the cattle of our neighbour are deemed more productive than our own”. O anche: “Crops are always more fertile in someone else’s fields, and the cattle next door has bigger udders”.

Da ciò si vede chiaramente che l’oggetto delle invidie storiche dell’abitante del Bel Paese non è l’erbetta; sono invece i frutti di cui il vicino “ingiustamente” gode.

Oso dire che se la mania del prato all’inglese, suscitatore di sterili invidie, dovesse attecchire in Italia al posto delle tradizionali, sane invidie italiane per l’orticello fecondo di frutti e qualche volta anche per la moglie e la figlia del vicino perché dotate di una sana bellezza, questa invidia vegetale comporterebbe un immiserimento del nostro bagaglio identitario, così ricco e fertile come attestato dalle parole del nostro grande Ovidio. Ma purtroppo, sul piano linguistico, l’immiserimento è già avvenuto.

Il “culto dell’erbetta”, torno a ripetere, ha assai poco a che vedere con l’Italia; Paese, dove a provocare le invidie tra vicini di casa e di campo – come abbiamo visto – non è mai stato il classico prato all’inglese ma erano la rigogliosità e la grossezza degli ortaggi e dei frutti, e la floridezza degli animali...

Com’è potuta avvenire questa trasformazione dell’abitante della penisola, mangiatore di spaghetti, risotti, polente, ossibuchi, e avido divoratore di frutta fresca e di verdure, in un ruminante anglofono bramoso della verde erbetta? Ve l’ho già spiegato: questa trasformazione è avvenuta in virtù della galoppante colonizzazione linguistica in atto nella penisola. La trasformazione, insomma, non è di natura antropologica ma di carattere puramente lessicale. A trionfare sono state le forti invidie a carattere linguistico rivolte al mondo americano.

Non paghi di aver adottato termini ed espressioni inglesi, quasi sempre usati a sproposito, gli italiani sono passati ad adottare anche i proverbi d’oltre mare. E così nella stessa maniera in cui nel parlare e nello scrivere dei nostri giornalisti “fare fiasco” è stato rimpiazzato da “fare flop”, “montepremi” da “jackpot”, “revisione della spesa” da “spending review”, “ovazione” da “standing ovation”, “tifoso” da “supporter”, la mutazione pro-USA del parlare e dello scrivere in Italia ha investito anche i proverbi. Non tutti però, penso infatti che dovremo ancora aspettare un bel po’ prima di veder adottato un equivalente italiano del virile ma troppo britannico “Nothing to fear but fear itself”, che prenda il posto dei nostri tremebondi “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, “Chi va piano va sano e va lontano”, “Chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni”, “Chi lascia la via vecchia per quella nuova, sa quel che lascia ma non quel che trova”. Aforismi dai quali traspare che l’atteggiamento abituale dell’abitante medio della penisola si ispira a prudenza e diffidenza verso gli altri e al timore di fare un salto nel buio.

I tanto diffidenti italiani, un tempo timorosi del salto nel buio, sono invece divenuti linguisticamente dei paracadutisti. Governo in testa, infatti, gli italiani si tuffano comicamente a pesce nel bailamme cacofonico degli anglicismi, senza curarsi della violenza che fanno alle proprie corde vocali e agli altrui timpani.

La triste conclusione: Ovidio, esiliato a Tomi dove è rimasto dolorosamente fedele a Roma, non sarebbe certamente orgoglioso, oggi, delle metamorfosi linguistiche degli italiani.

Claudio Antonelli




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sabato 16 novembre 2024

Dividere e sparpagliare "pari non sono"

 


Papà - domandò il figlio Rossano - c'è una differenza tra i verbi "dividere" e "sparpagliare"? Alcuni li usano indifferentemente ritenendoli sinonimi, altri, invece, dicono che sono verbi a sé stanti. A questo punto ho le idee confuse.

- Ottima domanda, tesoro mio. Sì, c'è una differenza, te la spiego con una storiella. C'erano una volta nel regno di Verbislandia due verbi ritenuti molto speciali: Dividere e Sparpagliare. 

- Ah, sembrerebbe interessante! Continua. 

- Dividere era un verbo nobile, veniva pari pari dal latino dividere, che significa "separare" o "distribuire in parti". Il suo compito era sempre stato quello di separare o distribuire le cose in modo ordinato ed equo, per essere imparziale. 

- E Sparpagliare? 

- Sparpagliare era più vivace e disordinato. Era considerato un bastardino perché la sua origine era incerta: probabilmente da un incrocio dei verbi latini dispergere e spargere, che significano "disseminare" o "distribuire in modo casuale". Sparpagliare amava creare un po' di confusione, spargendo le cose qua e là senza un ordine preciso. 

- Si può dire, in un certo senso, che Dividere era per l'ordine mentre Sparpagliare per la confusione? 

- Esattamente. Dividere era amante dell'ordine e della precisione. Quando veniva chiamato si assicurava che tutto fosse equamente distribuito. Se, per esempio, era chiamato per dividere una torta la tagliava in fette uguali per ogni persona. 

- E Sparpagliare? 

- Sparpagliare non amava le regole. Gli piaceva distribuire le cose in modo casuale. Come - durante il Natale - disseminare sul pavimento i regali destinati ai fanciulli. 

- Quindi erano totalmente diversi! 

- Sì, e la loro differenza si notò in un giorno di festa nel villaggio di Parola. Alcuni abitanti volevano distribuire dolci e giocattoli a tutti i bambini. Chiamarono, pertanto, Dividere e Sparpagliare perché li aiutassero. 

- E costoro cosa fecero? 

- Dividere prese in mano i dolci e con grande attenzione li distribuì in modo che ogni bambino ne avesse una quantità uguale. Tutti i bimbi, felici, lo ringraziarono per la sua equità. Poi fu la volta di Sparpagliare. Questi, con un sorriso furbo, prese i giocattoli, fortunatamente infrangibili, e li lanciò in aria, lasciandoli cadere dappertutto. I bambini corsero, ridendo, a raccoglierli. Ciò divertì tutti, anche se si creò un po' di confusione.

- Sembra, dunque, che entrambi abbiano fatto felici tutti i bambini del villaggio. 

- Sì, e gli abitanti di Parola impararono presto ad adoperare i due verbi, Dividere e Sparpagliare, nel modo corretto. Compresero che entrambi i verbi erano utilissimi, ma dovevano essere “chiamati in causa” nei contesti appropriati. Dividere per situazioni che richiedono ordine e equità, Sparpagliare per momenti di allegria e creatività. 

- Ho capito, papa! Ogni verbo deve essere adoperato nel giusto contesto. 

- Esatto, e usarli correttamente arricchisce il nostro idioma. E così, in quel regno favoloso, Dividere e Sparpagliare continuarono a vivere felici e rispettati, ognuno con il proprio stile unico, aiutando gli abitanti a esprimersi in modo chiaro e variegato. 

- Grazie, papà! Ora so quando usare, correttamente, "dividere" e "sparpagliare". Ne farò tesoro.


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Alla cortese attenzione dei paremiologi


Quando si divide troppo, si perde la via maestra (se ci si allontana troppo dalla strada principale, si rischia di perdersi).

Dove il fiume divide, la corrente è meno forte (quando si dividono i compiti o le responsabilità, il carico è più gestibile).

Chi divide per scelta, trova la sua strada (fare delle scelte consapevoli, anche se divergenti dal percorso comune, può portare a trovare il proprio cammino).

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Chi sparpaglia i semi, raccoglie i frutti sparsi (seminando in diverse direzioni, si ottengono risultati vari e distribuiti).

Sparpagliare il sapere, è seminare saggezza (diffondere la conoscenza è un modo per condividere e far crescere la saggezza).

Se sparpagli i tuoi sogni, il vento li porterà lontano (condividere i propri sogni con il mondo può far sì che si realizzino in modi inaspettati).






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