lunedì 24 marzo 2025

Quando le parole s'incontrano: àgape e àgave

 


In un tempo ormai lontano, nel villaggio incantato di Allegoria, vivevano due parole con nomi simili ma con storie molto diverse: Agape e Agave. Sebbene fossero spesso confuse dagli abitanti, ciascuna custodiva una propria essenza unica, radicata nelle origini della lingua e della vita.

A
gape, luminosa e accogliente, incarnava lo spirito della festa e della condivisione. Il suo nome proveniva dalla tradizione latina (agape), che indicava un “banchetto,” un’occasione speciale dove le persone si riunivano per celebrare ogni avvenimento, condividere il cibo e rafforzare i legami. Per Agape qualunque festa era un’occasione per unire il villaggio: lunghe tavolate adornate con fiori freschi, candele profumate e ogni genere di bontà, dal pane fragrante agli arrosti succulenti, fino ai dolci glassati di miele. Gli abitanti, felici, dicevano spesso: "Un’agape non è solo un convivio: è il cuore del villaggio che batte all’unisono."

D
all’altro lato del villaggio viveva Agave, una parola altrettanto affascinante ma legata alla forza della natura. Il suo nome, derivato dal latino (agave, che significava “splendida” o “ammirevole”), rappresentava perfettamente la pianta robusta e maestosa che prosperava nei terreni aridi. Con le sue foglie carnose e il suo cuore dolce, Agave era un dono prezioso: dalla sua linfa si otteneva un nettare prelibato, usato per dolcificare bevande e torte; le sue fibre venivano intrecciate per creare corde forti e utili. I contadini erano soliti dire: "La agave ci insegna che, anche nei luoghi più impervi, la natura sa darci meraviglie."

U
n giorno d’autunno, Agape e Agave si incontrarono, casualmente, lungo il sentiero del Mercato delle Parole. Curiosa e sempre alla ricerca di nuove ispirazioni, Agape disse alla sua quasi omonima: "Agave carissima, la tua dolce linfa potrebbe rendere speciale il banchetto che sto preparando per la festa patronale. Vuoi unirti a me?" Agave, lusingata, accettò di buon grado l’invito.

Q
uella sera, sotto un cielo trapunto di stelle, tutto il villaggio si radunò per il grande banchetto. Agape creò un dolce nuovo, preparato con il nettare di Agave: soffici frittelle immerse in una salsa dorata. Gli abitanti, incantati, applaudirono e il vecchio saggio del villaggio esclamò: "Questo dolce è la perfetta armonia tra la generosità di Agape e la magnificenza di Agave. È il simbolo di ciò che possiamo creare insieme."

D
a quella sera le due parole divennero inseparabili. Le feste di Agape celebravano la bellezza della condivisione, arricchite con la dolcezza di Agave. Tutte le volte che qualcuno, nel villaggio, usava la parola agape, c’era sempre, nell’aria, un sapore che richiamava la linfa della pianta, un ricordo della fusione perfetta tra festa e natura.









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Sottrarre - si presti attenzione all'uso corretto di questo verbo perché avendo due significati si costruisce in modo diverso. Nell'accezione di "rubare" richiede sempre la preposizione "a": sottrarre a uno lo stipendio; quando sta per "allontanare" può essere seguito sia dalla preposizione "a" sia dalla preposizione "da": non si sottrasse al / dal suo destino. Nell'aritmetica si adopera sempre la preposizione "da": sottrarre 7 da 15.


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Il “che” e la virgola

Il "che" - come si sa (o si dovrebbe sapere) introduce le proposizioni subordinate relative che, a loro volta, si dividono in "relative restrittive" e "relative esplicative". Le prime danno un' "informazione" indispensabile per precisare il significato della proposizione principale: non ho ancora restituito alla biblioteca il libro che avevo preso in prestito. In questo caso la virgola prima del che "interromperebbe" il significato dell'antecedente (principale); le seconde, le esplicative, forniscono un'indicazione "in piú", non strettamente necessaria per il significato della principale: domani telefonerò a un mio amico, che è appena tornato a casa dall'ospedale. Riassumendo. Nelle relative restrittive la virgola prima del che non è necessaria; in quelle esplicative, al contrario, è necessaria, se non obbligatoria.



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sabato 22 marzo 2025

Le "malelingue" o le "malalingue"? La norma parla chiaro. Quando l'uso sfida la grammatica

 

 La lingua italiana è un universo affascinante ma anche complesso, dove l'armonioso connubio di norme grammaticali e tradizione dà vita a parole e locuzioni che arricchiscono il nostro modo di esprimerci. Tra queste, emerge “malalingua”, che porta con sé una questione interessante riguardo al suo plurale: si deve dire ‘malelingue’, come largamente utilizzato e attestato nei vocabolari, oppure ‘malalingue’, seguendo le regole grammaticali?

S
econdo la grammatica della lingua italiana i nomi composti da un aggettivo e un sostantivo declinano il plurale in accordo con il sostantivo, si pluralizza, cioè, solo il sostantivo. La parola piattaforma, per esempio, composta da piatta (aggettivo) e forma (sostantivo), diventa al plurale ‘piattaforme’. Analogamente, nel caso di malalingua, formato da mala (aggettivo) e lingua (sostantivo), il plurale corretto dovrebbe essere ‘malalingue’. Questa regola non solo riflette una coerenza grammaticale, ma contribuisce anche a mantenere ordine e precisione nella lingua. Perché due pesi e due misure, dunque?

T
uttavia, nella pratica quotidiana, l'uso di ‘malelingue’ si è affermato come l’unico corretto. Si tratta di un fenomeno non raro nella lingua italiana, dove tradizione e diffusione possono talvolta prevalere sulla logica grammaticale. Possiamo ipotizzare che questa eccezione sia dovuta a un processo di cristallizzazione linguistica, in cui una forma popolare viene accettata a prescindere dalle regole da cui si discosta. Non è difficile immaginare che la sonorità o l'associazione immediata del termine con il concetto espresso abbiano giocato un ruolo importante.

Q
uesta discrepanza tra norma e uso comune suscita una domanda cruciale: fino a che punto l'evoluzione della lingua dovrebbe rispettare le sue regole? L'italiano, come tutte le lingue vive, si evolve costantemente, trasformandosi e arricchendosi di nuovi termini. Un'evoluzione priva di disciplina, tuttavia, rischierebbe di compromettere la chiarezza e la bellezza strutturale che rendono la nostra lingua tanto preziosa.

N
el caso specifico di malalingua forse è il momento di rivedere l'uso comune e di dare spazio alla forma ‘malalingue’, che non solo è coerente con le regole grammaticali, ma permette anche un recupero di precisione e ordine. La grammatica, del resto, non è un ostacolo, ma una guida che ci consente di comunicare in modo più chiaro ed elegante.

I
n conclusione, la scelta tra ‘malalingue’ e ‘malelingue’ non è solo una questione di grammatica, ma anche di sensibilità linguistica. Preferire la forma corretta non significa rinnegare la tradizione, ma piuttosto cercare di mantenerla in armonia con le regole che danno struttura e coerenza al nostro idioma, gentil sonante e puro, per dirla con  Vittorio Alfieri.

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La malalingua è un’ombra che segue, anche quando il sole splende.

Il veleno delle parole brucia ponti che il tempo non può ricostruire.

Chi sputa sentenze si ritrova in un deserto di silenzi.

Le parole cattive sono frecce senza mira, ma colpiscono sempre il cuore.


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venerdì 21 marzo 2025

Paventare o spaventare? Dipende... Un viaggio tra timori anticipati ed emozioni improvvise

 

 Le parole posseggono un potere straordinario: non solo comunicano, ma evocano immagini, emozioni e, talvolta, un intero universo di significati. Nel caso di "paventare" e "spaventare", ci troviamo di fronte a due verbi che, pur appartenendo alla stessa famiglia etimologica, parlano di storie diverse e complementari.

L'
origine latina di entrambi i verbi ci svela molto sulle loro sfumature. Il primo, "paventare", è pari pari il latino ‘paventare’, da ‘pavere’ (temere), connesso anche al sostantivo ‘pavor’, che significa "timore" e simili ed evoca un senso di paura intima e ‘anticipata’, spesso più riflessiva che concreta. "Spaventare", invece, affonda le sue radici in ‘expaventare’, una forma rafforzata che combina il prefisso ‘ex-’ (che indica "fuori" o "intensificazione") con paventare. In questo caso, si accentua l'idea di un'azione che provoca paura in modo diretto e immediato, quasi come un "tirare fuori" il timore, la paura.

Q
uesti percorsi etimologici si riflettono chiaramente nel loro uso contemporaneo. "Paventare" si riferisce a scenari che designano preoccupazione o timore, proiettati nel futuro. È un verbo che ci invita a riflettere su ciò che potrebbe accadere, spesso alimentando la nostra immaginazione o le nostre ansie. Immaginiamo, per esempio, un gruppo di amici che sta organizzando un'escursione. Uno di loro, scrutando il cielo grigio e minaccioso, dice: "Pavento che domani possa piovere." Qui non c'è un'azione immediata, ma un dubbio, un timore, una paura che nasce dalla percezione di un possibile rischio.

"S
paventare", al contrario, rappresenta l'emozione vissuta nel momento in cui il timore o la paura si ‘materializza’. È un verbo che descrive la reazione istintiva, spesso improvvisa, di fronte a qualcosa che incute timore. Si pensi a un bambino che passeggia tranquillo in un bosco. D'un tratto, un cervo salta fuori da un cespuglio: "Quel balzo improvviso lo ha spaventato." Il verbo cattura il senso di un evento che spezza la calma e provoca una reazione emotiva.

M
a per apprezzare meglio la forza di questi verbi, lasciamo che la fantasia prenda il volo. Immaginiamo di leggere un romanzo giallo. L’investigatore, immerso nell'oscurità di una vecchia casa, mormora tra sé: "Pavento che questo caso nasconda più segreti di quanto sembri." Poche righe dopo, un rumore improvviso spezza il silenzio e lo spaventa, coinvolgendo anche il lettore in un'esperienza di tensione. Qui vediamo come "paventare" crei un'atmosfera di attesa e ansia, mentre "spaventare" scateni una reazione rapida e intensa.

La bellezza di queste verbi, insomma, sta nella loro capacità di modulare le sfumature della paura. "Paventare" ci porta a riflettere, a soppesare il futuro con apprensione; "spaventare" ci travolge con l'immediatezza di un'emozione viscerale. I due verbi, complementari nel lessico e nell'immaginazione, ci ricordano che ogni parola è uno strumento prezioso, capace di arricchire e colorare il nostro modo di esprimerci. Non è, forse, questo il fascino delle parole? Renderci partecipi di un dialogo infinito tra pensieri, storie e sensazioni.



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giovedì 20 marzo 2025

C'è reale e... reale

 

 La nostra meravigliosa lingua madre è ricca di parole che riescono a racchiudere più significati in un unico termine (polisemìa), rendendola poliedrica e affascinante. Una di queste è “reale”. Tuttavia, ciò che spesso si ignora è che queste accezioni hanno natali diversi, pur convivendo armoniosamente nel nostro lessico quotidiano.

D
a un lato, reale è adoperato per descrivere ciò che è vero, concreto, tangibile, cioè che esiste effettivamente. Questo significato deriva dal latino ‘realis’, che indica qualcosa... "relativo alla cosa" (‘res’, in latino, significa proprio "cosa"). Quando diciamo, per esempio, "la sua paura è reale", mettiamo in evidenza il fatto che quella sensazione non è solo immaginata, ma è effettiva e percepibile. Allo stesso modo, nell'espressione "il problema è reale, non possiamo più ignorarlo", il termine serve a rimarcare l'urgenza e la concretezza della situazione. Anche in ambiti più astratti, come nel mondo virtuale, per esempio, si usa spesso questa parola per enfatizzare la somiglianza con la realtà concreta: questa simulazione sembra quasi reale.

D
all'altro lato, reale acquisisce un significato totalmente diverso quando si collega al mondo della monarchia, indicandone tutto ciò che si riferisce al re (o alla regalità). Questo utilizzo deriva dal latino ‘regalis’, che significa "del re" (‘rex, regis’ in latino è "re"). Qui il lemma in oggetto evoca immediatamente immagini di sfarzo e autorità. Frasi come "la famiglia reale parteciperà alla cerimonia" o "la guardia reale è stata schierata in occasione dell'evento" ci portano in un contesto in cui reale non è sinonimo di vero, ma rappresenta qualcosa che appartiene alla sfera regale.

Q
uesta duplicità di significato si riflette anche in modi di dire e usi figurati. Quando diciamo, per esempio, "è una preoccupazione reale", il termine designa una questione tangibile e concreta; ma se leggiamo una frase come "gli affreschi nel salone reale erano spettacolari", l'aggettivo ci catapulta direttamente in un mondo che odora di troni e teste coronate. La parola, insomma, si muove con disinvoltura tra il quotidiano e il sontuoso, tra il tangibile e il simbolico.

P
er concludere queste noterelle. Riflettere su un vocabolo come ‘reale’ ci permette di apprezzare la profondità della nostra lingua, capace di racchiudere “mondi linguistici distinti” in un solo termine. Ci sono altre parole che conosciamo, altrettanto poliedriche, che meritano la stessa attenzione? Forse è il momento di riscoprirle.

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Intercettazioni, via libera al limite di 45 giorni. Le opposizioni: “Immunità ai delinquenti”

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Per chi scrive meglio: immunità per i delinquenti (la norma dà l’immunità ai delinquenti).



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mercoledì 19 marzo 2025

Evocare: dall'arte della suggestione all'abuso quotidiano

 

 Nell’immenso Regno delle Parole, un bel villaggio prosperava in armonia con il linguaggio. Al centro si ergeva la Torre del Vocabolario, dove maestro Evòcus, il custode delle Parole Perdute, vigilava su vocaboli preziosi, come "evocare". Molto spesso, purtroppo, si rattristava perché vedeva che molte parole, un tempo ricche di significato, venivano travisate o svuotate da un uso improprio.

Un giorno, in pieno inverno, arrivò nel villaggio una delegazione di studiosi provenienti dal Regno dei Vocabolari. Portavano con sé l’ultima edizione del loro famoso dizionario. "Abbiamo grandi novità editoriali!" annunciarono con entusiasmo. Maestro Evòcus inforcò gli occhiali e sfogliò il volume. A un certo punto, con sgomento, lesse: Evocare: 'chiamare', 'convocare', oppure 'suggerire vagamente'.

"Ma cosa significa questo?" domandò, inorridito, il custode. "Come possono i vocabolari attestare un uso improprio?"

Uno degli studiosi tentò di rassicurarlo, spiegandogli: "Il nostro compito, cortese amico, non è solo descrivere la lingua com’è, ma anche registrare come viene adoperata. Anche se gli usi sono sbagliati, se molte persone li seguono, finiscono con l’essere accettati e messi a lemma."

Evòcus, per nulla convinto, scosse la testa. "Ma così si rischia di perdere la vera magia di parole come evocare! Questo verbo non dovrebbe essere ridotto a un sostituto generico di chiamare o suggerire e simili. È un temine che richiama emozioni, immagini, ricordi. Svuotarlo di questo significato significa impoverire la lingua stessa."

Per mettere in evidenza la sua preoccupazione fece alcuni esempi. "Una volta un politico, durante una campagna elettorale, disse: ‘Evoco tutti i miei concittadini a partecipare alla riunione.’ Ma non stava evocando un bel niente. Voleva semplicemente convocare una riunione. Raccontò anche di un annuncio pubblicitario che recitava: ‘Questa fragranza evoca il lusso assoluto.’ Ma non c’era nulla di evocativo: era solo una strategia per vendere."

Uno degli abitanti, amante del buon uso della lingua, intervenne: "Maestro, come possiamo fare, allora, per usare evocare nel modo corretto?"

"Semplicissimo," rispose Evòcus. "Pensa alle emozioni e alle immagini che vuoi risvegliare. Per esempio, potresti dire: ‘Questo quadro evoca il silenzio di una notte stellata.’ Oppure: ‘Il canto degli uccelli, che la mattina ti sveglia, evoca un senso di libertà.’ In questi casi il verbo evocare non si limita a descrivere: fa nascere qualcosa di vivo nella mente e nel cuore di coloro che ascoltano."

Per aiutare il villaggio a comprendere meglio il significato proprio del verbo, maestro Evòcus organizzò una grande festa delle parole, dove i partecipanti presentarono esempi dell’uso corretto di "evocare". Una giovinetta: ‘La musica dell’arpa evoca immagini di antichi castelli e nobili dame.’ Un pittore aggiunse: ‘Il contrasto delle luci e delle ombre in questo quadro evoca una malinconia profonda.’

Alla fine della festa, maestro Evòcus, soddisfatto, concluse: "Vedete, amiche e amici? Evocare non è solo una parola: è un ponte tra il linguaggio e l'immaginazione. Proteggerne il vero significato non è solo una questione linguistica, ma anche culturale.

Pur riconoscendo l’autorevolezza dei vocabolari, gli abitanti impararono che era loro responsabilità adoperare le parole con rispetto e precisione. La Torre del Vocabolario divenne, così, un luogo non solo di studio, ma anche di ispirazione, dove le persone potevano scoprire la bellezza nascosta delle parole.












 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Live

Meloni: il piano di riarmo Ue è roboante. Il Senato approva la risoluzione di maggioranza

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In buona lingua italiana: reboante. Alcuni vocabolari attestano, come seconda occorrenza, “roboante”, ma a nostro avviso non sono da seguire. La sola forma corretta è reboante, dal latino “reboante(m)”, participio presente di “reboare”, rimbombare. Non esiste un prefisso "ro-".



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martedì 18 marzo 2025

Evadere: un verbo in cerca di giustizia

 

 Viveva anni e anni or sono, in un regno lontano, Grammatica, un verbo di nobile origine latina: evadere. Discendente di una stirpe antichissima, era composto dal prefisso "e-" (fuori) e dal verbo "vadere" (andare). La sua missione, fin dai tempi più remoti, era chiarissima: indicare il gesto eroico di chi sfuggiva a una situazione o a un luogo di prigionia. Era il verbo delle fughe epiche e delle evasioni rocambolesche.

U
n giorno, nel regno, si diffuse una strana usanza: le persone chiedevano a Evadere di occuparsi di compiti che non gli competevano. "Evadere una pratica!", dicevano, consegnandogli scartoffie varie. "Evadere il fisco!", dichiaravano, con la speranza di sottrarsi al pagamento dei tributi reali. Evadere si sentiva confuso e fuori luogo. Lui, il simbolo per eccellenza del coraggio e della libertà, doveva ora occuparsi di compiti così... prosaici?

R
isoluto a mettere ordine, andò a chiedere consiglio alla sua vecchia maestra Etimologia, una saggia figura custode delle radici e dei significati autentici delle parole. La maestra, dopo averlo ascoltato con molta attenzione, sorrise e disse: "Mio caro ex alunno, tu sei nato per rappresentare l'atto di uscire o sfuggire. Quando qualcuno evade o tenta di evadere dal carcere o dal manicomio, o da qualunque luogo in cui è rinchiuso, tu agisci nel pieno del tuo significato. Devo confessarti, però, una cosa che mi addolora, e non poco: i vocabolari del regno, volendo assecondare le abitudini linguistiche delle genti, hanno finito con il registrare anche gli usi non canonici, come 'evadere una pratica' o 'evadere il fisco'. Ciò non significa, tuttavia, che siano i tuoi significati autentici e, diciamo pure, legittimi."

E
vadere, lì per lì, si sentì un po’ tradito, dopo le ultime parole della sua vecchia insegnante. Ma la saggia Etimologia lo consolò: "Ricorda, mio caro, che anche se gli usi si evolvono, le tue radici rimangono ben salde. È tuo compito primario educare le genti e mostrare loro l’importanza della precisione linguistica."

A
ccomiatatosi dalla saggia maestra, Evadere organizzò lezioni e spettacoli per far riscoprire ai cittadini la sua vera natura, pronunciando frasi tipo: l'eroe riuscì a evadere dal castello sorvegliato da draghi; il prigioniero escogitò un piano per evadere dalla cella buia.

C
on molta pazienza spiegava loro che per le pratiche burocratiche era meglio dire "sbrigare", e per il fisco, sebbene moralmente discutibile, esistevano termini più appropriati come "eludere" o "frodare". Nonostante i dizionari avessero accettato gli usi estesi, lui invitava le genti a riflettere sull'importanza di conservare la lingua ricca e precisa.

C
on l’andar del tempo, gli abitanti di Grammatica impararono a rispettare Evadere e ad adoperarlo correttamente. E così, tutte le volte che qualcuno riusciva a sfuggire una situazione difficile o pericolosa, Evadere veniva celebrato come il verbo che portava con sé un soffio di libertà.















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lunedì 17 marzo 2025

Perché e poiché, che differenza v'è?

 

 “Perché” e “poiché” molto spesso vengono adoperati indifferentemente, ma hanno “ruoli linguistici” ben distinti e chi ama il bel parlare e il bello scrivere deve tenerne conto. Vediamo, dunque.

C
ominciamo con “perché,” che si distingue per la sua flessibilità: può essere sia una congiunzione sia un avverbio interrogativo. In funzione di congiunzione introduce proposizioni causali o finali, sottolineando un motivo o uno scopo. Qualche esempio: non sono andato al cinema perché ero troppo stanco. (Causale: la stanchezza giustifica la decisione); sta risparmiando perché vuole comprare una nuova automobile. (Finale: lo scopo è l’acquisto dell’automobile).

M
a è come avverbio interrogativo che “perché” mette in luce un’altra delle sue anime; è adoperato, infatti, per porre domande dirette o indirette. In questo ruolo può essere spesso sostituito da “come mai,” un’espressione dal tono più colloquiale e spesso più curiosa. Alcuni esempi: perché sei arrivato in ritardo? / Come mai sei arrivato in ritardo? (Domanda diretta); non capisco perché abbia cambiato idea. / Non capisco come mai abbia cambiato idea. (Domanda indiretta).

L’
uso di “come mai”, possiamo dire, dà un tocco di leggerezza o persino di sorpresa, mentre “perché” resta più neutro e versatile. Vediamo la sfumatura tra ‘perché’ e ‘come mai’. Una madre potrebbe dire al figlio “perché hai mangiato tutti i biscotti?”, se è curiosa di sapere il motivo; ma un tono più affettuoso e scherzoso potrebbe emergere con “come mai hai divorato tutti i biscotti?”

P
assando a “poiché,” troviamo un termine che eccelle per eleganza e sobrietà, limitato al ruolo di congiunzione. Si adopera esclusivamente per spiegare una causa, soprattutto in contesti formali o letterari: poiché non mi sentivo bene, ho deciso di restare a casa. (Causa del rimanere a casa); il progetto è stato approvato, poiché tutti lo ritenevano valido. (Spiega il motivo dell’approvazione).

“P
oiché” si presta, inoltre, in alcune situazioni particolari in cui il tono del discorso vuole essere raffinato e privo di ambiguità. A differenza di “perché” non può mai essere ambiguo e non suscita domande: il suo fine è solo il chiarire e l’argomentare.

I
n sintesi, mentre “perché” si adatta a molteplici funzioni e contesti, “poiché” è una scelta più specifica, ideale per esprimere causalità in un registro di tono elevato.  


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Filare il discorso fino al capo

Ecco un modo di dire, poco conosciuto, che si tira in ballo quando si vuole sottolineare l’ “arte” di costruire un discorso (o uno scritto) con coerenza e armonia. L’espressione richiama l’immagine del filare la lana o la seta, un processo che richiede pazienza, attenzione e maestria, portando il filo a compimento (al capo) senza mai spezzarlo. Allo stesso modo, quando qualcuno "fila il discorso fino al capo," riesce a condurre una narrazione o un ragionamento senza lasciare niente di sospeso, mantenendo un filo logico dall’inizio alla fine.













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domenica 16 marzo 2025

Promanare, un verbo maltrattato

 


C’era una volta, tanti, tanti anni fa, in un villaggio sperduto fra verdi colline e boschi ombrosi, un piccolo ruscello che sgorgava dolcemente da una sorgente nascosta fra le rocce argentate. Quell’acqua limpida aveva una luce tutta sua: scintillava come diamanti al sole e mormorava storie antiche nei suoi flussi. Gli abitanti del villaggio, rapiti dalla purezza di quell’acqua, si radunavano spesso attorno alla fonte per ammirarla. Ogni volta che tornavano a casa, con i secchi colmi, sussurravano tra loro: “La vita sembra proprio promanare da questa fonte. È il cuore pulsante del nostro villaggio.”

I
l verbo promanare, infatti, proprio come il suo antenato latino ‘promanare’ (composto dal prefisso ‘pro-’, avanti, e ‘manare’, “defluire, scorrere fuori”), richiamava immagini potenti e naturali: sgorgare, fluire, emergere con delicatezza e spontaneità, proprio come il dolce fluire del ruscello.

P
assarono gli anni, e come accade in tutte le storie, anche in questo piccolo villaggio qualcosa cambiò. La vita sembrava scorrere più in fretta, e con il tempo il significato di molte parole cominciò a confondersi. Fu proprio il vanitoso banditore del villaggio a portare scompiglio: un giorno, con voce stentorea, annunciò nella piazza gremita: “Una grande notizia è stata promanata dal castello!” La folla si guardò attorno smarrita, confusa, ma nessuno osò contraddire il messaggero. E così, giorno dopo giorno, il verbo promanare iniziò a essere maltrattato, piegato a significare “divulgare”, “diffondere” e altre azioni che non gli appartenevano. Il povero promanare si sentì tradito, un ruscello strappato dalle sue radici e costretto a scorrere in terreni aridi e sconosciuti.

F
u allora che intervenne il vecchio maestro del villaggio, un uomo saggio dai capelli bianchi come la neve, i cui occhi sembravano riflettere ogni stagione vissuta. Con un cenno della mano, radunò tutti nella grande piazza, proprio sotto l’antico albero di querce. “Amici miei carissimi,” iniziò con un tono pacato ma intriso di forza, “il verbo promanare non è un araldo che diffonde notizie. È il canto puro di una sorgente che sgorga dalla profondità più autentica dell’essere. Non è clamore, ma quiete che scorre.”

P
oi, per essere più chiaro, proseguì con alcuni esempi: “La pace promanava dai loro cuori, sinceri e colmi di bontà.” (Promanare qui dipinge qualcosa che nasce spontaneamente dall’anima, come il calore del sole che illumina senza sforzo); “Dalla grotta promanava un’aria fresca e carica di mistero.” (Promanare descrive l’emissione naturale, fluida e incontaminata dell’aria.); “L’antica saggezza promanava dalle sue parole, serene e profonde.” (Qui il verbo celebra ciò che si sprigiona naturalmente, come un dono dallo spirito.)

I
nfine, con un sorriso bonario e un bagliore negli occhi, concluse: “Se volete condividere o diffondere notizie, usate verbi che fanno alla bisogna, come divulgare, trasmettere o comunicare. Ma ricordate che promanare è il verbo della sorgente, del fluire spontaneo e sincero. Non dimentichiamo mai ciò che rende la nostra lingua così ricca e preziosa.”

L
a lezione del saggio maestro fu come una pioggia primaverile su campi aridi: risvegliò le menti e i cuori degli abitanti, restituendo, altresì, al verbo promanare la sua essenza più pura. E così, nel villaggio le parole continuarono a essere celebrate con la stessa devozione con cui si venerava la sacra fonte. E da quella fonte, eterna e luminosa, continuava a sgorgare non solo acqua, ma anche saggezza.



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sabato 15 marzo 2025

Il pronome allocutivo


D
ue parole sull’uso corretto dei pronomi allocutivi perché in un mondo dove ogni sfumatura del linguaggio può fare la differenza, i pronomi allocutivi emergono come strumenti affascinanti che modellano le nostre conversazioni quotidiane. Il pronome allocutivo, usiamo il singolare, prende il nome dal latino "allocutio," che significa "discorso rivolto a qualcuno," e riflette il grado di cortesia, rispetto e formalità che l'oratore o lo scrivente desidera esprimere.

In italiano i suddetti pronomi, torniamo al plurale, si dividono principalmente in due categorie: quelli di cortesia e quelli familiari o informali. Quelli di cortesia, come "Lei," non sono solo un modo per mostrare rispetto, servono anche per mantenere una distanza sociale che, in molte situazioni, è fondamentale. Si pensi, per esempio, a una riunione di lavoro o a un incontro formale: l'uso di "Lei" non è solo una questione di galateo, ma anche un segno di professionalità e attenzione.

I
pronomi familiari o informali, al contrario, come "tu," ci permettono di avvicinarci, di creare legami e di stabilire un terreno comune. Immaginiamo una conversazione con un amico di lunga data o una chiacchierata con un familiare: il "tu" diventa un ponte che ci unisce, instaurando un rapporto di fiducia e confidenza.

E
cco dove entra in gioco la magia grammaticale: l'accordo dei pronomi allocutivi. Un aspetto particolarmente interessante è il loro accordo grammaticale. In italiano il pronome di cortesia "Lei" viene considerato grammaticalmente di genere femminile, nonostante si possa adoperare per rivolgersi a persone di ambi i sessi. Ciò porta a costruzioni grammaticali che, a prima vista, potrebbero sembrare insolite. Quando, per esempio, ci si rivolge a un uomo con il pronome di cortesia, si dirà "Giovanni, Lei è buono" e non "Giovanni, Lei è buona," anche se "Lei" è femminile. Questo avviene perché l’aggettivo "buono" si accorda con il genere del destinatario.

Questo principio si applica oltre che agli aggettivi anche alle altre parti del discorso che seguono il pronome allocutivo: "Giovanni, Lei è stato molto bravo" e non "Giovanni, Lei è stata molto brava," anche se il pronome "Lei" suggerirebbe un accordo al femminile.

Una particolarità interessante riguarda l'accordo quando nel contesto è presente il sostantivo "persona". In questo caso quando ci si riferisce a un uomo accompagnato dal sostantivo "persona", l'accordo degli aggettivi segue il genere del sostantivo "persona," che è femminile. Si dirà, quindi, "Giovanni, Lei è una persona molto buona." In questo contesto l'aggettivo "buona" si accorda con il sostantivo "persona" e non con Giovanni. Questo esempio dimostra come l'accordo possa variare non solo in base al genere del pronome allocutivo, ma anche in relazione al contesto e ai sostantivi a cui si riferiscono.

V
a da sé che quando si usa il pronome "Lei" per rivolgersi a una donna, l'accordo avviene secondo le normali regole: "Maria, Lei è buona" e "Maria, Lei è stata molto brava," dove "buona" e "brava" si accordano, ovviamente, con il genere femminile.

Questo meccanismo di accordo può sembrare complesso a chi non è abituato a considerare il genere del destinatario nella formazione delle proposizioni, ma è un elemento fondamentale della lingua italiana. Ciò riflette l'importanza del contesto sociale e della relazione tra gli interlocutori nella comunicazione.

I
pronomi allocutivi, insomma, non sono solo parole, ma finestre che ci permettono di intravedere e comunicare le nostre intenzioni, le nostre emozioni e il nostro rispetto verso gli altri.

















(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


venerdì 14 marzo 2025

Piccante? No, spiritoso

 

 Una volta, in un piccolo villaggio immerso nelle colline  francesi, viveva un aggettivo dal nome... Piccante. Costui era molto orgoglioso delle sue origini e del suo nome, che derivava da "piquant", participio presente del verbo "piquer", che significa piccare o pungere. E questo aggettivo, pur essendo barbaro, fu accolto nel lessico italiano.

Si sentiva, Piccante, molto, molto speciale quando veniva usato nel suo significato proprio. Adorava essere accostato a salse e piatti che lasciavano una piacevole sensazione di calore sulla lingua di chi li assaggiava. Tutti parlavano di salse piccanti, zuppe piccanti e persino di formaggi piccanti, e Piccante, orgoglioso, sorrideva sempre di fronte a queste descrizioni.

C’
era un altro aspetto, tuttavia, della vita di Piccante che lo infastidiva un po'. A volte, le persone usavano il suo nome figuratamente per designare qualcosa di pungente, spiritoso o arguto. Questo lo faceva sentire fuori luogo, come un ingrediente nel piatto sbagliato. "Perché non adoperano semplicemente 'pungente', 'spiritoso', 'arguto' o aggettivi simili? naturalmente secondo il contesto", si chiedeva Piccante. "Sarebbe più corretto e logico."

U
n pomeriggio di primavera, mentre rifletteva, passeggiando, su questa questione, Piccante incontrò la saggia vecchia ‘aggettivologa’ del villaggio, madame La Langue. Ne approfittò per chiederle un suo autorevole consiglio su come poteva far capire alle persone l'importanza di adoperare gli aggettivi corretti nel contesto giusto. Madame La Langue non si fece pregare, con il suo solito sorriso gentile, rispose: "Carissimo amico Piccante, la lingua è un giardino vasto e variopinto. Ciascuna parola ha il suo posto e il suo scopo, ma a volte le persone amano giocare con i vocaboli e trovare nuovi modi per esprimersi. È importante, tuttavia, ricordare che la chiarezza e la precisione sono fondamentali per una comunicazione efficace. Adoperare 'piccante' in senso figurato può confondere e offuscare il vero significato del termine."

P
iccante rifletté, a lungo, su queste parole e decise di intraprendere una missione al fine di educare gli abitanti del villaggio sull'importanza dell'uso appropriato degli aggettivi. Cominciò narrando una favola che parlava di un episodio "spiritoso" e non "piccante", dimostrando come l'uso degli aggettivi appropriati poteva rendere il racconto più chiaro e piacevole per tutti.

E
così, una sera di fine estate, durante una sagra, Piccante organizzò una piccola rappresentazione teatrale. Gli abitanti si riunirono in piazza, proprio come si fa durante le feste di paese, per godersi lo spettacolo. Con l’ausilio degli altri aggettivi, Piccante mise in scena una storia divertente e coinvolgente. L'odore delle pizze appena sfornate e del pane croccante riempiva l'aria, mentre i bambini, con i gelati in mano, si rincorrevano felici.

D
urante lo spettacolo, Piccante sottolineò l'importanza di adoperare il suo nome nel contesto giusto. Disse, senza mezzi termini, che sebbene fosse lusingato dall'uso figurato, era fondamentale mantenere la chiarezza nel linguaggio. Gli abitanti impararono, così, ad apprezzare l'importanza di adoperare gli aggettivi giusti nel... giusto contesto. Piccante si sentì, finalmente, compreso e soprattutto rispettato. Continuò a vivere felice e soddisfatto, svolgendo il suo ruolo con chiarezza e precisione, ricordando sempre che, a volte, un po' di ‘piccantezza’ può dare un tocco speciale alla vita, ma la chiarezza è ciò che rende tutto più gustoso.











(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)