sabato 31 gennaio 2015
Raddoppiamento (o rafforzamento) sintattico
Abbiamo visto, dunque, che la grafia corretta di "sennonché" è con due "n" perché il "se" richiede il cosí detto raddoppiamento sintattico. Vediamo, ora, sia pure succintamente, quali sono i termini che lo richiedono: a) tutti i vocaboli che lo producono nella scrittura allorché entrano nella formazione di termini composti (a, che, da, e, fra, o, se, su, come, per esempio, "accanto", "abbasso", "suddetto", "seppure"); b) le parole che terminano con l'accento scritto; c) tutti i sostantivi, aggettivi, e pronomi tonici che hanno accento proprio e contengono una sola vocale (tu, tre, re, blu, gru). Vediamo, ora, perché questo fenomeno linguistico si chiama "raddoppiamento sintattico o fonosintattico". Perché è un "fenomeno" di fonetica sintattica, appunto. Leggiamo dal vocabolario Gabrielli in rete: «fenomeno fonetico proprio della lingua italiana, spec. delle regioni centro-meridionali, consistente nel rafforzamento di alcune consonanti semplici in inizio di parola, pronunciate doppie quando si trovano dopo altre parole terminanti per vocale: ierisséra, bellommìo, ammàno». La "d" di Dio, in questo contesto, è un caso particolare in quanto si pronuncia sempre rafforzata a prescindere dalla parola che la precede. A questo proposito si presti attenzione alla "a", non si confonda, cioè la "a", prefisso (arrivederci, per esempio) con la "a" privativa, che ha il compito di negare senza affermare il contrario e non ammette il raddoppiamento della consonante iniziale del vocabolo cui si unisce: apolitico, amorale. Si eviti anche il deleterio "vezzo" di raddoppiare la consonante dopo il prefisso "di"; non si scriva, dunque, "dippiú", ma "dipiú" (o "di piú"). Ciò vale anche per "dinanzi", che molti scrivono, erroneamente, "dinnanzi", probabilmente per un accostamento analogico con "innanzi" il cui rafforzamento è apparente perché la doppia "n" risulta dalla fusione di "in" e della locuzione latina "in antea" già contratta in "nanzi" (in+in antea=in nanzi=innanzi). "Dinanzi" deriva, invece, dalla fusione di "di" e di "nanzi").
giovedì 29 gennaio 2015
A proposito del "senonché"
Riportiamo
la risposta dei responsabili del sito "Treccani" a proposito del 'senonché':
Gentile Utente,
vero. Il Vocabolario
è più tradizionalista. Come si sa, in fonosintassi dopo il monosillabo se
si pronuncia intensa la consonante seguente. Ciò, in casi di univerbazione grafica,
dovrebbe essere segnalato con l'adozione della consonante doppia: sennonché,
dunque, dall'originaria polirematica se non che (forma ammessa). La Grammatica
tiene conto senz'altro più dell'uso, da sempre molto sbilanciato verso
l'infrazione della norma tradizionale. Basti controllare nell'archivio telematico del «Corriere della sera» (verifica del 27 gennaio 2015): dal 1992 a oggi, nelle pagine del quotidiano si reperiscono 882 occorrenze di senonché, 771 di se non che e soltanto 215 di sennonché. Chi scrive codesta nota, continuerà a scrivere sennonché, per sua consuetudine e fedeltà alla resa del raddoppiamento fonosintattico in grafie unite, ma non si scandalizzerà di fronte alla grafia senonché.
In ogni caso, grazie a chi ci ha segnalato il disallineamento parziale tra le due opere.
La ringraziamo per la
sua gentile attenzione e le inviamo i nostri più cordiali saluti
Segreteria Redazione
Treccani Online
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Alcune considerazioni.
La grammatica - a nostro avviso - è tradizionalista, non il vocabolario
che si limita a registrare i vocaboli in uso. La stampa non può essere presa
come esempio di "buona lingua". Ci lascia molto perplessi, inoltre, quel "codesta" e il passaggio dal "chi" (indefinito) al "la" (lei, definito).martedì 27 gennaio 2015
Attenti al "senonché"
Una persona che è in dubbio sulla corretta grafia della congiunzione "sennonché" (una o due "n") e cerca chiarimenti consultando il sito della "Treccani" resta interdetta: la grammatica dà una versione, il vocabolario un'altra.
La grammatica italiana (2012)
SENNONCHÉ, SENONCHÉ O SE NON CHE? Sono da considerarsi corrette tutte e tre le grafie: sennonché (con ➔univerbazione e ➔raddoppiamento sintattico), senonché (con univerbazione, ma senza raddoppiamento), se non che (con grafia separata) Sennonché vi sono le seguenti criticità (...) Senonché in tutto questo non s’è più visto un motivo di condanna (M. Calvesi, Caravaggio) Se non che, in Italia ormai non importa (...).
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Sennonché Vocabolario on line
sennonché (o se non che ‹se nnoṅ ké›; non corretto senonché) cong. – Congiunzione subordinativa con valore eccettuativo, fuorché, eccetto che (in questo senso è letter.): io non potrei per te altro adoperare se non che ... metterti là dove ella fosse (Boccaccio). Talora (nella lingua ant.) sta per se non è che, se non fosse che (con questo sign., solo nella grafia divisa se non che): E se non ch’al desio cresce la speme, I’ cadrei morto, ove più viver bramo (Petrarca). Come cong. coordinativa (avversativa), ma, però: Luci beate e liete Se non che ’l veder voi stesse v’è tolto (Petrarca); ci sarei venuto volentieri, sennonché all’ultimo momento son dovuto partire; stavo per uscire, s., proprio in quel momento, squillò il telefono. Sempre con funzione coordinante (e nella sola forma se non che), altrimenti, in caso contrario (ant.): noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa (Boccaccio).
domenica 25 gennaio 2015
Che pollèbro!
Cortese dott. Raso,
seguo le sue "noterelle" fin dai tempi del "Cannocchiale": leggendola ho imparato molte cose, soprattutto sono riuscito a penetrare nei "segreti" della nostra lingua. Grazie di cuore. Le scrivo, sperando in una sua risposta, perché leggendo un vecchio libro, rinvenuto rassettando la soffitta, mi sono imbattuto in un vocabolo mai sentito: pollèbro. Ho consultato tutti i vocabolari in mio possesso (anche quelli in rete), ma del termine nessuna traccia. Saprebbe dirmi il significato del vocabolo "incriminato"? Grazie in anticipo e un doppio grazie per la sua meritoria opera.
Giovanni F.
Moncalieri
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Caro amico, grazie per le sue parole di apprezzamento; fa sempre piacere vedere che la "fatica" non è stata vana. Quanto alla sua domanda, ha ragione: la parola citata è stata relegata nella soffitta della lingua in quanto non piú in uso. Si adopera, anzi si adoperava il termine "pollèbro" per definire un uomo dappoco, un buonannulla: non ti rivolgere a Osvaldo, è un pollèbro! Il vocabolo, comunque, si trova qui.
venerdì 23 gennaio 2015
Ratire
Ecco un'altra parola, per la precisione un verbo, che ci piacerebbe fosse "riesumata" e messa di nuovo a lemma nei vocabolari dell'uso: ratire. Il verbo in questione sta per "morire di dolore"(fisico o morale): Giuseppe non ha retto al dolore per la perdita della sua amata ed è (ha) ratito un mese fa.
Si veda anche questo collegamento perché l'argomento è stato già trattato.
Si veda anche questo collegamento perché l'argomento è stato già trattato.
mercoledì 21 gennaio 2015
Il frac
Dopo la livrea, due parole, due, sul frac. Cominciamo con il dire, innanzi tutto, che la sola grafia corretta è con la "c": frac, non "frak" o "frack". La "storia" di questo abito non è ancora del tutto chiarita: la voce è francese ma la provenienza - sembra - inglese: "frock" (si badi bene, con la "o"), che originariamente indicava una veste maschile a falde indossata da persone che andavano a cavallo. Si ritiene, anzi, che fosse usata dai militari (non solo dai "cavalieri" ma anche dai fanti): i due bottoni che ornano questo indumento, ancor oggi, all'altezza delle reni sarebbero la "prova provata"; servivano, infatti, a tenere le falde rialzate per permettere di camminare piú speditamente. Oggi, con il termine frac si intende un "abito maschile da cerimonia, nero, con giacca corta davanti e prolungata dietro in due falde lunghe e sottili". Aggiungiamo, per gli amanti (o amatori) della "purezza linguistica", che l'Accademia della Crusca aveva proposto di sostituire il termine barbaro "frac" con "marsina", ritenuto vocabolo piú schietto. Ma marsina non viene dal nome del maresciallo di Francia Jean de Marsin, che indossava il frac prima ancora che fosse coniato questo termine? Ma tant'è. Scherzi della lingua.
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Si presti molta, molta attenzione all'uso corretto dell'aggettivo "salace" perché non significa - come numerose grandi "firme" del giornalismo ritengono - "arguto", "spiritoso", "pungente","ingegnoso" "mordace"e simili. L'aggettivo in questione vale "osceno", "eccitante", "scurrile", "piccante", "lascivo", "lussurioso", "libidinoso". Una prosa salace non è - come ci è capitato di leggere secondo le intenzioni di un critico letterario - una prosa "arguta", sibbene una prosa oscena, scurrile.
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Si presti molta, molta attenzione all'uso corretto dell'aggettivo "salace" perché non significa - come numerose grandi "firme" del giornalismo ritengono - "arguto", "spiritoso", "pungente","ingegnoso" "mordace"e simili. L'aggettivo in questione vale "osceno", "eccitante", "scurrile", "piccante", "lascivo", "lussurioso", "libidinoso". Una prosa salace non è - come ci è capitato di leggere secondo le intenzioni di un critico letterario - una prosa "arguta", sibbene una prosa oscena, scurrile.
martedì 20 gennaio 2015
La livrea
Ci sembra superfluo ricordare che nel corso dei secoli, per non dire dei millenni, l'uomo (e la donna, naturalmente) ha sempre provveduto a coprirsi il corpo con quello che noi chiamiamo "abito" o "vestito"; e piú è avanzato nel "grado" di civiltà piú questa sua copertura ha mirato a perfezionare e, perché no?, ad abbellire. L'uomo delle caverne, il cosí detto cavernicolo, nato nudo, naturalmente, ha subito sentito la necessità di coprirsi per difendersi dalle intemperie (il "comune senso del pudore" non era stato ancora "scoperto"). Il vestito, quindi, nato per necessità è andato via via perfezionandosi nel corso dei secoli, fino ai tempi moderni, sia pure con alternanze di fogge secondo il gusto dei singoli e la "moda" ma soprattutto come affermazione della propria personalità. L'abito, infatti, trae il nome dal latino (sempre lui!) "habitus", dal verbo "habere" (avere), e ha come prima accezione quella di "aspetto che un uomo ha", "apparenza esteriore propria di un individuo", quindi "modo di comportarsi", "modo di essere". Non a caso si dice che "l'abito non fa il monaco" (per noi lo fa, eccome! ma questo è un altro discorso). Ma vediamo come è nato l'abito, un tempo di gran moda: la livrea. Oggi gli uomini in livrea si contano - forse - in qualche ministero o sul portone di qualche famiglia nobile ancora ancorata alla moda degli antenati. Un tempo, invece, la livrea era diffusissima e non c'era famiglia di rango che non avesse per tradizione la sua o - addirittura - non ne inventasse una sua, secondo i gusti del signore, padrone di casa. La livrea era, insomma, l' "abito-marchio" di una casa: si faceva indossare ai cortigiani e a tutto il personale del palazzo (di rango, naturalmente). Molto spesso, un'occhiata alla livrea - attraverso i colori - permetteva di distinguere questa o quella famiglia illustre. Questo abito, dunque, ebbe i suoi natali in Francia (e come poteva essere altrimenti?) e ben presto si diffuse, durante il Medio Evo, in tutte le corti d'Europa. In quel periodo storico, i sovrani, i grandi feudatari, i principi diedero il "via" a una bellissima tradizione: in determinati periodi dell'anno - a Natale, per esempio - il re, il "padrone" di casa, chiamava a sé tutti i dipendenti e faceva loro dono dell'abito "ufficiale", confezionato nei colori del casato e nella foggia caratteristica richiesta da questo o quel particolare compito che essi avevano nell'ambito del palazzo. I cortigiani, a loro volta, erano tenuti a seguire - anche se "obtorto collo" - la magnanimità del sovrano distribuendo, in versione piú economica, abiti "gratis" a tutto il personale alle loro dipendenze. Questi abiti erano chiamati "robes livrées", letteralmente "abiti forniti" (dal padrone, sottinteso). "Livré" è il participio passato del verbo (francese) "livrer" (dare, fornire, consegnare... regalare). Con il trascorrere del tempo e attraverso l'uso parlato - come sovente accade in questioni di lingua - il popolo accorciò l'espressione e disse semplicemente "livrée". Il vocabolo, oltrepassate le Alpi, è giunto a noi adattato in "livrea".
sabato 17 gennaio 2015
L'armadio
Numerosi amici lettori ci hanno scritto, in
privato, "rimproverandoci" di aver trascurato - da un po' di tempo -
di parlare, da questo portale, dell'etimologia di alcune parole di uso comune.
Rimediamo subito. Qual è quella famiglia che, oggi, non ha in casa un... armadio?
Tutti abbiamo questo "aggeggio" e tutti sappiamo che vi si possono
riporre le cose piú varie, dai libri agli abiti, agli alimenti, agli utensili e
via discorrendo. Non è il caso, per tanto, di soffermarci a descrivere
l'oggetto che, comunemente, si indica con questo nome. Con queste noterelle
vogliamo mettere in evidenza il fatto che l'aggeggio di cui parliamo non era
poi tanto "comune" nei secoli passati. Era un oggetto
"inventato", oltre tutto, per uno scopo ben preciso: quello di
tenervi celate le armi della famiglia. I nostri antenati Latini da
"arma" (le armi) coniarono "armarium", vale a dire
"deposito di armi". Originariamente - in lingua italiana - il termine
sonava, infati, "armario"; poi, per il solito processo semantico,
divenne "armadio". Se prendiamo alcuni libri antichi e abbiamo la
pazienza di sfogliarli troviamo la "prova provata". Nel «Cortegiano»
di Baldassarre Castiglioni, scrittore famosissimo del Quattrocento, possiamo
leggere, per esempio, questa frase. «Crederei... che or che non siete alla
guerra né in termine di combattere, fosse buona cosa... tutti i vostri arnesi
da battaglia riporre in un armario». Ma anche nel grande "moderno"
Gabriele d'Annunzio possiamo leggere che «il collezionista prendeva i libri
dalle file dell'armario». Ancora oggi in qualche vernacolo italiano, se non
cadiamo in errore, la forma arcaica "armario" è in uso. Attualmente
tutti adoperiamo il termine armadio dentro il quale riponiamo ogni sorta di
cose non sapendo che in origine, per l'appunto, era nato per tutt'altro scopo.
Andicappare, meglio che handicappare
Sarebbe
ora, a nostro modesto avviso, che si finisse di scrivere «handicappato» con
quell'inutile orpello della "h", il termine, ormai, è entrato a pieno
titolo a far parte della nostra lingua, che bisogno c'è, quindi, di ricordare
la provenienza barbara del vocabolo che si è preferito ai piú schietti
«menomato», «invalido» o «invalidante»? Perché si vuole adoperare, a tutti i
costi, un verbo (handicappare) che non è né inglese né italiano? Togliamo, per
tanto, quel retaggio "barbarico" rappresentato dalla consonante h e
scriviamo «andicappare» (e i suoi derivati), dando a questo verbo, per la
verità molto brutto, una parvenza di "italianità". Soloni della
lingua, non siate... «andicappati mentali», accettate il fatto che la lingua va
difesa, e questo è uno dei modi per dimostrarlo.
giovedì 15 gennaio 2015
Mettere zizzania e gettare olio sulle onde
La prima espressione è nota (o dovrebbe essere nota) a tutti: creare del malcontento; seminare discordia fra più persone. Ci è stata "regalata" dalla parabola del Vangelo di Matteo (XIII, 24-30): "Però, mentre gli uomini dormivano venne il nemico e seminò della zizzania (loglio) in mezzo al grano e se ne andò". La seconda è nota, forse, solo ai "marinari". Si adopera questa locuzione quando si vuole riportare la calma in una situazione tesa; quando si vuole, insomma, cercare di mettere pace fra persone che litigano. Diamo la "penna" (anzi, la tastiera) per la spiegazione al "Dizionario Enciclopedico Moderno": "Con riferimento all'uso, nella navigazione con mare molto grosso, di gettare sulle onde, dalla parte del sopravvento, una piccola quantità di olio vegetale o minerale, che, per effetto della sua elevata tensione superficiale, riesce a frenare l'impeto delle onde impedendo ad esse di infrangersi contro lo scafo".
***
Tra le parole, o meglio tra i verbi che ci piacerebbe fossero "riesumati" e rimessi a lemma nei vocabolari segnaliamo "disturnare", vale a dire beffare, canzonare e simili.
domenica 11 gennaio 2015
Andare a zonzo e fare una cosa senza capo né coda non avendo sale in zucca
«Se anziché andare sempre a zonzo avessi studiato un pochino di piú, non avresti fatto un tema senza capo né coda; hai proprio poco sale in zucca», sbottò, con sdegno, il prof. Bonazzoni. Il solito Pierino rimase interdetto, poi, con un filo di voce, sussurrò: «Non vado a zonzo, vado a Palestrina dove mia nonna ha un orticello in cui coltiva le zucche e io mi diverto a metterci il sale; il sale, quindi, ce l'ho, professore». Vi risparmiamo, gentili amici blogghisti, il commento del docente alle parole di Pierino, che aveva scambiato la locuzione "a zonzo" addirittura con una località. Cerchiamo di vedere, invece, l'origine e il significato dei suddetti modi di dire (per coloro che non li conoscono, ovviamente). Cominciamo proprio con "zonzo" che non è un... paese ma una locuzione che significa "a spasso", "andare qua e là senza una meta" ed è la riproduzione onomatopeica del volo di alcuni insetti, come le zanzare, per esempio. Quanto alle espressioni "senza capo né coda" o "fare una cosa senza capo né coda", una cosa, cioè, senza una logica, un criterio; oppure fare una cosa "stramba" che non ha né un principio né una fine, provengono dall'antico modo di dire "essere come il pesce pastinaca". Questo tipo di pesce, del gruppo delle "razze aculeate", si presenta appiattito e non è possibile, quindi, distinguere la testa dal tronco dato che formano un tutt'uno. Non appena viene pescato gli si mozza la coda che è fornita di un aculeo pericolosissimo; sui banconi del mercato, per tanto, si presenta... senza capo né coda. Per quanto riguarda l'espressione "avere poco sale in zucca", vale a dire non essere molto intelligente, diamo la parola - per la spiegazione - al "re" dei modi di dire, Ludovico Passarini: «Bisogna sapere che... in queste frasi è presa non la zucca fresca e verde... ma la zucca disseccata, vuotata di semi e aperta da capo o nella pancia, entro la quale sogliono le massaie poverelle tenere il sale».
martedì 6 gennaio 2015
L'etimologia non sempre "conosce" le parole
Un interessantissimo articolo del Prof. Salvatore Claudio Sgroi, dell'Università di Catania.
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Salvatore Claudio Sgroi, ordinario di linguistica generale (Università di Catania), è autore di circa 300
saggi e di Interferenze fonologiche, morfo-sintattiche e lessicali fra l’arabo e il siciliano, CSFLS 1986;
Per la lingua di Pirandello e Sciascia, Sciascia ed. 1990; Per una linguistica siciliana. Tra storia e
struttura, Sicania, Messina 1990; Diglossia, prestigio e varietà della lingua italiana, Il Lunario, Enna
1994; Bada come parli, SEI 1995; Variabilità testuale e plurilinguismo del ‘Gattopardo’ Università degli
studi di Catania, 1998; La ‘Gramatica ragionata’ (1771) di Francesco Soave tra razionalismo ed
empirismo, Il Calamo 2002; Congiuntivo e condizionale (...) nella tradizione grammaticografica,
Edizioni dell’Orso 2004; Per una grammatica 'laica'. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del
parlante, UTET 2010; Scrivere per gli Italiani nell'Italia post-unitaria, Cesati; Dove va il congiuntivo? Il congiuntivo da nove punti di vista, UTET 2013.
venerdì 2 gennaio 2015
Cin cin
Il ragionier Bronzini non era più sé per la gioia: il primo dell’anno avrebbe avuto ospite il direttore generale con la consorte; sarebbe stata la grande occasione della sua vita; l’illustre presenza avrebbe significato per lui il prosieguo di una prestigiosa carriera; ci teneva, dunque, a fare bella figura. Aveva preparato, per l’occasione, un solenne discorso che avrebbe pronunciato durante il brindisi: «Illustrissimo signor Direttore, gentilissima Signora, come usava Cincinnato levo in alto il bicchiere e dico cin-cin; auguro a Lei e alla Sua cortese Signora cento di questi capidanno...».
Fortunatamente il figlio si accorse, durante le "prove", delle sciocchezze che avrebbe detto il padre e lo salvò da una figura caprina. Cin cin non ha nulla che vedere con... Cincinnato (per la spiegazione si veda in calce), mentre per quanto attiene a capidanno due parole due sulla formazione del plurale delle parole composte con capo (come capodanno, appunto).
Occorre dire, subito, che non esiste una regola, bisogna affidarsi al buon senso. Si può stabilire – in linea generale – una norma secondo la quale quando capo ha il significato di ‘comandante’ prenderà la forma plurale e resterà invariato il sostantivo che segue: il capostazione (il comandante della stazione), i capistazione; il capotreno, i capitreno; il caporeparto, i capireparto. Nella forma femminile restano invariati: la caporeparto, le caporeparto; la caposala, le caposala.
Quando capo, invece, ha il significato di "primo", "principale" resterà invariato e prenderà il plurale il secondo elemento, vale a dire il sostantivo che segue; il capolavoro (lavoro principale), i capolavori; il capoluogo (luogo principale), i capoluoghi; il capocuoco (il "primo cuoco”), i capocuochi. Il capodanno, quindi, essendo il "primo giorno" dell’anno, farà il plurale capodanni.
Un discorso a parte per quanto riguarda il caporedattore che può seguire l’una e l’altra regola o tutte e due contemporaneamente: i capiredattore, i caporedattori e i capiredattori. La cosa più semplice, però, è posporre capo lasciandolo invariato e staccato: redattori capo. Questa “regola” sarà bene applicarla soprattutto quando si tratta di redattori al femminile: redattrice capo, redattrici capo.
---
Cin cin, dicono i vocabolari, è un’"espressione augurale che ci si scambia al momento del brindisi facendo urtare leggermente i bicchieri". Cominciamo con il dire, intanto, che la grafia corretta è senza il trattino (cincin) o due distinte parole (cin cin).
L’origine è “sinobritannica”. Il nostro ‘cincín’, dunque, non è una voce onomatopeica - come taluni credono - vale a dire il “suono” che emettono due o piú bicchieri quando si urtano, bensí l’adattamento nella nostra lingua dell’espressione inglese “chinchin”, a sua volta adattamento del pechinese ch ‘ing ch ‘ing, forma variata del cinese ts ‘ing ts ‘ing (‘prego prego’). Si tratta, insomma, di un’espressione augurale cinese, di un ossequio in cui la ripetizione accentua la “forza augurale”.
Fortunatamente il figlio si accorse, durante le "prove", delle sciocchezze che avrebbe detto il padre e lo salvò da una figura caprina. Cin cin non ha nulla che vedere con... Cincinnato (per la spiegazione si veda in calce), mentre per quanto attiene a capidanno due parole due sulla formazione del plurale delle parole composte con capo (come capodanno, appunto).
Occorre dire, subito, che non esiste una regola, bisogna affidarsi al buon senso. Si può stabilire – in linea generale – una norma secondo la quale quando capo ha il significato di ‘comandante’ prenderà la forma plurale e resterà invariato il sostantivo che segue: il capostazione (il comandante della stazione), i capistazione; il capotreno, i capitreno; il caporeparto, i capireparto. Nella forma femminile restano invariati: la caporeparto, le caporeparto; la caposala, le caposala.
Quando capo, invece, ha il significato di "primo", "principale" resterà invariato e prenderà il plurale il secondo elemento, vale a dire il sostantivo che segue; il capolavoro (lavoro principale), i capolavori; il capoluogo (luogo principale), i capoluoghi; il capocuoco (il "primo cuoco”), i capocuochi. Il capodanno, quindi, essendo il "primo giorno" dell’anno, farà il plurale capodanni.
Un discorso a parte per quanto riguarda il caporedattore che può seguire l’una e l’altra regola o tutte e due contemporaneamente: i capiredattore, i caporedattori e i capiredattori. La cosa più semplice, però, è posporre capo lasciandolo invariato e staccato: redattori capo. Questa “regola” sarà bene applicarla soprattutto quando si tratta di redattori al femminile: redattrice capo, redattrici capo.
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Cin cin, dicono i vocabolari, è un’"espressione augurale che ci si scambia al momento del brindisi facendo urtare leggermente i bicchieri". Cominciamo con il dire, intanto, che la grafia corretta è senza il trattino (cincin) o due distinte parole (cin cin).
L’origine è “sinobritannica”. Il nostro ‘cincín’, dunque, non è una voce onomatopeica - come taluni credono - vale a dire il “suono” che emettono due o piú bicchieri quando si urtano, bensí l’adattamento nella nostra lingua dell’espressione inglese “chinchin”, a sua volta adattamento del pechinese ch ‘ing ch ‘ing, forma variata del cinese ts ‘ing ts ‘ing (‘prego prego’). Si tratta, insomma, di un’espressione augurale cinese, di un ossequio in cui la ripetizione accentua la “forza augurale”.
giovedì 1 gennaio 2015
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