sabato 22 novembre 2025

Sfuggire o fuggire? La favola che svela la differenza

 

Vivevano una volta, nel Regno delle Fughe e degli Inganni, due giovani fratelli, Aristeo e Callio, che amavano correre e gareggiare nei giardini interni del palazzo. Ma spesso litigavano sulle parole: Aristeo sosteneva che “sfuggire” e “fuggire” fossero la stessa cosa, mentre Callio insisteva che non lo fossero affatto.

Un giorno comparve il folletto Linguarino, celebre per i suoi scherzi linguistici. «Se volete sapere la verità, vi metterò alla prova!» disse, e con un gesto evocò due incantesimi.

Il primo fu una freccia di fuoco che partì improvvisa verso Aristeo. Con un balzo rapido, il ragazzo riuscì a sfuggire al colpo: non corse lontano, ma evitò il pericolo, eludendolo. Linguarino rise: «Ecco il senso di sfuggire: sottrarsi, scansare, evitare. Viene dal latino fugĕre, che significa scappare, ma con il prefisso s- che rafforza l’idea di scansare, come nel latino effugĕre. Non è fuga, è scarto.»

Il secondo incantesimo fu un drago che si avvicinava minaccioso a Callio. Il ragazzo, spaventato, non poté limitarsi a scansarlo: dovette correre via e fuggire dal giardino, rifugiandosi oltre le mura del castello. Linguarino applaudì: «Ecco invece fuggire: allontanarsi, scappare davvero. Anch’esso viene dal latino fugĕre, radice comune al greco phygḗ, che significa fuga. È movimento, è distanza, è abbandono del luogo.»

Aristeo e Callio si guardarono, finalmente consapevoli: uno aveva evitato il pericolo restando vicino, l’altro aveva dovuto correre lontano per salvarsi. «Sfuggire è scansare, fuggire è scappare» ripeterono in coro.

Il folletto, soddisfatto, concluse: «Ricordatevi che le parole non sono capricci: sfuggire è l’arte di eludere, fuggire è l’arte di allontanarsi. Chi confonde i due verbi rischia di non capire la differenza tra un passo di lato e una corsa senza ritorno.»

Da quel giorno, nel Regno delle Fughe e degli Inganni, ogni scrittore imparò che la lingua è come la magia: se la usi bene, ti salva davvero.

Chi fugge può tornare, chi resta può cadere. Meglio fuggire che perire. Chi fugge dalla paura, la trova davanti. Chi non può combattere, fugga. Sfuggire al destino è come inseguire il vento. Chi fugge presto, sfugge al peggio.

Questi antichi detti ricordano che fuggire è movimento, allontanamento, scelta di scappare, mentre sfuggire è abilità, astuzia, capacità di evitare o eludere. La saggezza popolare conferma che la differenza tra un passo di lato e una corsa lontana non è solo linguistica, ma anche esistenziale.

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Il segreto nascosto nei comignoli

Immaginiamo di camminare per una vecchia strada di paese, con le case in pietra e i tetti spioventi. Alziamo lo sguardo e vediamo spuntare, qua e là, piccoli elementi che interrompono la linea delle tegole: sono i comignoli. Li pensiamo soprattutto come fumaioli dei camini, da cui esce il fumo nelle sere d’inverno, ma il “comignolo” ha una storia più ricca e sorprendente di quanto sembri.

Il lessema deriva dal latino culmen, che significa “sommità”. Da questa radice si è ipotizzato un latino volgare culmineum, da cui l’italiano “comignolo”. Non stupisce, quindi, che il primo significato fosse proprio quello di “parte più alta del tetto”, la linea di colmo che unisce le due falde. Col tempo, però, il senso del sintagma si è spostato anche sul camino vero e proprio, il fumaiolo che sporge oltre il tetto. In entrambi i casi, il filo conduttore è chiaro: si tratta di un elemento posto in alto, sulla cima della casa, coerente con l’idea originaria di culmen.

La polisemia di “comignolo” è affascinante perché mostra come un termine possa mantenere un nucleo semantico (“sommità”) e declinarlo in contesti diversi. Non è un caso isolato: la lingua è ricca di lessemi che si allargano di senso senza perdere la loro radice. Così, in un manuale di architettura si può leggere della “linea di comignolo” come parte strutturale del tetto, mentre in un racconto rurale si può trovare “il comignolo della bica di covoni”, cioè la parte superiore di una catasta di grano, come lo chiamavano (una volta?) i contadini dell’Italia centrale.

Gli esempi quotidiani rendono questa ricchezza ancora più evidente. Un muratore che dice “bisogna restaurare il comignolo in mattoni” si riferisce al fumaiolo. Un architetto che parla della “linea di comignolo” pensa invece alla sommità del tetto. In entrambi i casi, la parola conserva il suo legame con l’idea di cima, di punto culminante.

Ecco perché “comignolo” è più di un semplice termine tecnico: è un piccolo frammento di storia linguistica che ci ricorda come le parole, proprio come le case, abbiano fondamenta solide ma anche la capacità di crescere e trasformarsi.

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    Il comignolo della Cappella Sistina: è forse il più famoso al mondo. Durante i conclavi, il piccolo camino montato sul tetto della Sistina diventa il “megafono silenzioso” della Chiesa: dalla sua fumata bianca o nera dipende l’annuncio dell’elezione del Papa. Non mancano episodi curiosi: nel conclave del 1958 il fumo apparve grigiastro, generando confusione e facendo credere per alcuni minuti che fosse stato eletto il pontefice.

  • Il comignolo come segnale comunitario: in diversi paesi rurali, il fumo che usciva dal comignolo era un segno di vita e di attività domestica. Si diceva che “dal comignolo si vede se la casa è viva”, perché il fuoco acceso indicava presenza, calore e ospitalità.

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  • Dal comignolo si conosce la casa (proverbio rurale che sottolinea come il fumo riveli la vita domestica).

  • Comignolo fumante, famiglia campante (detto popolare in alcune zone dell’Italia centrale, che lega il fuoco acceso alla prosperità della famiglia).

  • Comignolo spento, cuore freddo (variante folcloristica che associa l’assenza di fumo alla mancanza di calore umano).






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