La nostra bella e cantabile lingua, con la sua stratificazione di registri e sfumature, offre spesso coppie o terne di verbi che sembrano sinonimi perfetti, ma che in realtà custodiscono differenze sottili e preziose. È il caso dei sintagmi ricordare e rammentare, due verbi che nella stragrande maggioranza dei contesti d’uso si equivalgono, ma che, se osservati con una “lente di ingrandimento filologica”, rivelano origini diverse e suggestioni etimologiche capaci di illuminare il loro impiego letterario e stilistico.
Ricordare deriva dal latino re- (“di nuovo”) e cor (“cuore”), e significa letteralmente “riportare al cuore”. In questa radice si avverte la dimensione affettiva e sentimentale che accompagna il ricordo: non un mero atto mnemonico, ma un’esperienza che coinvolge la sensibilità, le emozioni, la memoria vissuta. Non a caso ricordare è oggi il verbo più diffuso e comune, adoperato in ogni registro linguistico, dal quotidiano al formale, per indicare qualsiasi richiamo alla memoria, sia esso un nome dimenticato o un evento significativo.
Rammentare, invece, nasce anch’esso dal prefisso re- ma si lega al sostantivo latino mens (“mente”), e significa “riportare alla mente”. La sua etimologia lo colloca in una sfera più intellettuale e cognitiva, legata al recupero dei dati e delle informazioni. Pur essendo perfettamente intercambiabile con ricordare, rammentare ha una sfumatura di maggiore formalità, un tono leggermente più alto, accentuato dalla sua minore frequenza d’uso rispetto al più popolare ricordare e al suo pronominale ricordarsi.
La distinzione tra i due verbi, dunque, non incide sulla correttezza sintattico-grammaticale né sulla comprensibilità, ma si gioca sul piano stilistico ed etimologico: ricordare è il verbo del cuore e dell’uso comune, rammentare è il verbo della mente e di un registro più elevato. Una differenza di sfumatura, non di significato, che arricchisce la tavolozza espressiva della lingua.
Per completezza, vale la pena menzionare anche rimembrare, verbo raro e quasi esclusivamente poetico, derivato da membra (“le parti del corpo”). Rimembrare richiama un ricordo profondo, che si avverte quasi fisicamente, e trova la sua massima espressione nella tradizione letteraria, come nei versi di Giacomo Leopardi. È il verbo che porta il ricordo nel corpo, oltre che nel cuore e nella mente, e che suggella la triade con una nota di incanto poetico.
Così – e concludiamo queste noterelle - tra cuore, mente e membra, la lingua italiana ci consegna tre modi di nominare il ricordo: quotidiano e affettivo; formale e intellettuale; poetico e corporeo. Una ricchezza che non è solo sinonimica, ma che riflette la profondità con cui la nostra tradizione ha saputo pensare e sentire la memoria.
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Scioperare: dal latino all’Ottocento, il verbo che diventa protesta
Lo sciopero dei giornalisti, che sospendono per un giorno il flusso delle notizie, ci offre l’occasione di guardare più da vicino al verbo scioperare. Non è soltanto un gesto sociale, ma anche una parola che porta con sé una lunga storia linguistica.
Il verbo scioperare affonda le radici nel latino exoperare, “smettere di lavorare”, costruito su opĕra (“lavoro”) con il prefisso ex- che indica cessazione. Già in forme antiche come scioprare si ritrova l’idea di interrompere l’attività. Ma è nell’Ottocento, epoca di grandi trasformazioni sociali e di nascita delle prime organizzazioni di lavoratori, che il sostantivo sciopero si consolida nel suo significato moderno di astensione collettiva dal lavoro per rivendicare diritti e condizioni migliori. Da quel momento, il verbo scioperare si carica di una valenza civile e politica che va ben oltre la semplice inattività.
Oggi scioperare non significa soltanto “non lavorare”: implica una scelta consapevole, un atto condiviso che trasforma l’inattività in protesta. La lingua, con la sua memoria etimologica e storica, ci ricorda che dietro ogni parola c’è un percorso di trasformazioni: dal latino alla pratica sociale, passando per l’Ottocento delle lotte operaie, fino al presente, dove il verbo continua a vibrare di tensione civile e collettiva.
Una curiosità sullo sciopero. Anche qui.
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Quando parliamo o scriviamo adoperiamo, probabilmente inconsciamente, dei gallicismi che in buona lingua italiana sono da evitare (anche se attestati nei vocabolari dell'uso). Ce ne vengono alla mente due, in particolare: decisamente e in definitiva. Il primo termine è un avverbio che sta per “in maniera decisiva, risolutiva”. Dov’è il gallicismo? Nell’uso dell’avverbio nell’accezione di indubbiamente, proprio, certamente, senza dubbio, totalmente e simili: hai decisamente ragione; quella ragazza è decisamente brutta. Negli esempi l’avverbio decisamente va sostituito con indubbiamente, proprio (secondo i casi). La locuzione 'in definitiva' è da evitare perché ricalca il francese “en définitive”. In buon italiano abbiamo altre espressioni, c’è solo l’imbarazzo della scelta: in fin dei conti, alla fin fine, tutto sommato, in conclusione, insomma e simili da usare, ovviamente, secondo il contesto.
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La lingua “biforcuta” della stampa
Il racconto
Danimarca, i “Guardiani della notte” che sorvegliano le minacce di Trump sulla Groenlandia
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Ci piacerebbe tanto sapere come si possa “sorvegliare” una minaccia.

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