martedì 18 novembre 2025

Il mistero del punto che non serve

 

Quando si scrive uno degli aspetti più delicati riguarda l’uso della punteggiatura in presenza delle virgolette. In particolare, capita spesso di avere dubbi su cosa accada quando una frase termina con un punto esclamativo o interrogativo racchiuso nelle virgolette. La “regola” è chiara: se la frase si chiude con un segno forte come “!” o “?” all’interno delle virgolette, non si aggiunge un ulteriore punto fermo dopo. La frase successiva inizierà direttamente con la maiuscola, senza bisogno di un segno di interpunzione aggiuntivo.

Facciamo un esempio pratico. Immaginiamo di scrivere: Mario gridò: «Attento al treno!» La gente si voltò di colpo. In questo caso, il punto esclamativo dentro le virgolette è sufficiente a chiudere la frase. Non si scrive: «Attento al treno!». La gente si voltò di colpo. Quel punto fermo dopo il segno esclamativo sarebbe ridondante e scorretto.

Lo stesso vale per il punto interrogativo. Consideriamo: Lucia chiese: «Vuoi venire con me?» Tutti rimasero in silenzio. Il “?” chiude già la frase, quindi non serve aggiungere un punto fermo dopo le virgolette. Scrivere: «Vuoi venire con me?». Tutti rimasero in silenzio sarebbe un errore, perché il segno interrogativo ha già la funzione di chiusura.

È interessante notare che le grammatiche tradizionali spesso tacciono sull’argomento: non sempre forniscono indicazioni esplicite su come comportarsi in questi casi, lasciando che sia l’uso e la prassi editoriale a guidare lo scrittore. Questo silenzio normativo ha portato a una certa oscillazione negli stili (potremmo dire "una anarchia stilistica"), ma la soluzione più elegante e coerente resta quella di evitare il punto fermo dopo i segni forti.

Un altro esempio utile: «Che sorpresa!» esclamò Anna. Qui il punto esclamativo chiude la frase dentro le virgolette e introduce senza problemi la frase successiva. Non è necessario scrivere «Che sorpresa!». Esclamò Anna. Sarebbe un errore che spezzerebbe il ritmo della lettura (in casi del genere si può mettere una virgola: “Che sorpresa!”, esclamò Anna).

In sintesi - e chiudiamo queste noterelle - quando una citazione o un discorso diretto termina con un punto esclamativo o interrogativo, quel segno è già conclusivo. Le virgolette si chiudono subito dopo e la frase successiva può cominciare senza ulteriori segni. Anche se le grammatiche - come abbiamo visto - non sempre lo chiariscono, la prassi letteraria mostra che questa è la soluzione più corretta ed elegante, capace di rendere il testo scorrevole e armonioso. Insomma, quando la citazione termina con un punto esclamativo o interrogativo, il segno espressivo interno è sufficiente e finale per l'intero periodo.

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L’abito delle parole: quando il vestito diventa linguaggio - Due termini che sembrano sinonimi, ma che raccontano storie diverse di cultura e identità


N
ella nostra affascinante lingua ogni termine porta cucita addosso una storia. Alcuni sembrano gemelli, ma basta osservarli con attenzione per scoprire che hanno cuciture diverse, che cadono in modo differente sul corpo del discorso. “Vestito” e “abito” sono due di questi: apparentemente intercambiabili, in realtà capaci di richiamare mondi distinti, atmosfere diverse, registri che vanno dal quotidiano alla solennità.

“Vestito” nasce dal latino vestitus, figlio del verbo vestire, e conserva intatta la sua concretezza. È il termine che usiamo senza pensarci, quello che accompagna la vita di tutti i giorni: il vestito nuovo comprato per un’occasione, il vestito leggero che si indossa d’estate, il vestito qualunque che si mette per uscire. È parola domestica, vicina, che non pretende formalità.

 “Abito”, invece, ha un 'respiro' diverso. Anche questo viene dal latino habitus, da habere, e in origine significava “modo di essere, disposizione, aspetto esteriore”. È voce che porta con sé un’aura di rappresentazione, di ritualità, di appartenenza. Non è un caso che si parli di “abito da sera”, “abito da cerimonia”, “abito talare”. L’abito non è un indumento qualunque, ma il segno di una condizione sociale, di un ruolo riconosciuto.

La differenza si può cogliere anche nel proverbio: “l’abito non fa il monaco”. Non si potrebbe dire “il vestito non fa il monaco”, perché il vestito non porta con sé quel valore simbolico, quella capacità di rappresentare un’identità. L’abito, al contrario, è più di un tessuto: è un segno, un codice, un linguaggio.

Così, “vestito” resta la parola della concretezza quotidiana, mentre “abito” è la parola della formalità e della rappresentazione sociale. Non si dice, infatti, “abito da sposa” e non “vestito da sposa”? Il matrimonio è rito, e l’indumento che lo accompagna non è solo un capo da indossare, ma un simbolo di “status” e di solennità.

Le parole, come gli indumenti, non sono mai neutre. Ogni volta che scegliamo se dire “vestito” o “abito”, compiamo una scelta di tono e di significato. È la prova che la lingua, proprio come la moda, è un modo di raccontare chi siamo. E allora, quando il lessico sfila sulla passerella del discorso, il “vestito” porta la semplicità del quotidiano, mentre l’“abito” indossa la solennità dei riti. Non sono soltanto stoffe linguistiche: sono identità che si mostrano. Perché, in fondo, la lingua è il nostro guardaroba invisibile, e ogni parola che indossiamo rivela chi vogliamo essere.

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La lingua “biforcuta” della stampa

Centocelle, via gli autodemolitori: nasce la Central Park di Roma Est con prati e giardini

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Correttamente: via le autodemolizioni (non gli autodemolitori).

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Fine vita, la posizione delle gemelle Kessler: “Se una di noi si dovesse ridurre in stato vegetativo, l'altra le staccherà la spina"

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La correlazione dei tempi? Correttamente: se una di noi si dovesse ridurre in stato vegetativo, l’altra le staccherebbe la spina.





 






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