venerdì 12 dicembre 2025

Quando le parole si trasformano: il silenzio creativo del metaplasmo

 


Il metaplasmo (dal greco metaplasmós, “modificazione”, “trasformazione”) è una figura retorica che non interviene sul significato delle parole, ma sulla loro forma esterna o sulla loro flessione grammaticale. Non è soltanto un artificio poetico: è un motore dell’evoluzione linguistica, capace di accompagnare il passaggio delle lingue attraverso i secoli.

Le sue manifestazioni più comuni riguardano suoni e grafia. Talvolta si aggiungono elementi, come nella protesi (scuola → iscuola in forme antiche), nell’epentesi (ritmo → ritimo nel parlato popolare) o nella paragoge o epitesi (più → piùe in poesia). Altre volte si eliminano parti, come nell’aferesi (istoria → storia), nella sincope (spirito → spirto) o nell’apocope (amore → amor). Vi sono poi le sostituzioni, che comprendono fenomeni come la metatesi (albero → arbero) o le modificazioni vocaliche, e. g., la dittongazione (novus → nuovo).

Il metaplasmo, inoltre, non si limita alla superficie delle parole: può modificare la loro struttura morfologica. Così un verbo può passare da una coniugazione all’altra per analogia con forme più frequenti, oppure un sostantivo può cambiare la declinazione. È il destino dei neutri latini: folium è diventato foglio nella declinazione maschile italiana, mentre lignum ha dato origine a legna come plurale collettivo femminile.

Rientra nel metaplasmo anche la variazione di categoria grammaticale, detta conversione o derivazione zero. È il caso della sostantivizzazione, quando un aggettivo o un avverbio diventano nomi (“il bello”, “il domani”), o dell’aggettivazione, quando un nome diventa aggettivo invariabile (“un abito rosa”).

Un proverbio antico recita: Lingua muta, tempo parla. È un’espressione che ben si adatta al metaplasmo: le parole cambiano silenziosamente, senza clamore, ma nel tempo rivelano la loro trasformazione. Dante stesso, nel De vulgari eloquentia, osserva come il volgare sia in continua metamorfosi, e non a caso la poesia italiana è ricca di esempi di metaplasmi usati per esigenze metriche o musicali.

Per concludere queste noterelle, il metaplasmo mostra come le parole si adattino e si trasformino, sia nella singola lettera sia nella struttura grammaticale. Studiare questi fenomeni significa osservare la dinamica incessante del linguaggio, la sua capacità di piegarsi alle necessità della comunicazione e di riflettere la storia di chi lo parla.

Le parole non invecchiano: si travestono.

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“Ambulavenditore”? E chi lo vieta?


N
asce il neologismo ambulavenditore. La lingua italiana, si sa, predilige le locuzioni: venditore ambulante è da sempre la formula ufficiale per indicare chi commercia senza sede fissa, spostandosi di strada in strada, di piazza in piazza. Ma la compattezza ha i suoi vantaggi, e proprio per questo proponiamo un nuovo lemma, agile e incisivo, capace di condensare in una sola parola ciò che normalmente ne richiede(va) due.

Ambulavenditore è un sostantivo che designa il commerciante che esercita la vendita in forma itinerante. Nasce dall’unione di ambula- (dal latino ambulare, “camminare, andare attorno”) e venditore (da vendere), componendo un termine trasparente e immediato. Il pregio lessicale sta proprio nella sua compattezza: rispetto alla locuzione tradizionale, si offre come lemma autonomo, più breve, incisivo e facilmente registrabile nei repertori lessicali.

La piazza si riempie di ambulavenditori che offrono merci di ogni tipo; gli ambulavenditori animano le fiere di paese con colori e voci; e chi ottiene la licenza per il commercio su aree pubbliche può finalmente definirsi ambulavenditore.

Si tratta di un neologismo proposto, non attestato, pertanto, nei dizionari ufficiali, ma con potenziale adozione in contesti giornalistici, normativi e divulgativi. La sua forza sta nella capacità di sostituire una locuzione con un termine unico, compatto e moderno, pronto a entrare nel lessico comune.

ambulavenditóre s. m. (f. -trice) [comp. di ambula(re) e venditore].

– Commerciante che esercita la vendita senza sede fissa, spostandosi lungo strade, piazze o fiere. Sinonimo compatto di venditore ambulante.  









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giovedì 11 dicembre 2025

Delusione e collisione: suoni gemelli, mondi lontani

 La lingua italiana – lo abbiamo già visto - ama confondere con le sue rime interne: parole che si rincorrono nel suono, che condividono finali e cadenze, ma che divergono radicalmente nel senso: delusione e collisione, due termini che si vestono dello stesso ritmo in ‑sione, eppure abitano universi inconciliabili.

Delusione è parola che appartiene alla sfera emotiva. Indica lo smarrimento di chi vede infrangersi una speranza, il dolore sottile di un’attesa tradita. “La delusione di un esame andato male” o “la delusione di un amico che non mantiene la promessa” sono esempi tipici: qui la parola porta con sé il peso dell’aspettativa spezzata. Oriana Fallaci, in Un cappello pieno di ciliege (ciliege, purtroppo, senza la terza “i”) scrive: “La delusione è un veleno capace di ferire, corrompere, far ammalare l’anima”. E la tradizione posrisorgimentale parla di “delusione storica”: la mancata realizzazione delle speranze di libertà e giustizia dopo l’Unità d’Italia, tema che attraversa romanzi e saggi di fine Ottocento.

Collisione, invece, è parola tecnica, che si muove tra la fisica e la cronaca. Significa urto, impatto violento tra corpi in movimento. “La collisione tra due automobili” o “la collisione tra particelle subatomiche” mostrano il suo valore concreto e materiale. Ma la letteratura contemporanea ha saputo piegarla anche con uso figurato: Maria Teresa Infante intitola una raccolta Collisione d’interni, dove l’urto non è tra corpi, ma tra anime e linguaggi. E la critica culturale usa spesso l’espressione “rotta di collisione” per descrivere conflitti politici o ideologici, trasformando l’impatto fisico in metafora di scontro di idee.

Un aneddoto curioso racconta che, negli anni Sessanta, un giornalista confuse i due termini in un titolo: invece di scrivere “La delusione dei tifosi dopo la sconfitta”, pubblicò “La collisione dei tifosi dopo la sconfitta”. Il refuso provocò ilarità, perché trasformava un sentimento in un incidente, e dimostrava quanto la somiglianza sonora possa trarre in inganno anche chi lavora con le parole ogni giorno.

La confusione nasce dalla somiglianza fonetica, ma basta ricordare la radice: delusione viene da deludere, “tradire l’attesa”; collisione viene da collidere, “urtare insieme”. L’una appartiene al cuore, l’altra alla strada o al laboratorio. Due parole che si somigliano, ma che non vanno mai confuse: l’una racconta un sentimento, l’altra descrive un impatto.

Ed è proprio in questa distanza che la lingua rivela la sua forza: il suono può illudere di una parentela, ma l’etimologia smaschera l’inganno e restituisce a ciascun termine il suo destino. La delusione rimane ferita dell’anima, la collisione urto di corpi o di idee: gemelli fonetici che abitano universi lontani.


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Rabboccare e riboccare: due verbi, due distinte azioni


N
onostante la somiglianza fonetica i sintagmi rabboccare e riboccare non sono affatto sinonimi, come si è portati a ritenere. La loro differenza sta nell’etimologia, che ne definisce con precisione il significato e l’ambito d’uso. Confonderli può portare a inesattezze concettuali.

Il verbo rabboccare, attestato dal XIV secolo, nasce dalla combinazione di r- (prefisso iterativo o intensivo), a- (prefisso avverbiale) e bocca. Quest’ultima non indica soltanto l’organo del corpo, ma anche l’orlo o l’apertura superiore di un recipiente. Rabboccare significa dunque riempire fino all’orlo o fino al livello stabilito. È un verbo transitivo che designa l’atto di aggiungere una piccola quantità di liquido o sostanza per riportare il contenuto di un recipiente al livello desiderato o massimo. Si usa soprattutto in ambito tecnico e domestico, per liquidi o sostanze che tendono a calare o evaporare: devo rabboccare l’olio nel motore dell’auto; dopo aver bevuto un sorso, la cameriera ha cortesemente rabboccato il mio bicchiere di vino; per fare un buon caffè bisogna rabboccare l’acqua della caldaia fino alla valvola.

Diverso è il caso di riboccare, verbo meno comune ma attestato in italiano, formato da ri- (prefisso iterativo, che indica ripetizione o ritorno) e boccare. Qui il riferimento è a un senso più antico di bocca, intesa come apertura. Il riboccare richiama l’idea di traboccare o rovesciarsi fuori dall’orlo: più spesso è usato, infatti, come variante di traboccare, e significa scorrere fuori a causa di un eccessivo riempimento. È un verbo principalmente intransitivo, coniugato con l’ausiliare essere, e indica l’azione di un liquido che fuoriesce o si trova in eccesso: se versi ancora, il bicchiere riboccherà; la vasca era così piena che l’acqua è riboccata sul pavimento. In un’accezione meno comune può essere usato come transitivo, per indicare il riempire a tal punto da far straboccare: per errore ho riboccato la damigiana e ho fatto un pasticcio.

La distinzione fondamentale tra i due sintagmi verbali risiede dunque nell’azione che si compie o si osserva: rabboccare significa aggiungere per raggiungere il livello corretto o massimo, e si coniuga con avere (ho rabboccato), mentre riboccare indica il fuoriuscire o lo straboccare per eccesso di contenuto, e si coniuga con essere (è riboccato). In conclusione, se si desidera portare a livello l’acqua nel vaso, bisogna rabboccarla; se invece l’acqua è riboccata, significa che ne è stata versata troppa.

















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mercoledì 10 dicembre 2025

Collusione e illusione: il patto e il sogno

 


La lingua italiana è piena di trappole sonore: parole che si assomigliano nella forma, che condividono suffissi e cadenze, ma che divergono radicalmente nel senso. È proprio questa somiglianza esteriore che induce a errori di comprensione o di uso, soprattutto quando il ritmo fonetico sembra suggerire una parentela semantica inesistente. Tra i casi più insidiosi c’è la coppia collusione e illusione: due termini che si vestono dello stesso finale in ‑usione, eppure abitano universi lontanissimi.

Collusione è parola dura, tecnica, che appartiene al linguaggio giuridico e politico. Indica un accordo segreto e fraudolento tra più soggetti, un’intesa occulta che viola la legge o danneggia terzi. Porta con sé l’ombra della complicità e della corruzione, e si usa per descrivere rapporti torbidi, connivenze, patti clandestini. Dire “la collusione tra alcuni dirigenti e imprenditori ha falsato l’appalto” è un esempio tipico: qui la parola segnala un patto illecito, una complicità che mina la giustizia.

Illusione, invece, è parola che si muove nella sfera psicologica e percettiva. Significa inganno dei sensi, falsa rappresentazione della realtà, speranza vana. Può avere valore negativo, quando denuncia la fragilità delle aspettative, ma anche poetico, quando evoca sogni e desideri che danno colore all’esistenza. Dire “vive nell’illusione di un successo imminente” mostra l’aspetto ingannevole della parola; mentre “l’illusione di un amore eterno accompagna i versi dei poeti” rivela la sua dimensione estetica e sentimentale.

La confusione nasce dalla somiglianza fonetica e dal suffisso comune, ma basta ricordare la radice per distinguere: collusione viene da colludere, “giocare insieme di nascosto”, con valore di accordo fraudolento; illusione viene da illudere, “ingannare”, e si lega alla percezione e alla speranza.

Due parole che si somigliano, ma che non vanno mai confuse: l’una appartiene al tribunale, l’altra al cuore.




martedì 9 dicembre 2025

Prefisso e suffisso, insieme: il respiro creativo dei verbi parasintetici. Quando il lessico respira, la lingua si reinventa


C’
è un momento, nella vita delle parole, in cui esse sembrano tendere la mano per trasformarsi: un aggettivo che si fa azione, un nome che diventa gesto. È in questo spazio di metamorfosi che si colloca la parasintesi, uno dei meccanismi più affascinanti della nostra lingua. Il termine, nato dal greco pará (“accanto, oltre”) e sýnthesis (“composizione”), racconta già la sua natura: una costruzione che nasce dall’incontro simultaneo di prefisso e suffisso, applicati a una radice nominale o aggettivale. Non basta aggiungere un prefisso, non basta innestare un suffisso: la parola prende vita solo quando i due elementi si fondono insieme, come due chiavi che aprono la stessa porta.

Così invecchiare non è semplicemente “vecchiare” né “invecchio”: è il cominciamento di diventare vecchio. Ammutolire non è “mutolire” né “amutolo”: è il silenzio che cala improvviso. Spianare non è “pianare” né “spiano”: è rendere piano, livellare. E ancora ammassare, da massa, significa raccogliere in un insieme compatto; ingabbiare, da gabbia, è chiudere in uno spazio; abbracciare, da braccio, è circondare con le braccia; atterrare, da terra, è scendere o far cadere a terra; sotterrare, sempre da terra, è nascondere sotto la superficie. Ogni volta la parola nasce intera, indivisibile, e porta con sé un significato preciso, spesso incoativo o trasformativo.

Il lessico italiano, grazie a questo procedimento, si arricchisce di verbi che descrivono con immediatezza processi di cambiamento e azioni concrete: ingiallire da giallo, imbruttire da brutto, arricchire da ricco, impoverire da povero, allungare da lungo, accorciare da corto, imbottigliare da bottiglia, intonacare da intonaco, sbiadire da biado. Tutti esempi che mostrano la vitalità di un meccanismo capace di trasformare la staticità di un nome o di un aggettivo in dinamismo verbale.

La parasintesi, dunque, non è una curiosità grammaticale, ma un vero e proprio strumento di creazione: un ponte che permette alle parole di attraversare categorie diverse e di reinventarsi. È grazie a questa che l’italiano può dire “rendere bianco” con imbiancare, “mettere in gabbia” con ingabbiare, “diventare vecchio” con invecchiare, “scendere a terra” con atterrare. La sua forza sta nella natura bloccata e indivisibile: solo la combinazione simultanea di prefisso e suffisso dà vita a parole nuove, precise e indispensabili.

E se la lingua è un organismo vivo, la parasintesi è il suo respiro creativo: ogni verbo parasintetico è un passo in più verso la trasformazione, un segno che il lessico non si limita a nominare il mondo, ma lo reinventa. In fondo, la parasintesi ci insegna che le parole, come gli uomini, non nascono mai da sole: hanno bisogno di un incontro per diventare davvero sé stesse. 

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Lusingare o confidare? 

Il sintagma verbale lusingare, che significa allettare, attirare e simili, viene spesso adoperato, impropriamente, nell’accezione di sperare, confidare, auspicare, augurare, soprattutto in ambito commerciale: gentile signora ci lusinghiamo di averla presto come cliente. In buona lingua italiana è da evitare. Si dirà: speriamo, confidiamo di averla presto come cliente. 






lunedì 8 dicembre 2025

Essere a Firenze e non veder le cupole

 


L
a lingua italiana è ricca di espressioni che nascono da un paesaggio e diventano metafore universali. Firenze, con le sue cupole che dominano la città e segnano l’orizzonte, ha regalato un modo di dire che trasforma l’architettura in linguaggio: “essere a Firenze e non veder le cupole”. È un invito a non trascurare l’evidenza, a non passare accanto all’essenziale senza riconoscerlo.

Essere a Firenze, e non veder le cupole” è un modo di dire che nasce dall’evidenza visiva: chi si trova a Firenze non può non notare le grandi cupole che dominano la città, prima fra tutte quella di Santa Maria del Fiore, capolavoro del Brunelleschi. La cupola è talmente imponente e centrale da diventare simbolo della città stessa.

Il significato è chiaro: indica la persona che si trova in un luogo o in una situazione e non coglie ciò che è più caratteristico, evidente o importante. È un modo ironico per sottolineare distrazione, superficialità o incapacità di riconoscere l’essenziale.

L’uso quotidiano si presta a paragoni vividi: “È come essere a Firenze e non veder le cupole”. La formula funziona in diversi contesti: chi visita una città e ignora i suoi monumenti più celebri, chi in una discussione non si accorge dell’argomento centrale, o chi, più in generale, manca di attenzione verso ciò che è lampante.

Ed è proprio questa forza figurativa che permette di adattarla a situazioni moderne. Pensiamo al mondo della giustizia: ignorare il ruolo dei legali in una vicenda è come essere a Firenze e non veder le cupole, perché la loro presenza è talmente evidente da rendere incomprensibile ogni analisi che li escluda. Allo stesso modo, nel dibattito sulla riforma della giustizia, trascurare la voce dei legali equivale a essere a Firenze e non veder le cupole: un errore di prospettiva che mina la credibilità dell’intero discorso.

Anche nel linguaggio quotidiano l’espressione mantiene la sua efficacia: se parli di un processo e non menzioni i legali, è come essere a Firenze e non veder le cupole; discutere di contratti senza consultarli è davvero come trovarsi sotto la cupola del Brunelleschi e non alzare lo sguardo, cioè lasciarsi sfuggire l’essenziale.

Così il proverbio antico si lega naturalmente agli esempi moderni, mostrando come un’immagine architettonica possa trasformarsi in metafora universale: non vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti.


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Quando le parole si somigliano, ma non si equivalgono


N
ella nostra stupenda lingua italiana capita spesso che la somiglianza fonetica e l’etimologia comune inducano a confondere parole che, in realtà, hanno significati e funzioni molto diverse. È il caso di perverso e imperverso, sintagmi che condividono la radice -verso e un legame storico, ma che non possono essere usati come sinonimi. La confusione nasce dal fatto che imperversare deriva proprio da perverso, ma ha subito uno slittamento semantico che lo ha portato a indicare tutt’altro.

Perverso è un aggettivo che giudica una qualità morale: indica malvagità, corruzione, deviazione dalla norma, vizio. È la parola che si usa per descrivere un comportamento aberrante, un meccanismo dannoso, un atteggiamento inclinato al male. Imperversare, invece, è un verbo intransitivo che significa infierire, accanirsi, infuriare. Si usa per descrivere fenomeni naturali che si scatenano con violenza, come una tempesta o un’epidemia, ma anche per comportamenti aggressivi o per mode che si diffondono con forza. Dire “la bufera imperversa” è corretto; dire “quel comportamento è imperverso” è un errore, perché imperverso non è aggettivo.

Molti li confondono perché il prefisso in (im)- è ambiguo: può sembrare una negazione o un rafforzativo di perverso, mentre in realtà ha valore intensivo, trasformando l’idea di “diventare perverso” in quella di “scatenarsi con violenza”. Inoltre, l’uso figurato di imperversare in ambito giornalistico (“imperversano le notizie false”, “imperversa la moda delle fotografie in posa”) avvicina il verbo a un campo semantico che richiama deviazione e corruzione, creando un’area di sovrapposizione con perverso.

La chiarezza arriva distinguendo bene le categorie grammaticali: perverso è aggettivo, imperversare è verbo. Il primo giudica una qualità morale, il secondo descrive un’azione o un fenomeno che si scatena. È proprio questa differenza che va fissata per evitare confusioni: due parole simili nella forma, ma lontane nel senso. A conferma, basti ricordare l’uso letterario di Giuseppe Parini: «Quando Orïon dal cielo declinando imperversa», dove il verbo descrive l’infuriare delle stagioni e non certo una qualità morale.

Due parole possono vestirsi dello stesso suono, ma abitare mondi semantici lontanissimi.








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domenica 7 dicembre 2025

Quando il tempo incalza e la necessità spinge

 

Nel lessico italiano ci sono alcune coppie di termini che sembrano sovrapponibili, ma che in realtà custodiscono sfumature preziose. Tra questi, “urgente” e “impellente” meritano attenzione: due aggettivi che spesso si usano come sinonimi, ma che portano con sé origini diverse e un diverso peso semantico. Comprendere appieno la loro differenza significa affinare la sensibilità linguistica e scegliere con maggiore precisione la parola giusta al momento giusto.

“Urgente” deriva dal latino urgere, che significa “premere, incalzare, stringere da vicino”. L’idea è quella di una forza che spinge nel tempo: ciò che è urgente non può essere rimandato, perché incombe immediatamente e reclama una risposta rapida. L’urgenza è dunque legata alla dimensione temporale: un’urgenza medica, un’urgenza burocratica, un’urgenza familiare sono tutte situazioni che richiedono intervento immediato, pena conseguenze negative. Dire “è urgente consegnare il documento” significa che il tempo stringe e non ammette dilazioni.

“Impellente”, dal latino impellere, “spingere contro, urtare, costringere”, ha una sfumatura diversa dal parente lessicale: non tanto il tempo che incalza, quanto la necessità che preme dall’interno o dall’esterno. Un bisogno impellente è un bisogno che non si può ignorare, perché la sua forza costringe ad agire. L’impellenza è dunque più vicina alla sfera della necessità inevitabile che non a quella della scadenza temporale. Dire “ho un bisogno impellente di chiarire” significa che la necessità di chiarimento è così forte da non poter essere elusa, indipendentemente dal tempo.

Alcuni esempi chiariscono la distinzione: una telefonata del medico può essere urgente, perché richiede risposta immediata; un desiderio di giustizia può essere impellente, perché nasce da una forza morale che non si può reprimere. Un compito scolastico da consegnare entro il giorno successivo è urgente; la sete dopo una lunga camminata è impellente. In questi casi c’è pressione, ma la natura della pressione cambia: il tempo che “incalza” e la necessità che “spinge”.

Nell’uso quotidiano i due termini si intrecciano e spesso si sovrappongono, ma la distinzione rimane utile. “Urgente” si impiega soprattutto in contesti pratici, amministrativi, professionali, dove la variabile temporale è decisiva. “Impellente” si presta meglio a contesti espressivi, morali, psicologici, dove la forza della necessità è protagonista. Saperli distinguere significa arricchire il proprio lessico e dare alle parole il giusto peso, evitando appiattimenti e rendendo più precisa la comunicazione.

In conclusione, “urgente” è ciò che non può aspettare, “impellente” è ciò che non si può evitare. Due sfumature che, se rispettate, restituiscono alla nostra amata lingua la sua capacità di nominare con esattezza le pressioni che ci muovono, nel tempo e nella necessità.

Urgente è ciò che non può aspettare, impellente è ciò che non si può evitare. 

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Nasce il ‘trot­terellista’: l’italiano che corre leggero


I
n italiano, il tema del “jogging” è sempre rimasto sospeso tra la necessità di precisione e la tentazione di ricorrere al forestierismo. Da un lato abbiamo il termine generico “corridore”, che abbraccia ogni forma di corsa, dall’agonistica alla più blanda; dall’altro la locuzione “chi fa jogging”, che risolve il problema con semplicità descrittiva ma senza la forza di un sostantivo autonomo. L’anglicismo “jogger”, ormai diffuso nel linguaggio sportivo e giornalistico, ha conquistato spazio proprio per questa mancanza: è breve, immediato, ma resta un corpo estraneo alla nostra lingua. I tentativi di sostituzione non hanno mai attecchito davvero: “corsista” suona ambiguo, “trotterellatore” o “trotterellatrice” hanno un tono buffo e letterario, più adatti a un racconto che a una consuetudine quotidiana.

Eppure la lingua vive di invenzioni, e ogni neologismo ben coniato può colmare un vuoto. È in questo spirito che nasce “trotterellista”: un termine agile, musicale, capace di evocare con immediatezza chi pratica il “jogging” senza ricorrere all’inglese. La radice “trotterellare” restituisce il senso del movimento leggero e ritmico, mentre il suffisso “-ista” conferisce dignità di ruolo, come avviene per “ciclista”, “pianista”, “escursionista”. Non più un semplice descrittore, ma un’identità linguistica: il "trot­terellista" è colui che sceglie la corsa moderata come pratica abituale, che si riconosce in quel passo cadenzato e rilassato, né maratoneta né “sprinter” (si perdoni il barbarismo), ma amante della continuità e del benessere.

Il vantaggio di “trotterellista” è duplice: da un lato offre un’alternativa pienamente italiana al forestierismo “jogger”, dall’altro si inserisce con naturalezza nel sistema morfologico della nostra lingua, accanto a tanti altri termini che designano praticanti di attività. È un neologismo che non forza, ma accompagna: chi lo ascolta ne intuisce subito il significato, senza bisogno di spiegazioni. In un’epoca in cui la corsa è diventata simbolo di salute e stile di vita, dare un nome italiano a chi la pratica in forma moderata significa restituire alla nostra lingua la capacità di nominare il quotidiano.

Il "trot­terellista", dunque, non è soltanto chi corre piano: è chi ha scelto di farlo con costanza, chi si riconosce in quel gesto semplice e regolare, chi trova nel trotto leggero un equilibrio tra corpo e mente. Un termine nuovo, ma già familiare, pronto a entrare nel lessico comune e a liberare il jogging dall’ombra dell’anglicismo.






sabato 6 dicembre 2025

Quando esitare non è solo tentennare

 

Il sintagma verbale esitare ha una doppia radice che ne spiega la ricchezza semantica. Da un lato deriva dal latino haesitare, frequentativo di haerere (“restare fermo, indugiare”), da cui l’uso intransitivo: “tentennare, indugiare, non decidersi”. Dall’altro lato, attraverso il sostantivo esito (dal latino exitus, “uscita, sbocco”), ha assunto anche valori transitivi, legati all’idea di “dare esito” o “smerciare”.

Nell’uso intransitivo, esitare è il verbo dell’incertezza: «Non esitare a chiamarmi se hai bisogno di aiuto» (Treccani, Vocabolario). È il gesto di chi resta sospeso, trattenuto da dubbi o timori. La tradizione letteraria lo usa spesso per rendere la titubanza psicologica: Alessandro Verri parla di «una crudelissima perplessità» che fa esitare ogni decisione (Lettere, XVIII sec.).

In quello transitivo, invece, il lessema cambia volto. Può significare “emettere, produrre”: «Le palatali indoeuropee esitano velari o palatali» (DICO, Università di Messina), cioè “danno esito a”. Oppure, in ambito commerciale, “vendere, smerciare”: Carlo Antonio Marin, nella Storia Civile e Politica del Commercio de’ Veneziani (1798), scrive che «gravitava sommamente sui prezzi delle merci medesime, che si volevano esitare». E ancora, il Vocabolario Treccani registra: «Sono articoli che si esitano con difficoltà», nel senso di “si vendono a fatica”.

Questa oscillazione semantica è la vera ricchezza del verbo: da un lato l’indugio che trattiene, dall’altro l’atto di far uscire o di smerciare. In un solo vocabolo convivono la pausa e lo slancio, il dubbio e la risoluzione, il mercato e la coscienza. Esitare è così un piccolo specchio della lingua: capace di stratificare significati diversi, conservando nel tempo la memoria di gesti opposti ma complementari.

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 Grande, un aggettivo “ribelle”

Una legge grammaticale non consente di troncare (o apocopare) le parole plurali, ma l’aggettivo grande non ha mai voluto sottostare a questa regola. E le grammatiche sembra  non siano interessate all’argomento. Grande, dunque, si può troncare in gran nella forma plurale sia maschile sia femminile: i gran letterati dell’Ottocento; le gran dame del Novecento. La parola che segue, però, non deve cominciare con “s preconsonantica (S impura) o X, Z, e i nessi GN, PS: i gran premi automobilisti, ma i grandi sconti di fine stagione.






venerdì 5 dicembre 2025

Rompere le brocche: quando un tonfo manda all’aria i piani

 

«Quando si rompono le brocche non resta che il tonfo e il vuoto lasciato dai piani sfumati.» Così si apre un modo di dire (forse poco noto) che, nella sua forza visiva e sonora, racconta l’interruzione brusca di un discorso o di un’azione, il mandare all’aria i progetti, il chiudere di colpo una discussione o un affare.

 L’immagine nasce dal rumore improvviso e fastidioso provocato dalla rottura dei recipienti di terracotta, gesto che evoca un colpo secco capace di spezzare la continuità di ciò che stava accadendo. In alcune varianti regionali, come rompere le brenne (dove brenna indica anch’essa un recipiente di terracotta), l’espressione conserva la stessa potenza figurativa. 

Secondo alcuni, l’origine si lega a pratiche rituali in cui si faceva un gran baccano rompendo brocche o percuotendo oggetti di metallo e legno, per interrompere simbolicamente il raccoglimento liturgico o per esprimere una forma di rottura rituale, spesso associata all’ira collettiva o alla fine di una fase di attesa. Altri la interpretano come gesto di scherno, assimilabile al più noto fare chiasso, con l’intento di disturbare o ridicolizzare qualcuno.

Qualche esempio d’uso:

  • Eravamo sul punto di concludere l’accordo, ma il suo intervento improvviso ha finito col rompere le brocche: l’affare è sfumato.

    La riunione procedeva pacifica, finché una battuta fuori luogo ha rotto le brocche e tutti hanno cominciato a litigare.

    Avevamo organizzato la serata nei minimi dettagli, ma il suo ritardo ha rotto le brocche e il programma è saltato.

    Il dibattito politico stava per trovare un compromesso, quando una dichiarazione polemica ha rotto le brocche e ha fatto naufragare l’intesa.

    La compagnia teatrale era pronta a debuttare, ma un imprevisto tecnico ha rotto le brocche e lo spettacolo è saltato. 

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  • Esoterico ed essotericosi presti attenzione a questi due aggettivi perché spesso si confondono per la loro assonanza. Hanno origini e significati differenti, anzi opposti. Il primo significa “segreto”, “occulto”: dottrina esoterica; il secondo significa “pubblico”, “manifesto”, “destinato a tutti”: l’introduzione del testo è scritta in uno stile piacevole ed essoterico. Per l'etimologia dei due sintagmi aggettivali vedere qui e qui.



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giovedì 4 dicembre 2025

Autorimessa: la parola che custodisce l’auto e la lingua

 



Nel paesaggio lessicale italiano, alcune parole si distinguono per la loro trasparenza semantica: sono costruite in modo tale da raccontare, già nella loro forma, la funzione che svolgono. “Autorimessa” è una di queste. Il termine, apparentemente tecnico, racchiude in sé una logica compositiva limpida e una storia che affonda le radici nella lingua e nella cultura del trasporto.

“Autorimessa” è un composto che unisce il prefisso “auto-”, derivato dal greco autós (“sé stesso”), ma qui inteso come abbreviazione di “automobile” o “autoveicolo”, e il sostantivo “rimessa”, che proviene dal verbo “rimettere” nel senso di “riporre”, “mettere al riparo”, “ricoverare”. La rimessa*, infatti, era storicamente il luogo dove si custodivano carrozze, tram, mezzi agricoli: uno spazio di protezione e di sosta. L’unione dei due elementi genera un termine perfettamente descrittivo: autorimessa è, alla lettera, il “ricovero” per le automobili.

Accanto a questo lessema, squisitamente italiano, si è diffuso largamente l’uso del termine “garage”, prestito linguistico dal francese. “Garage” deriva dal verbo garer, che significa “riparare”, “mettere al sicuro”, “mettere al riparo” (in origine si riferiva anche alle navi). Il passaggio nel nostro lessico è stato fluido: “garage” è entrato nell’uso comune, soprattutto nel parlato urbano, ed è ormai accettato come sinonimo di “autorimessa”. Tuttavia, nei documenti ufficiali, nelle normative tecniche (come quelle antincendio) e nei contesti formali, “autorimessa” resta la scelta preferita, proprio per la sua precisione terminologica e la sua coerenza con la struttura della lingua.

La differenza tra i due sintagmi non è solo etimologica, ma anche culturale. “Autorimessa” è una parola italiana costruita per descrivere con esattezza una funzione; “garage” è un prestito che porta con sé un’aura più generica, più internazionale, talvolta più commerciale. Scegliere l’uno o l’altro significa anche posizionarsi rispetto alla lingua: privilegiare la trasparenza compositiva oppure accettare l’ibridazione (si perdoni il barbarismo) lessicale.

Per concludere queste noterelle, “autorimessa” è il termine che dice ciò che fa: ripone, protegge, custodisce. “Garage” è il termine che abbiamo adottato, ma che non abbiamo costruito. Ambi i vocaboli convivono nel nostro vocabolario, ma solo uno palesa, con chiarezza tutta italiana, la funzione che svolge: mettere al riparo la propria auto. E chi scrive lo predilige, come preferisce “rimessista” [da (auto)rimessa + il suffisso -ista] -  anche se non attestato nei vocabolari dell’uso -  a garagista.

Un’auto si custodisce in un'autorimessa, la lingua si custodisce nelle parole giuste.

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Tommaseo-Bellini: Rimessa, si dice anche Quella stanza dove si pone il cocchio, o carrozza. Buon. Fier. 2. 4. 15. (C) Dappoichè s'ha speranza Di riveder aprir botteghe e siti, Che chiusi stati sono, ed in rimesse Da cocchi e da carrozze convertiti. E 3. 4. 9. La casa abbiglia, e fa porte e rimesse Da cocchio. [G.M.] Segner. Quares. 13. 7. Calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse a incendere le carrozze. Fag. Rim. Con stalle, con cavalli e con rimesse.








mercoledì 3 dicembre 2025

Dar fondo a una nave di sughero

 

Un vecchio marinaio, che aveva solcato mari e tempeste, decise un giorno di cimentarsi in un’impresa singolare: dare fondo (affondare) a una nave di sughero. «Se il mondo dice che è impossibile, io lo proverò» pensava, convinto che la sua impresa potesse piegare persino la natura.

Costruì, dunque, una nave interamente di sughero, leggera e galleggiante. La spinse al largo e, con pietre e catene, cercò di affondarla. Ma ogni volta che la nave scendeva, tornava a galla, rendendo inutili i suoi sforzi. Più caricava pesi, più il sughero li respingeva, come se il mare stesso volesse insegnargli una lezione.

Gli abitanti del porto lo osservavano, divertiti e perplessi. «Che senso ha?» dicevano. «È come fare un buco nell’acqua» o «versare acqua nel mare». Tutti capivano che il vecchio marinaio stava sprecando energie in un’impresa vana.

Eppure, proprio grazie a quell’assurdo tentativo, il villaggio imparò a distinguere tra le azioni possibili e quelle destinate al fallimento. Da quel giorno, ogni volta che qualcuno si ostinava in un compito privo di logica, si diceva: «Sta dando fondo a una nave di sughero».

Così nacque un modo di dire raro e prezioso, meno frequente di altri ma più raffinato. Fare un buco nell’acqua rimase l’espressione comune, immediata e diffusa; versare acqua nel mare continuò a evocare la fatica inutile; ma dare fondo a una nave di sughero aggiunse un’immagine paradossale e memorabile, capace di arricchire il linguaggio di chi ama la varietà delle parole.

E ancora oggi il modo di dire trova applicazioni: convincere un “leader” inflessibile, insistere su un progetto senza risorse, tentare di bloccare un “meme” virale o di spegnere un “trend” (si perdoni l’uso dei barbarismi) con un comunicato tardivo… sono tutti esempi di imprese che non portano frutto, proprio come il vecchio marinaio che cercava di affondare ciò che per natura non può... affondare.




martedì 2 dicembre 2025

La diatesi: il respiro nascosto del verbo

 

Ogni verbo porta con sé un piccolo segreto: non dice soltanto che cosa accade, ma anche come il soggetto si colloca rispetto all’azione. È questa la funzione della diatesi, voce discreta ma essenziale della grammatica, che ci permette di distinguere se il soggetto agisce, subisce o si rivolge a sé stesso. Senza di essa, la frase perderebbe direzione e chiarezza, come un corpo privo di ossatura.

Il sintagma “diatesi” viene dal greco antico diáthesis, cioè “disposizione”. È un’immagine eloquente: la diatesi dispone il soggetto, lo colloca in una posizione precisa rispetto al verbo, e così organizza la frase. Non è un dettaglio tecnico, ma un meccanismo che consente di dare enfasi: vuoi mettere in risalto chi compie l’azione o chi la subisce? Vuoi mostrare un gesto che ritorna su chi lo compie? La diatesi è lo strumento che rende possibile questa scelta.

In italiano si distinguono tre forme fondamentali. La diatesi attiva è la più naturale: il soggetto è agente, colui che fa. “Il cuoco prepara la cena” è un esempio limpido: il cuoco agisce, la cena è l’oggetto. Anche nei verbi intransitivi, come “L’atleta corre”, il soggetto resta protagonista dell’azione. La diatesi passiva, invece, rovescia la prospettiva: il soggetto diventa paziente, subisce ciò che altri compiono. “La cena è preparata dal cuoco” mostra bene il meccanismo: la cena non fa nulla, ma riceve l’azione. La regola è chiara: solo i verbi transitivi possono assumere questa forma, costruita con l’ausiliare essere o venire più il participio passato. Infine, la diatesi riflessiva introduce un gioco di specchi: il soggetto è insieme agente e paziente, perché l’azione ricade su di lui. “Il bambino si lava” è un esempio tipico: il bambino compie l’azione e nello stesso tempo la subisce, grazie al pronome riflessivo che rimanda l’atto su chi lo ha iniziato.

Ma la storia della diatesi non si ferma qui. Nelle grammatiche antiche, soprattutto greche, si parlava anche di una forma “media”, in cui il soggetto partecipa all’azione con un coinvolgimento particolare, spesso a proprio vantaggio. È una sfumatura che in italiano si riflette talvolta nelle costruzioni riflessive o reciproche. Esiste poi un fenomeno curioso e tipicamente italiano: il cosiddetto si passivante, che permette di rendere una frase impersonale o passiva senza nominare l’agente. Dire “Si vendono libri antichi” equivale a “I libri antichi sono venduti”, ma con un tono più neutro e diffuso. Anche la terminologia rivela differenze culturali: in inglese si parla di voice, cioè “voce”, mentre in italiano si preferisce “diatesi”, che sottolinea la disposizione del soggetto.

La diatesi, insomma, non è soltanto un’etichetta grammaticale: è un modo di leggere il mondo. Pensiamo alla differenza tra dire “Io ho scelto” e “Sono stato scelto”: cambia la prospettiva, cambia il ruolo del soggetto, cambia perfino la percezione di responsabilità. Oppure, nel riflessivo, “Mi sono convinto”: qui il soggetto diventa protagonista di un processo che lo riguarda intimamente. La diatesi, insomma, non è un artificio astratto, ma un dispositivo che plasma il senso delle frasi e la loro forza comunicativa.

Per riconoscerla basta porsi una domanda semplice: cosa fa il soggetto in questa frase? Se agisce, siamo nella diatesi attiva; se subisce, nella passiva; se l’azione torna su di lui, nella riflessiva. È un criterio pratico che illumina la struttura della lingua e ci ricorda che ogni verbo non è mai neutro, ma porta con sé una precisa disposizione del soggetto. La diatesi, insomma, è il respiro nascosto del verbo: ordina, chiarisce, dà fluidità al discorso e ci permette di cogliere la sottile danza tra chi fa e chi subisce, tra chi agisce e chi si riflette, tra chi si mostra e chi si nasconde dietro la voce impersonale.

La diatesi è la bussola del verbo: senza di essa il soggetto si smarrisce, con essa trova la sua posizione.

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Avere i rostri al naso


I
n un villaggio di mare si racconta di un ragazzo che portava sul volto un segno singolare: il suo naso pareva armato di punte, come i rostri delle antiche navi romane. Quei rostri, dal latino rostrum -  becco, muso, ma soprattutto sperone bronzeo che serviva a speronare le navi nemiche - diventavano sul suo volto un simbolo di carattere. Non era cattivo, ma quando qualcuno lo provocava avanzava con il naso in avanti, pronto a colpire non con i pugni, bensì con parole taglienti e fermezza ostinata.

Gli anziani, che ricordavano le flotte romane e i loro rostri, cominciarono a dire che quel ragazzo “aveva i rostri al naso”. Da allora l’espressione non indicò più soltanto lui, ma chiunque mostrasse un atteggiamento combattivo e pungente. Così, nel villaggio si sentiva dire: “Non discutere con Marta: oggi ha i rostri al naso”, oppure “Quel giornalista scrive con i rostri al naso, non risparmia nessuno”. E ancora: “Quando si sente minacciato, tira fuori i rostri al naso e non c’è verso di fermarlo.”

La locuzione, nata come immagine narrativa, con il tempo si è "trasformata" in un modo di dire non molto conosciuto, ma capace di designare con forza chi affronta la vita con il volto armato, pronto a speronare ostacoli e avversari. È un’espressione che conserva il sapore antico delle navi romane e lo trasporta nel linguaggio quotidiano, offrendo una metafora incisiva per descrivere caratteri spigolosi e combattivi.















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