Nella lingua di Dante e di Manzoni la precisione non è un “lusso” ma una necessità: ogni parola porta con sé un peso semantico e un valore sintattico che non può essere trascurato. Spesso, per abitudine o per fretta (o per ignoranza?), si inseriscono – nello scritto e nel parlato - espressioni ridondanti che non aggiungono nulla al senso, anzi lo confondono. Tra queste, una delle più insidiose è la locuzione “ha detto così…”, ossia l’uso errato di “così” dopo il verbo “dire”: “ha detto così il direttore di dare la precedenza agli articoli di cultura”. Una formula apparentemente innocua, ma in realtà scorretta e fuorviante.
Il verbo “dire” deriva dal latino dicere, che significa “pronunciare, esprimere a parole, enunciare”. È un verbo transitivo che regge direttamente il complemento oggetto: si dice qualcosa, non si dice “così qualcosa”. L’avverbio “così”, dal latino eccum sic (“ecco in questo modo”), ha la funzione di qualificare un’azione o un modo, non di introdurre un contenuto. Serve a indicare modalità, non a presentare un discorso o uno scritto.
Quando si afferma “ha detto così il direttore…”, si crea un cortocircuito sintattico: l’avverbio “così” non ha alcun referente, non specifica alcun modo, e rimane sospeso, privo di funzione. È un’aggiunta pleonastica che disturba la linearità della frase. La forma corretta è semplicemente: “ha detto il direttore di dare la precedenza agli articoli di cultura”. In questo caso, il verbo “dire” introduce direttamente il contenuto, senza bisogno di intermediari.
L’errore nasce, probabilmente, da un calco orale, da quella tendenza colloquiale a inserire “così” come riempitivo, un po’ come si fa con “tipo” o “insomma”. Ma la lingua scritta, soprattutto quella giornalistica o istituzionale, non può permettersi simili scivolamenti. Il “così” in questa costruzione non solo è inutile, ma è errato: non qualifica nulla, non chiarisce nulla, non aggiunge nulla.
Sotto il profilo etimologico è interessante notare come “così” abbia mantenuto nei secoli la sua funzione di avverbio di modo. Già nei testi medievali lo troviamo per indicare “in tal maniera”: “così parlò il maestro”, “così si fece”. In questi casi l’avverbio è legittimo perché introduce o riprende un modo di dire o di fare. Ma quando lo si inserisce tra il verbo “dire” e il complemento oggetto si spezza la logica della frase. È come se volessimo dire “ha detto in questo modo il direttore di dare la precedenza…”, ma senza che vi sia un confronto o un paragone con altri modi. La frase resta monca e appesantita da un elemento che non ha ragione d’essere.
La lingua, per sua natura, tende alla chiarezza e alla economia: ogni parola deve avere una funzione. Eliminare il “così” in casi come questo non è una scelta stilistica, ma un dovere grammaticale. È un ritorno alla linearità latina, dove il verbo introduce direttamente il contenuto, senza avverbi superflui.
Dire è già “così”: aggiungere “così” è un errore che confonde il senso e tradisce la precisione.
La parola è come la freccia: una volta scoccata non torna indietro.
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Parla come mangi: la lingua è pane quotidiano
La lingua (o il linguaggio), come il cibo, vive di semplicità. L’espressione “parla come mangi” nasce dall’idea che ciò che è genuino non ha bisogno di artifici: un piatto buono si riconosce dagli ingredienti chiari e sinceri, così come un discorso efficace si riconosce dalle parole dirette e comprensibili. Questo modo di dire, diffuso nella tradizione italiana, è una reazione alla retorica eccessiva e ai tecnicismi che rendono la comunicazione opaca. È un invito a parlare con naturalezza, senza complicazioni inutili, proprio come si mangia un pane fragrante o una pasta condita con semplicità.
In un Paese dove il cibo è parte integrante dell’identità culturale, non sorprende che la cucina diventi metafora del linguaggio. “Parla come mangi” celebra la stessa virtù che si riconosce al pane: la chiarezza. È un motto che ricorda come la lingua debba nutrire, essere accessibile e condivisibile, senza escludere nessuno. Oggi la locuzione si adopera per ammonire chi si esprime con parole troppo sofisticate, ma anche come monito quotidiano: la comunicazione migliore è quella che arriva a tutti, senza filtri e senza maschere.
In fondo, parlare come si mangia significa restituire alla lingua la sua funzione primaria: essere strumento di incontro, di scambio e di comunità. Così come il cibo unisce attorno a una tavola, le parole semplici uniscono attorno a un pensiero.

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