giovedì 31 luglio 2025

Tra imposizione e proposta - Quando la semantica traccia il confine tra comando e invito

 

Nel vasto campo della nostra lingua, alcuni verbi non si limitano a descrivere azioni: raccontano intenzioni, tracciano confini, evocano visioni del mondo. “Imporre” e “proporsi”, apparentemente simili nella radice, disegnano invece due traiettorie opposte nel modo di affermarsi. Il primo irrompe, il secondo si offre. In queste noterelle ci addentriamo nel fascino sottile che distingue l'autorità dalla disponibilità, la decisione dalla speranza, perché anche il gesto linguistico, a volte, è una questione di stile.

Il nostro lessico è ricco di sintagmi verbali che sembrano incarnare lo stesso slancio, quasi i due volti di una medesima tensione espressiva. Imporre e proporsi, pur muovendosi entrambi nella sfera dell’affermazione e dell’iniziativa, si collocano agli antipodi quanto a direzione, volontà e intensità del gesto.

Il primo, Imporre, di origine latina, nasce dall’incontro fra in- e ponĕre, “porre dentro” o “porre sopra”, con una forza che non chiede ma decide. Il verbo irrompe nella frase come fa un decreto in un’aula: stabilisce, determina, modifica. Si impongono regole, idee, presenze. L’autorità si impone. Il silenzio si impone. Persino un’emozione può imporsi: forte, improvvisa, indiscutibile. Non c’è spazio per il dialogo; c’è l’azione che cala dall’alto, netta, irrevocabile.

Eppure imporre, nella sua “durezza”, conserva una nobiltà semantica: è il verbo delle scelte forti, delle dichiarazioni intransigenti, dei tratti netti che scolpiscono il paesaggio linguistico come incisioni. Imporre, dunque, non sempre è prevaricare: talvolta è solo voler essere, intensamente.

Di tutt’altro tono proporsi (anche questo di origine classica: da pro- e ponĕre). È un verbo riflessivo che porta con sé delicatezza e intenzione. Proporsi è mettersi avanti, ma senza irrompere, senza usare la “forza”. Si propone un’idea, ci si propone per un ruolo, ci si propone un obiettivo. È il verbo delle ambizioni gentili, degli inviti impliciti, delle presenze che non forzano ma attendono.

Nel verbo riflessivo proporsi risuona l’etica dell’attesa: il soggetto non occupa, ma offre. È il contrario speculare di imporre: dove uno irrompe, l’altro si presenta; dove uno stabilisce, ordina, l’altro suggerisce, consiglia.

Entrambi, come insediare e assediare, gravitano attorno al gesto del porre. Ma mentre imporre è il porre autoritario, proporsi è il porre dialogico. Tutt’e due mirano all’affermazione; ma il primo prende, il secondo spera.

 È qui che la lingua, nella sua finezza, disegna traiettorie divergenti: il gesto è simile, ma l’intenzione lo trasforma. Imporre è affermarsi sopra, proporsi è offrirsi davanti. E tra i due c’è tutto lo spazio del rispetto, della forza, del desiderio.

Due verbi, due stili di esistere, dunque: c’è chi entra in scena con un colpo di tamburo e chi si propone con la grazia di un invito. Ma se la lingua è anche teatro, qual è il vostro ruolo? Siete più da “imporre con forza” o da “proporsi con arte”? Raccontateci i vostri verbi, le vostre scelte, il vostro stile: il dibattito è aperto… e non ha bisogno di permesso per cominciare. Il palco è vostro.






mercoledì 30 luglio 2025

Cellularista: da utente a professionista dei telefoni

 


I
l lessico italiano è vivo e in continua evoluzione, e a volte basta una piccola intuizione per aprire nuove strade semantiche. È il caso del termine cellularista, registrato come neologismo dal Vocabolario Treccani in rete, dove viene definito:

Chi usa abitualmente il telefono cellulare.

Una definizione nata probabilmente in risposta all’uso diffuso e quasi totalizzante del cellulare nella vita quotidiana. Ma se analizziamo più a fondo la struttura del sintagma, qualcosa non torna: il suffisso -ista, nella tradizione linguistica italiana, denota una professione o una specializzazione (basti pensare a parole come fiorista, elettricista, gommista). Cellularista, pertanto, non ci sembra appropriato - stando al significato del suffisso "-ista" - per definire colui che usa il telefono cellulare. È perfetto, invece, per indicare la persona che si occupa della riparazione e manutenzione dei telefoni cellulari.

Immaginare un cellularista come:

  • Professionista delle tecnologie mobili

    Tecnico esperto in diagnostica digitale

    Artigiano del microchip e del vetro temperato

...non solo rende giustizia al suffisso, ma valorizza una figura sempre più centrale nel mondo iperconnesso di oggi. In questo senso, il termine acquista nuova dignità: non più semplice “fruitore compulsivo di smartphone”, ma custode e 'guaritore' degli strumenti mobili che ci tengono in contatto con il mondo. Si potrebbe lemmatizzare così:

Cellularista (s.m./s.f.) – Professionista specializzato nella diagnosi e riparazione di telefoni cellulari. Dall’italiano “cellulare” + suffisso “-ista” indicante professione.


(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


Sedersi o stringere d’assedio? Viaggio etimologico tra “insediare” e “assediare”

 

Ci sono verbi – nel nostro meraviglioso idioma – che pur somigliandosi come fratelli -  nel “corso della vita” - hanno preso strade diverse. Insediare e assediare sono tra questi: condividono la stessa radice latina, sedere (“sedersi”), ma divergono nel prefisso e nel destino semantico.

Insediare nasce dall’unione di in- e sedere, attraverso il sostantivo sedia, inteso non come semplice oggetto, ma come “sede”, “posto”, “dimora”. Il sintagma designa l’atto di collocare qualcuno o qualcosa in una posizione stabile, spesso con un tono ufficiale o istituzionale. Il nuovo rettore si è insediato nell’Ateneo con un discorso sobrio e incisivo. La comunità si è insediata nel borgo abbandonato, riportandolo in vita.

Ma il medesimo verbo può acquisire sfumature più neutre o persino sgradite, pur conservando l’idea di stabilizzazione: Il gelo si è insediato nei campi, rendendo impossibile la semina. Un gruppo di turisti si è insediato nella casa vacanze e non accenna a partire.

Assediare, invece, non deriva da ad- + sedere come si potrebbe pensare, ma è un rifacimento medievale del latino classico obsidēre, composto da ob- (“davanti, contro”) + sedere (“sedere”), con il significato di “porre l’assedio”, “occupare”, “bloccare”. Il verbo si è evoluto nel latino medievale, probabilmente influenzato dal sostantivo assedium (assedio), e conserva nella sua forma attuale l’idea di stazionamento ostile davanti a un luogo per impedirne l’accesso o costringerlo alla resa. Le truppe nemiche hanno assediato la città per settimane, tagliando i rifornimenti. La stampa lo assediava con domande, senza lasciargli il tempo di respirare.

Anche in senso figurato, assediare conserva la tensione del verbo: L’ansia lo assediava ogni notte, impedendogli di dormire. I pensieri lo assediavano come api impazzite attorno alla testa.

La differenza tra i due verbi è sottile ma profonda: insediare è entrare e stabilirsi, assediare è circondare e premere. Il primo implica una presa di posizione, il secondo una pressione esterna. Il comandante si è insediato nel palazzo (è dentro, ha preso possesso). Il nemico ha assediato il palazzo (è fuori, lo stringe d’assedio).

Eppure, entrambi raccontano una forma di occupazione: una legittima, l’altra ostile. La lingua li ha fatti divergere, ma la radice comune li tiene legati come due poli di uno stesso gesto: sedersi, sì, ma dove e con quale intenzione?

martedì 29 luglio 2025

Il sacerdote delle piscine - Il gesto sacro che protegge i riflessi

 

Nel cuore silenzioso delle piscine pubbliche, esiste una figura invisibile che veglia sull’armonia dell’acqua: il vaschista. Questo racconto celebra Aldo, custode del respiro acquatico, e ci ricorda che dietro ogni bracciata serena c’è qualcuno che ascolta l’acqua ogni mattina. Una storia di cura, memoria e ritorno. 


C’era una volta un mestiere dimenticato, invisibile agli occhi di chi nuotava spensierato tra spruzzi e risate. Un mestiere senza nome, silenzioso e fondamentale. Ma tra le correnti limpide di una piscina pubblica, lui esisteva, agiva, vegliava. Si chiamava il ‘vaschista’.

Aldo, il ‘vaschista’, viveva ai margini della città, sopra una centrale termica che sembrava respirare cloro e silenzio. Tutti i giorni, prima che il mondo cominciasse a muoversi, lui scendeva nel cuore liquido della piscina. Non c’erano applausi né occhi a celebrarlo. Indossava la sua tuta blu, afferrava la valigetta con reagenti misteriosi e si avvicinava alla vasca come un sacerdote davanti al suo altare.

Misurava il pH con gesti lenti, annusava l’acqua, ascoltava il suo respiro. Non si fidava solo dei numeri. Il suo compito era quello di preservare ciò che era trasparente, ma anche quello che era invisibile: sicurezza, armonia, memoria. Diceva ai pochi che gli parlavano: “Se l’acqua canta, è perché qualcuno l’ascolta tutte le mattine.”

Un giorno Aldo si ammalò. Gli subentrò una società automatizzata, con sensori e ‘timer’ digitali. All’inizio tutto sembrava funzionare: il cloro veniva dosato, la temperatura regolata. Ma poi successe qualcosa. I bambini cominciarono a uscire con gli occhi rossi. Le piastrelle diventavano viscide. Il riverbero della vasca si faceva opaco, e nessuno sapeva perché.

Fu allora che qualcuno si ricordò di Aldo. Lo chiamarono, lo pregarono di tornare non appena si fosse rimesso. Lui lo fece senza rumore. Ritornò fra tubi e vasche, riaprì il manuale del respiro acquatico. In pochi giorni, l’acqua tornò limpida. I colori erano vivi. Le bracciate diventavano lievi, i sorrisi veri.

Il consiglio comunale, colpito, registrò ufficialmente quel mestiere dimenticato e scrisse anche una lettera alla locale Accademia perché lo mettesse a lemma nel suo vocabolario. E ‘vaschista’ entrò nei documenti, nei corridoi delle piscine, nel rispetto dei bagnanti.

Da quel giorno, ogni vasca sorvegliata porta con sé un frammento di Aldo. E chi entra senza accorgersene, sente solo che tutto è giusto: la temperatura, il riflesso, il silenzio. Non sa perché. Ma da qualche parte, c’è sempre un ‘vaschista’ che lo ha già protetto.












lunedì 28 luglio 2025

La sindrome del burocratese: il virus ‘vigente’ colpisce ancora

 

C’è un’espressione che si aggira come uno spettro tra le pagine dei giornali, i comunicati ufficiali e le circolari ministeriali: secondo le vigenti leggi. La si incontra spesso, tanto spesso che ormai pare innocua, quasi rispettabile. Ma facciamo un respiro, recuperiamo un dizionario (o Google, per i più tecnologici) e chiediamoci: cosa vuol dire vigente?

Semplice: che è in vigore. Niente di più, niente di meno. Quindi, quando il cronista scrive: Il giudice ha applicato la legge vigente, sta dicendo ciò che il buon senso già dà per scontato. Non c'è alcun bisogno di specificare che la legge è in vigore: sarebbe come dire Pomponio ha pagato con denaro valido, in corso o ha guidato su strada asfaltata e percorribile. Ringraziando Dio, nessuno guida su strade chiuse al traffico (non percorribili o applica leggi abrogate), e i giudici non vivono in universi paralleli dove si prendono decisioni basate su codici del passato remoto.

Questa orrenda inflazione linguistica dell’aggettivo vigente nasce forse da un timore reverenziale verso la burocrazia: si pensa che aggiungere parole altisonanti renda il testo più autorevole. In realtà, lo gonfia solo di pomposità inutile. Peggio ancora, lo rende comico. Immaginiamo, per esempio, un annuncio così: Secondo le vigenti norme condominiali, è vietato calpestare le aiuole. E secondo quali altre norme sarebbe vietato? Quelle del 1873? Quelle scritte col pennino su carta intestata ingiallita?

La precisione non si ottiene con sovraccarichi lessicali, ma con l'uso corretto e sobrio della lingua. Dire il giudice ha applicato la legge basta e avanza, perché sappiamo benissimo che, salvo crisi di coscienza o deliri temporanei, un giudice non si sveglia decidendo di tirare in ballo leggi ormai sepolte nella memoria del Parlamento.

E ora un paio di esempi concreti per meglio “assimilare” il concetto:

  • Errato: “L’imputato è stato condannato secondo la vigente normativa in materia di reati fiscali.”

    Corretto: “L’imputato è stato condannato secondo la normativa in materia di reati fiscali.”

Si nota la differenza? Il secondo è pulito, diretto, credibile. Il primo sembra scritto da un impiegato sotto l’effetto di circolari ministeriali.

In conclusione, vigente è utile quando si deve distinguere tra una legge vecchia e una nuova (per esempio in ambito comparativo), ma nell’uso comune è superfluo, anzi errato, a nostro modo di vedere. Abusarne è come mettere il turbo su una bicicletta: non serve e fa pure sbellicare dalle risa.

(Si veda anche "A norma di legge", del 26 luglio scorso, in calce all'articolo "Dalla schiavitù alla cordialità: gli slavismi nascosti nel nostro lessico").

 

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La lingua “biforcuta” della stampa

Quali sono i paesi più pericolosi da visitare? Ecco la lista nera dell'estate 2025

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Correttamente: Paesi (P maiuscola). La legge grammaticale prescrive l’iniziale maiuscola di paese quando questo sta per “Stato”, “Nazione”.




domenica 27 luglio 2025

Riparare o aggiustare? Quando le parole sistemano più di un guasto

 

Nel dinamico universo dell’italico idioma, molte parole sembrano equivalersi ma celano sfumature preziose che arricchiscono il pensiero e affinano l’espressione. I verbi “riparare” e “aggiustare”, di uso quotidiano e apparentemente intercambiabili, racchiudono differenze che vanno oltre la semplice semantica. Comprendere la loro origine, il loro uso proprio e il “valore” che ciascuno porta con sé ci aiuta a comunicare con maggiore precisione e sensibilità. Vediamo.

“Riparare” deriva dal latino reparare, composto da re- (di nuovo) e parare (preparare, approntare). Il significato originale è dunque “preparare nuovamente”, “rimettere in sesto”. Storicamente il sintagma si è legato al concetto di rimediare a un danno, restituire la funzionalità a qualcosa che ha subito un guasto o un malfunzionamento.

“Aggiustare”, invece, ha radici latine medievali ed è formato da ad- (verso) e justare, cioè “rendere giusto”, “portare alla giustezza”. L’idea non è solo quella di ripristinare, ma anche di armonizzare, rendere adeguato, trovare una soluzione. È un verbo più elastico, che può riferirsi sia alla riparazione materiale sia a un compromesso morale o emotivo.

Nell’uso corrente quotidiano, “riparare” è spesso associato a contesti tecnici o meccanici. Si ripara un televisore, una gomma bucata, una crepa nel muro. L’accezione richiama, dunque, l’intervento di un esperto, con strumenti e competenze specifiche. “Riparare” è preciso, chirurgico, legato all’efficienza.

“Aggiustare”, al contrario, è un verbo più colloquiale e versatile. Si aggiusta un orlo, si aggiusta il volume della radio, si aggiustano le cose in famiglia dopo una lite. In alcune zone d’Italia, “aggiustare” acquista anche il significato di “adattare”, come nel caso di “aggiustare il tiro” (modificare la direzione), o “aggiustare i conti” (riequilibrare una situazione).

Alcuni esempi faranno maggiore chiarezza:

  • “Ho riparato il frullatore: era bruciato il motore.” ( L’intervento tecnico riporta il dispositivo alla funzionalità originaria);

    “Ho aggiustato il frullatore: si era staccata la manopola.” (Un intervento più leggero, una sistemazione materiale);

    “Abbiamo aggiustato le divergenze con un accordo.” (Uso figurato, non riferito a un oggetto, ma a una situazione);

    “Il sarto ha riparato lo strappo nel vestito.” (Intervento preciso su un danno);

    “Il sarto ha aggiustato la lunghezza dei pantaloni.” (Adattamento personalizzato).

Pur essendo sintagmi verbali spesso intercambiabili, “riparare” si afferma per la sua componente di ristabilimento, mentre “aggiustare” si distingue per la sua versatilità e la sua capacità di attraversare il concreto e l’astratto.

A questo punto, un piccolo aneddoto che “illumina” il valore simbolico di questi due verbi. In Giappone esiste un’antica arte chiamata kintsugi, che consiste nel riparare oggetti di ceramica, rotti, riempiendo le crepe con oro liquido. L’oggetto non torna, però, com’era prima: diventa più bello, perché le sue crepe sono rese visibili e impreziosite. È una forma di “riparazione” che diventa “aggiustamento” poetico, un modo per dire che ciò che è stato rotto può essere non solo sistemato, ma anche valorizzato. Questo aneddoto ci ricorda che “riparare” può essere un atto tecnico, ma anche profondamente umano; e “aggiustare” può essere un gesto di cura, di accettazione, di bellezza.

A conclusione di queste noterelle, scegliere tra i due sintagmi verbali non è solo una questione di stile, ma di intenzione: vuoi correggere un guasto o vuoi trovare una soluzione? La lingua italiana, con la sua finezza, ci offre più di una via, basta prendere quella giusta.








 


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La lingua “biforcuta” della stampa

Medio Oriente

Flotilla, gli attivisti: le navi israeliane si stanno avvicinano. L'Idf: siamo pronti

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Sì, ci ripetiamo. Gli operatori dell’informazione, facendo affidamento sulla loro “infallibilità orto-sintattico-grammaticale”, non rileggono ciò che scrivono.

 

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Il paese più longevo del mondo? È un borgo sardo in cui il tempo si è fermato

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Senza commenti.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)



sabato 26 luglio 2025

Dalla schiavitù alla cordialità: gli slavismi nascosti nel nostro lessico

 

Nell’immenso calderone della nostra bella e musicale lingua ci sono “ingredienti” sorprendenti: termini che hanno attraversato confini, secoli e rivoluzioni semantiche per arrivare fino a noi. Tra questi, spiccano alcuni vocaboli slavi che, silenziosi ma tenaci, si sono ritagliati un posto nel lessico italiano. Non sono moltissimi, ma quelli entrati nel nostro vocabolario hanno spesso storie affascinanti che vale la pena raccontare. E ce n’è uno, in particolare, che nasconde un’inaspettata metamorfosi: schiavo.

Sì, avete letto bene. Il lessema proviene dal latino medievale sclavus, che designava gli abitanti dell’Europa orientale, in particolare gli Slavi. Nei secoli bui del Medioevo, molti di loro vennero ridotti in servitù da popolazioni occidentali, e così il termine passò dal significare “persona appartenente al popolo slavo” a indicare genericamente chi era in condizione di schiavitù. Il cambio di significato fu talmente profondo da oscurarne le radici etniche.

Ora, ecco il colpo di scena: da schiavo, attraverso le forme di saluto servile come schiavo vostro o sono vostro schiavo, nasce nientemeno che… ciao. Il nostro più iconico saluto informale, usato dappertutto da Trieste a Tokyo, è un piccolo gioiello di evoluzione linguistica. In origine, nei territori della Serenissima e in particolare a Venezia, era comune dire “s-ciavo vostro” in segno di rispetto o deferenza. Con il trascorrere del tempo questa formula si è contratta in ciao, perdendo ogni connotazione servile e trasformandosi nel saluto universale che oggi conosciamo: breve, amichevole, caloroso.

Oltre a schiavo, altri slavismi hanno trovato “casa” nel nostro dizionario. Alcuni arrivano dalla cucina, come paprika e vodka. Il primo termine è una spezia dalle mille sfumature, con origini ungheresi ma presente anche nei Balcani, diventata familiare nelle cucine italiane più audaci. Il secondo, inutile dirlo, ha conquistato bar e "cocktail" d'autore, importando un pezzo di Russia nei nostri aperitivi.

Ma non finisce qui. Anche l’ambito politico e storico ha offerto termini dal “sapore” slavo: soviet, cosacco, gulag. Parole intrise di ideologie, conflitti e memorie, che oggi usiamo talvolta anche metaforicamente: soviet per indicare rigide strutture burocratiche, gulag come emblema di repressione, cosacco per evocare forza e disciplina.

Infine, ci sono i prestiti culturali: babushka, affettuoso e pittoresco, che ci regala l’immagine della nonna russa col fazzoletto vista, spesso, nei film; steppe, che richiamano spazi immensi, gelidi, inesplorati. Tutte queste parole sono arrivate a noi attraverso romanzi, film e racconti, sedimentandosi nel linguaggio e nell’immaginario.

Per concludere, anche se gli slavismi non occupano un capitolo sterminato del dizionario italiano hanno lasciato tracce significative. Alcuni sono visibili, altri nascosti come radici sotto terra, ma tutti testimoniano l’incredibile viaggio delle parole e l’intreccio di culture che ci rende linguisticamente vivi.

E la prossima volta che direte ciao, fermatevi un secondo: state pronunciando il ricordo di un lungo percorso che parte dai confini d’Europa e arriva dritto al cuore del nostro idioma.

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“A norma di legge”


L’
espressione a norma di legge sembra uscita da una tipografia ministeriale degli anni ’70: rigida, inamidata, e convinta di essere il baluardo della precisione. In realtà, è un piccolo paradosso linguistico. La parola norma è già, per definizione, una disposizione giuridica: può essere una legge, un regolamento, una direttiva, persino un comma capriccioso. Dire a norma di legge equivale a scrivere a legge di legge, come se si dicesse secondo la pizza della pizza in un menù napoletano.

Questa tautologia - e le sue varianti: a norma di regolamento, a norma di normativa, a norma di disposizione - pullula nei documenti amministrativi, dove sembra che il verbo scrivere venga confuso con il verbo moltiplicare. Non conta cosa si dice, ma quante volte lo si può ripetere travestendolo da tecnicismo.

Ecco alcuni esempi che il buon senso grammaticale dovrebbe scoraggiare, ma che l’abitudine ha reso quasi invisibili:

  • Il contratto è redatto a norma di normativa europea. Correttamente: Il contratto è redatto in conformità della normativa europea.

    L’accesso ai dati avviene a norma di disposizioni interne. Correttamente: L’accesso ai dati avviene secondo le disposizioni interne.

    Il presente provvedimento è adottato a norma di regolamento attuativo. Correttamente: Il presente provvedimento è adottato conformemente al regolamento attuativo.

Se ne potrebbe trarre un assioma tragicomico: “Più un testo è burocratico, più le parole si autocitano”.

Ma l’ironia si nasconde anche nei tentativi di alleggerire il burocratese. Qualche solerte funzionario, impavido, scrive secondo quanto previsto a norma di legge, un “incesto lessicale” che assomiglia a un pendolo: va avanti e indietro fra sinonimi, ma non arriva mai al punto.

La verità è che esistono alternative molto più pulite ed efficaci:

  • Secondo la legge

    In conformità della normativa attuale

    Come stabilito dal regolamento

    Ai sensi dell’articolo X (quando si vuole essere tecnici, ma precisi)

Queste formule rispettano la logica della lingua, risparmiano inchiostro (virtuale) e, soprattutto, non fanno inciampare il lettore.

Chiudiamo queste noterelle con una riflessione: il linguaggio giuridico non deve necessariamente essere oscuro. Può essere rigoroso senza diventare ridondante, elegante senza perdere sostanza. Perché la chiarezza è una forma di rispetto, tanto verso la norma quanto verso chi la legge.







venerdì 25 luglio 2025

Il cacòmetro: quando la poesia inciampa e la metrica vibra

 

Il cacòmetro (probabilmente poche persone lo hanno sentito nominare) è uno di quegli “oggetti linguistici” curiosi, rari e affascinanti, che sembrano provenire da un mondo parallelo dove la poesia si misura con strumenti da laboratorio e il brutto diventa unità di analisi. Il suo nome proviene dalla fusione del prefisso greco caco-, che significa "cattivo", "brutto", con -metro, dal greco metron, "misura". Letteralmente, dunque, un cacometro è un "misuratore del brutto" (o del “cattivo”), ma l’ambito d’uso principale non è estetico quanto tecnico.

Storicamente attestato in alcuni dizionari specialistici, come il Tesoro della lingua spagnola dell'Accademia Reale Spagnola (cacómetro), il lemma viene adoperato in senso figurato per designare uno strumento - reale o immaginario - che serve a rilevare l’irregolarità metrica in un verso. L’uso è principalmente critico o didattico: un modo semiserio, ma efficace, per segnalare il caso in cui un testo in versi devia da uno schema metricamente corretto, come l’endecasillabo o il settenario. Non si tratta, pertanto, di ‘giudicare’ la bellezza o la bruttezza di un componimento, ma la sua dissonanza formale. Il cacometro “suona” – metaforicamente, quindi - ogni volta che un verso inciampa nel ritmo o si allunga e si accorcia in modo non previsto.

In ambito poetico e letterario, il lessema in oggetto può comparire nelle analisi metriche più severe, come segnale ironico di fallimento ritmico. Non è raro trovarlo menzionato in articoli umoristici, racconti o testi accademici in cui la metrica viene trattata come materia viva e pulsante, suscettibile di disfunzioni che devono essere corrette. È anche uno strumento immaginario usato con spirito ludico: un cacometro che vibra nelle mani di un critico durante una lettura pubblica, o che segnala un errore quando uno studente inciampa in una rima forzata.

Al di fuori della poesia, il cacometro può diventare un mezzo satirico utile a valutare il linguaggio sgraziato in altri contesti: discorsi pubblici, testi musicali, comunicati aziendali. Il suo potenziale ironico è vasto. Si potrebbe parlare, per esempio, di cacometria applicata alla retorica politica, quando frasi pompose e storte generano un senso di disagio sonoro. In questo caso, il cacometro diventa un “operatore di igiene linguistica”, segnalando dove il linguaggio perde equilibrio e grazia.

Va detto, per onestà, che il termine non è a lemma nei vocabolari più comuni della lingua italiana, come Treccani o Zingarelli. Tuttavia, si trova in contesti linguistici spagnoli ed è stato occasionalmente impiegato anche in italiano in chiave scherzosa o specialistica. Il suo fascino, pertanto, risiede proprio nella sua rarità: è una parola da collezionisti, da cultori della metrica, da giocatori di parole.

Pensarlo come uno strumento reale ci aiuta a riflettere su quanto la lingua, e in particolare la poesia, abbia bisogno non solo di ispirazione, ma anche di misura. Il cacometro non è il nemico della libertà poetica, ma piuttosto il vigile segreto dell’armonia. Quando il suo ago si muove, non denuncia, ma avverte, segnala che qualcosa nella musica del linguaggio ha smesso di suonare correttamente.





giovedì 24 luglio 2025

Per colmare alcuni vuoti lessicali...


 
Proposta di neologismi per colmare il vuoto lessicale nella denominazione del lutto affettivo non codificato.

Nella lingua italiana (e non solo) esiste una singolare lacuna lessicale: la mancanza di termini univoci e condivisi per indicare soggetti colpiti da un lutto affettivo che esula dalle categorie tradizionalmente codificate. Se esiste il “vedovo” per la perdita del coniuge e “orfano” per la perdita dei genitori, mancano parole per indicare:

il genitore che perde un figlio,

il fratello o la sorella che perde un fratello o una sorella

il figlio che perde un genitore (oltre “orfano”, che ha limiti semantici e sociologici),

persino una variabile coniugale che tenga conto della pluralità affettiva contemporanea.

A partire da un lavoro di riflessione onomaturgica condotto con rigore linguistico e tensione etica, si propongono i seguenti neologismi:

Orbofiliale -  Composto da orbo (dal latino orbus, “privo di”) + filiale (da filialis, “relativo al figlio”). Significa “genitore che ha perso un figlio o una figlia”. Neologismo fortemente trasparente: evoca immediatamente la privazione di un legame genitoriale. Non è metaforico né eufemistico: è parola piena, che restituisce dignità nominativa a una condizione finora priva di nome.

 Orbofraterno - Orbo + fraterno. Indica chi ha perduto un fratello o una sorella. Mantiene chiarezza semantica, evitando sovrapposizioni improprie con altri termini affettivi. È adatto sia al contesto narrativo sia a quello terapeutico e commemorativo.

 Orbogenitoriale - Orbo + genitoriale. Indica il figlio o la figlia che ha perso il proprio genitore. Non si pone in concorrenza con “orfano”, ma amplia il registro linguistico disponibile, soprattutto nei contesti adulti, psicologici o memorialistici.

Orboconiugale - Orbo + coniugale. Termine che può affiancare o arricchire il concetto di “vedovo”, rimuovendone l’aspetto giuridico o burocratico e aprendo a contesti affettivi più fluidi. Può essere utile in ambiti letterari, psicologici o sociologici.

Questa proposta nasce dall'esigenza non solo linguistica, ma antropologica: dare un nome al lutto significa riconoscerne l’esistenza. Senza parole, l’esperienza rischia di restare invisibile, non trasmissibile, relegata al silenzio. L’adozione di questi neologismi potrebbe aprire nuove strade per la narrazione, la psicologia del lutto, la sociolinguistica e la lessicografia normativa.

Si invitano dunque studiosi e operatori linguistici a valutare l’adozione, la sperimentazione o la discussione pubblica di questi termini, affinché la lingua continui a essere specchio vivo dell’esperienza umana.












Queste proposte non sono conclusioni, ma aperture. Chiunque voglia aggiungere, riflettere, contestare o arricchire è benvenuto. La lingua vive perché si confronta.




(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)










mercoledì 23 luglio 2025

Tra il rumore e il silenzio: l’arte perduta dell’ascolto

 

Udire e ascoltare sono considerati sinonimi, ma c’è una distinzione fondamentale, spesso trascurata, tra i due sintagmi verbali. Una differenza non solo linguistica, ma anche esistenziale, che parla del nostro modo di stare nel mondo e con gli altri. Cogliere questo confine invisibile è il primo passo per rendere più autentiche le nostre relazioni e più profonda la nostra presenza.

Udire è un atto involontario. Accade. È la percezione fisica di un suono attraverso l’udito, la ricezione passiva di un segnale acustico. Se stai camminando per strada e senti in lontananza il rombo di una moto, tu l’hai udito. Non l’hai cercato, non ti sei concentrato: il suono è entrato nei tuoi sensi senza il tuo consenso.

L’etimologia ci accompagna: udire deriva dal latino audīre, che significa “percepire con l’orecchio”. Questo verbo latino è a sua volta legato alla radice indoeuropea au-, che richiama l’idea del suono e dell’ascolto. Da audīre nascono anche parole italiane come udito, uditore, audizione, e perfino l’inglese audio. Udire, dunque, è un lessema con antiche radici sonore, rimaste sorprendentemente fedeli al significato originario nel passaggio ai nostri giorni.

Ascoltare, invece, è un’altra musica. È un atto volontario, consapevole, spesso anche emotivo. Significa prestare attenzione al suono, ma soprattutto al significato che esso “veicola”. È l’apertura intenzionale a ciò che arriva: parole, “silenzi”, emozioni. L’etimologia qui ci fa viaggiare lungo un sentiero diverso: ascoltare viene, infatti, dal latino classico auscultare i.e. “porgere l’orecchio”. Il verbo auscultare è ancora usato in ambito medico per indicare l’ “ascolto” dei vari organi del corpo tramite lo stetoscopio, ma nel quotidiano significa molto di più: rivolgere sé stessi all’altro con attenzione autentica.

Facciamo un esempio semplice. Sei seduto al bar con un amico. Attorno ci sono suoni, piatti che tintinnano: li odi [o li udi (sic!)]. Ma quando il tuo amico comincia a parlarti di qualcosa che gli sta a cuore, allora lo ascolti. Sposti la tua attenzione da tutto il resto a lui. Lo guardi. Le sue parole ti arrivano non solo negli orecchi , ma anche “dentro”. Ascoltare è, in qualche modo, un atto d’amore.

Nella vita quotidiana confondiamo spesso questi due verbi, ma basta un attimo per coglierne la differenza: posso udire mille voci, ma scegliere di ascoltarne davvero solo una. Posso udire una canzone alla radio mentre guido, ma solo quando l’ascolto mi accorgo del testo, della melodia, del sentimento che trasmette.

Ascoltare implica presenza. Richiede uno sforzo, piccolo o grande, ma sempre attivo. È ciò che facciamo quando cerchiamo di capire davvero qualcuno, quando leggiamo tra le righe, quando cogliamo ciò che non viene detto. Udire è corpo; ascoltare è mente, cuore, volontà.

In un mondo rumoroso, dove tutti parlano e pochi ascoltano, forse oggi più che mai la differenza tra udire e ascoltare è il confine invisibile tra il vivere in superficie e l’entrare in profondità nelle cose.



martedì 22 luglio 2025

Intrighi e 'intricature': quando il verbo si fa labirinto (“intricatura”, neologismo 'abusivo' ma irresistibile)

Intricare e intrigare: due verbi che sembrano usciti dallo stesso labirinto fonetico, ma che si rincorrono tra etimologie comuni e significati divergenti. In questo articolo ci addentriamo in una “intricatura” - sì, avete letto bene, una parola non ufficiale ma tremendamente evocativa - fatta di parole avviluppate, storie semantiche e gustose complicazioni linguistiche. Perché, in fondo, se la lingua è un gioco… che vinca chi riesce a intrecciarne le regole.

I sintagmi verbali intrigare e intricare condividono un’apparente somiglianza, che però cela due anime linguistiche differenti. A prima vista, potremmo scambiarli per gemelli: stesse lettere iniziali, un eco (sic!) simile nel suono, e quel senso generale di “complicazione” che li accomuna. Ma un’indagine più attenta rivela un rapporto più profondo, fatto di comuni origini e divergenze evolutive.

Sotto il profilo etimologico ambedue derivano dal latino intricare, composto da in- (“dentro”) e tricae (“difficoltà”, “impicci”, “imbrogli”). Questo già ci dice molto: l’idea originale era quella di avviluppare, aggrovigliare, rendere qualcosa difficile da districare. Quella radice ha dato vita a intricare nella forma che ancora oggi conserviamo: un verbo fedele al suo senso primigenio, utilizzato per descrivere situazioni complicate, grovigli concreti o astratti, trame contorte o discorsi oscuri.

Intrigare, invece, ha preso una via più sfumata, anche grazie all’influsso del francese intriguer, da cui ha ereditato nuove accezioni. Oltre al senso più antico di “ordire intrighi”, ha sviluppato un uso moderno e positivo: suscitare interesse, affascinare, stimolare la curiosità. Questo slittamento semantico non è casuale, è un fenomeno comune nella storia delle lingue, dove il contatto tra idiomi produce sfumature nuove e insolite. “Affascinare” è infatti considerato un gallicismo moderno, ovvero un prestito semantico francese che l’italiano ha adottato con naturalezza.

Ecco perché oggi possiamo dire, correttamente:

  • La serie tv mi ha intrigato fin dal primo episodio. Qui il verbo esprime fascino, attrazione intellettuale.

    Lui sta intrigando contro il suo superiore. In questo caso intrigare assume una connotazione negativa, legata al complotto, al tramare nascosto.

    Il discorso del politico era talmente intricato che nessuno ha capito cosa proponesse. Un esempio chiaro del senso moderno di intricare come “rendere confuso”.

    Il filo delle cuffie si è completamente intricato nella tasca. Un’immagine concreta, ma perfettamente rappresentativa del verbo.

È curioso notare come i due lessemi possano convivere in un’espressione senza disturbarsi: “un intrigo intricato” non è tautologico, ma potente. L’intrigo è l’azione, l’intreccio di eventi o intenzioni; l’intricato è la sua forma, il livello di complessità che lo caratterizza. Uno designa il cosa, l’altro il come.

La lingua italiana, dunque, ricchissima di sfumature e stratificazioni, ci regala l’opportunità di cogliere queste differenze e usarle con consapevolezza. Se intrigare è un verbo ‘bifronte’ - capace di affascinare quanto di inquietare - intricare è schiettamente complicato, contorto, spesso frustrante.










 

lunedì 21 luglio 2025

Lamentare non è volere: anatomia di un equivoco linguistico

C’è un lessema che cammina su un filo sottile, in bilico tra il malinteso e l’emozione vera. È lamentare, verbo spesso maltrattato, confuso, frainteso. C’è chi lo usa per pretendere, chi per chiedere, chi per esigere… ma la sua anima racconta tutt’altro: parla di dolore, di disagio, di ferite che cercano voce.

Queste noterelle cercano di sciogliere il nodo semantico che troppo spesso – secondo chi scrive - strangola il significato di lamentare, restituendogli la sua dignità. E alla fine, come dolce coda di parole, una favola: un merlo sensibile, una gazza pretenziosa, e un bosco dove anche i verbi hanno diritto alla verità.

In un tempo in cui le parole volano leggere tra messaggi, posta elettronica e discorsi quotidiani, è facile che alcune perdano il loro significato originario, travisate da fretta, moda o semplice disattenzione. Una di queste è il verbo lamentare, spesso frainteso, piegato e adattato a usi impropri, se non errati, che rischiano di minare la precisione e la bellezza della nostra meravigliosa lingua italiana.

Lamentare, per sua natura, è un verbo carico di emozione. Deriva dal latino lamentari, che significa “esprimere dolore”, “piangere”, “addolorarsi”. È un sintagma che vibra nella gola, che porta con sé il suono della sofferenza, l’eco di un disagio che cerca voce. Si lamentano dolori fisici, dispiaceri morali, ingiustizie patite. Quando diciamo “lamentarsi”, stiamo dando forma a una manifestazione di turbamento o disagio.

Eppure, capita di sentire e di leggere frasi come “si è lamentato di non aver ricevuto il premio”, intendendo che qualcuno ha preteso, chiesto, rivendicato qualcosa. Questa accezione è impropria, oseremmo dire errata, perché lamentare non significa domandare o richiedere, sibbene esprimere sofferenza, denunciare un torto, manifestare un malessere. Non si dovrebbe dire “l’azienda lamenta nuovi investimenti”, semmai “l’azienda richiede nuovi investimenti” o “sollecita nuovi investimenti”.

L’ambiguità, purtroppo, nasce spesso dall’imitazione maldestra di linguaggi burocratici o giornalistici, che talvolta utilizzano il verbo in modo superficiale. Ma l’italiano, se usato con rispetto e attenzione, ci invita a distinguere tra il dolore espresso e la richiesta formulata. Lamentare ha una sua dignità semantica, non va confusa con esigere, volere, chiedere e simili.

Adoperarlo correttamente significa “rispettare” la sensibilità delle parole, il loro potere evocativo. Un paziente può lamentare dolori al petto, ma non lamentare un appuntamento mancato. In quel caso, può disapprovare, chiedere spiegazioni, segnalare un disguido.

La lingua - come abbiamo scritto altre volte - è un organismo vivo, sì, ma la sua vitalità risiede anche nella precisione. E usare lamentare secondo la sua vera accezione è un modo per dare valore alle emozioni che porta con sé e per evitare di svilirne la forza.

Che il nostro parlare (e scrivere) sia quindi più consapevole. Non per rigidità, ma per amore del significato. Perché ogni parola ha un cuore, e lamentare pulsa di dolore, non di pretese.

*

Nel cuore di un bosco fitto, dove le parole correvano leggere tra le fronde, viveva un merlo dal canto dolce e dall’animo sensibile. Si chiamava Melodeo, e non passava giorno senza che qualcuno lo sentisse raccontare i suoi turbamenti: “Mi si è incastrata una spina sotto l’ala…”, “Ho nostalgia dei cieli del Sud…”, “Quel temporale mi ha fatto tremare le penne”. Melodeo, insomma, si lamentava. Ma nel senso proprio: esprimeva dolore, tristezza, disagio.

Un giorno, una gazza irrequieta, Gilda, decise di imitare lo stile del merlo. “Mi lamento perché non ho ricevuto il primo posto al concorso di piumaggio!”, strillò. “Mi lamento perché voglio le more più grosse dell’albero vicino!” E ancora: “Mi lamento perché esigo che tutti mi ascoltino!”

Gli altri animali rimasero confusi. “Ma… sei triste? Ti fa male qualcosa?” chiese la civetta saggia.

“No!” sbottò Gilda, “Voglio solo essere accontentata!”

Fu allora che Melodeo, il merlo, con delicatezza, le si avvicinò. “Gilda, perdonami, ma quello non è lamentarsi. Quello è pretendere. Quando mi lamento, condivido un dolore, una pena. Tu invece stai chiedendo.”

La gazza sbuffò, ma cominciò a riflettere. Il gufo, che registrava tutte le parole del bosco in antichi manoscritti, intervenne: “Il verbo lamentare, figli miei, viene dal latino lamentari, che vuol dire esprimere dolore, cordoglio, sofferenza. Le richieste appartengono ai verbi volere, esigere, domandare. Ogni verbo ha la sua anima: non travisatela.”

Da quel giorno, Gilda imparò a scegliere le parole con più attenzione. E quando sentiva un disagio vero dentro, usava lamentare con rispetto. Per il resto, preferiva chiedere, desiderare, proporre.

Così, nel bosco tornò l’armonia, e le parole risuonarono chiare come i canti degli uccellini al levar del sole.



 ***

Essere più realista del re

L’espressione nasce dal francese plus royaliste que le roi, usata nell’Ottocento per indicare chi difendeva la monarchia con più fervore del sovrano stesso. In origine si parlava di lealisti fedeli al re durante rivoluzioni e crisi, come gli “American Loyalists” o i “lealistas” spagnoli. Con il trascorrere del tempo, il termine realista ha preso il sopravvento su lealista, complice l’influenza francese e la sua efficacia nel descrivere un atteggiamento eccessivamente zelante. Oggi, chi è “più realista del re” non si limita a sostenere una causa, la impone con rigore superiore a chi l’ha creata. Un modo sottile per dire: stai esagerando.













domenica 20 luglio 2025

Arrivederci o a rivederci? Quale espressione è corretta? Entrambe, ma...

   Il linguaggio del congedo tra forma, emozione e tradizione


Ci sono espressioni che, pur sembrando sorelle gemelle, portano ciascuna un proprio carattere. Arrivederci e a rivederci sono tra queste: due modi di salutare che si somigliano nella forma, ma si distinguono per tono, intenzione e persino per la grafia.

Arrivederci si presenta in grafia univerbata, ovvero come una parola unica, compatta, nata dalla fusione degli elementi originari. È un saluto saldo, funzionale, che trova posto sia nei contesti formali sia in quelli più spicci e quotidiani. Un collega che lascia l’ufficio a fine giornata può dire Arrivederci! con leggerezza, affidandosi a una formula che non pretende troppo, ma rispetta le regole del garbo, dell'educazione.

A rivederci, al contrario, conserva una grafia analitica: due parole distinte, “a” e “rivederci”, Qui non si parla solo di una separazione, ma di un incontro rimandato, di un sentimento sospeso. L’espressione si carica spesso di delicatezza e intenzione affettuosa. È il tipo di saluto che un insegnante, un genitore o un oratore potrebbe/potrebbero usare per chiudere un momento importante, lasciando aperta la porta del ritorno.

Si immagini, per esempio, una scena teatrale: il protagonista, in procinto di lasciare il palco, non dice Arrivederci, ma A rivederci, miei cari! Il pubblico coglie subito la sfumatura: non si tratta di una fine, ma di una pausa tra atti.

Celebre l’aneddoto che riguarda Totò, il principe della risata, che salutava con un tono teatrale e giocoso: A rivederci… in un’altra vita, forse, o almeno in un altro spettacolo! Un uso affettuoso, immaginifico, che fa del saluto non solo un congedo, ma una promessa narrativa.

E poi c'è un proverbio toscano che incanta per semplicità: “Chi si rivede, si vuole bene.” Un modo di dire che accarezza il cuore e illumina il senso più profondo del salutarsi: non separarsi, ma darsi tempo per ritrovarsi.

Per concludere queste noterelle, la scelta tra arrivederci e a rivederci non è una questione sintattico-grammaticale, ma un gesto stilistico, quasi poetico. Un modo per modulare il proprio commiato con grazia, lasciando che le parole parlino anche del sentimento, oltre che della circostanza. Dimenticavamo: tassativamente in grafia univerbata in funzione di sostantivo.

sabato 19 luglio 2025

Boria: il vento che gonfia l’ego e spettina la sostanza

 

Il lemma boria è una gemma linguistica che, pur nella sua apparente semplicità, racchiude un universo di significati, sfumature e storie. Non è solo un termine per descrivere la vanità: è un ritratto sociale, un simbolo culturale, un eco (sic!) che attraversa secoli e contesti.

Deriva dal latino boreas, il vento di tramontana. Da qui nasce l’espressione “darsi delle arie”, che già suggerisce un atteggiamento gonfio, presuntuoso, privo di sostanza. Come il vento, la boria è rumorosa ma inconsistente, un rigonfiamento dell’ego che si manifesta in gesti, parole e posture.

Nel linguaggio contemporaneo, boria indica un atteggiamento di vanitosa ostentazione di sé, dei propri meriti, reali o immaginari. È la superbia che si fa spettacolo, la presunzione che si traveste da sicurezza. Non è solo sentirsi superiori: è volerlo mostrare, spesso con goffaggine.

La boria è un brutto vizio che divide, che crea distanza tra le persone. È un atteggiamento che mina la coesione sociale, perché si fonda su una sopravvalutazione del proprio ego e una sottovalutazione dell’altro. In questo senso, è un vizio “diabolico”, nel senso etimologico di diábolos, “colui che separa”.

Nel mondo digitale, la boria ha trovato nuovi terreni fertili: profili gonfi di successi, frasi altisonanti, posture da guru. È la vanità algoritmica, dove il “darsi delle arie” si misura in “like” e “follower” (si perdonino i barbarismi). Ma anche qui, come nel vento, spesso manca la sostanza.

In proposito un piccolo aneddoto: si racconta che il re Giorgio II d’Inghilterra, fermatosi in un’osteria, ordinò un uovo. Quando l’oste gli presentò un conto astronomico, il sovrano chiese: “Sono così rare le uova, qui?”. Il bettoliere rispose: “No, sire. Sono rari i re!”. Un colpo secco alla boria regale, servito con ironia popolare.

Nonostante la concorrenza di sinonimi, come burbanza (non schiettamente italiano, però, provenendo dall’antico provenzale bobansa), spocchia, prosopopea, vanagloria, boria conserva una raffinatezza antica, una musicalità rotonda, un suono che sembra già giudicare chi lo incarna. È una parola che non ha bisogno di urlare: basta pronunciarla per evocare un mondo di atteggiamenti gonfi e posture vuote.



venerdì 18 luglio 2025

Accomodare, ovvero la cortesia che ripara

 

"Accomodare" è un sintagma verbale dalla personalità gentile e versatile. Pronunciarlo richiama l’immagine di una porta che si apre con grazia, un gesto ospitale, una soluzione trovata con garbo. Come tanti vocaboli italiani racchiude in sé un percorso storico che ne ha arricchito il significato lungo i secoli, e lo rende oggi uno degli strumenti più flessibili del nostro idioma.

Il verbo "accomodare", dunque, nasce dal latino accommodare, composto da ad- ("verso") e commodus ("conveniente", "opportuno"), che a sua volta è formato da cum- ("con") e modus ("misura", "maniera"). Il significato originario era, infatti, "rendere conveniente", "mettere in condizioni favorevoli". Da questo “nucleo di senso” sono nate, progressivamente, due strade semantiche principali: da una parte, l'idea di mettere a proprio agio, rendere confortevole; dall’altra, quella di riparare, aggiustare, adattare a una funzione.

Il primo slittamento riguarda l’ambito dell’ospitalità: "accomodare" nel senso di far sentire bene qualcuno, farlo sedere, offrirgli qualcosa che lo faccia stare meglio. È un gesto che implica cura, attenzione. Ancora oggi lo adoperiamo nella forma pronominale: “Accomodati!”, “Prego, si accomodi!”, dove la cortesia si fa parola.

Il secondo senso si sviluppa nel campo pratico e tecnico: "accomodare un oggetto rotto", "accomodare una situazione complicata". Qui il sintagma diventa sinonimo di riparare o adattare, ma con un tono più delicato, come se ci fosse un’intenzione conciliatrice dietro l’azione. Non si impone una soluzione, si trova quella che meglio si adatta.

Qualche esempio farà maggiore chiarezza:

  • "Ho accomodato la lampada con un po’ di nastro adesivo" (senso pratico di riparazione);

    "Abbiamo cercato di accomodare le divergenze tra i due gruppi" (senso di conciliazione sociale);

    "Si accomodi pure, la casa è sua" (senso relazionale e cortese).

Curiosamente, in alcune regioni italiane (come nel Mezzogiorno), si trova adoperato anche per designare l’atto di disporre qualcosa con cura, come “accomodare il letto” invece di “rifarlo”. Questo regionalismo mantiene vivo il collegamento originario con rendere comodo, confortevole.

"Accomodare", dunque, è il verbo dell’equilibrio e della gentilezza, e racconta – nel suo piccolo – come la lingua di Dante e di Manzoni sappia accogliere, adattare e conciliare le differenze del vivere quotidiano.