mercoledì 26 novembre 2025

Quando il sapere inciampa nella scrittura

 


S
crivere bene non significa soltanto padroneggiare le regole della grammatica o conoscere la storia della lingua: significa anche riuscire a trasformare con naturalezza il pensiero in segno grafico, senza esitazioni. Eppure, chiunque abbia frequentato le aule universitarie o i contesti professionali sa che non sempre la scrittura scorre liscia: anche persone colte, persino laureati in Lettere, possono ritrovarsi a commettere errori ortografici che sembrano stonare con la loro preparazione. Questa discrepanza tra sapere teorico e pratica quotidiana ha un nome preciso, che affonda le sue radici nella medicina il cui significato è stato "trasportato" nella tradizione linguistica: disortografia.

Sotto il profilo etimologico, il termine unisce il prefisso greco dis- (“alterazione, difficoltà”) a orthographía (da orthós, “retto, corretto”, e gráphein, “scrivere”). Il significato letterale è “scrittura non corretta”, ma non indica l’errore isolato: segnala una fragilità dell’automatismo grafico, cioè del passaggio regolare dal suono al segno. La competenza teorica può essere piena; ciò che vacilla è l’esecuzione rapida, soprattutto in contesti di pressione, velocità o discontinuità dell’attenzione.

La scrittura procede di norma attraverso due vie complementari: la fonologica, che traduce suoni di parole nuove o poco familiari in grafemi, e la lessicale, che recupera dalla memoria l’ “immagine ortografica” delle parole note. Quando l’automatismo di queste vie è instabile, affiorano errori tipici: omissioni o inserzioni indebite, raddoppiamenti mancati, confusione di grafemi contigui, improprietà di accenti e apostrofi, incertezze nella univerbazione e nelle grafie tradizionali. Esempi realistici: “apena” per “appena” (raddoppiamento omesso), “senonché” per “sennonché” (nesso nn semplificato), “ovverossia” per “ovverosia” (suffisso alterato), “pressapoco” reso impropriamente in maiuscolo come “PRESSAPOCO” e con una sola p, “delinguente” per “delinquente” (omissione del nesso qu), oppure l’uso improprio, anzi errato, della q al posto della c (“quore” per “cuore”). Sono scivolamenti che non derivano da ignoranza, ma da un automatismo fragile, che può tradire anche chi padroneggia la grammatica storica e la filologia.

Questi errori non nascono da povertà di conoscenza, bensì da un automatismo grafico incerto. Il soggetto può “sapere” la regola e tuttavia non applicarla con prontezza nel flusso della scrittura: la distanza tra consapevolezza ed esecuzione si manifesta proprio nei punti opachi dell’ortografia italiana (raddoppiamenti, nessi tradizionali come qu, suffissi storici, univerbazioni). In ambienti di scrittura rapida e informale, inoltre, la tolleranza all’errore aumenta e gli automatismi non vengono rinforzati: abbreviazioni, maiuscole fuori contesto, grafie improvvisate diventano abitudini che disturbano la tenuta ortografica.

Riconoscere la disortografia come difficoltà linguistica, non come stigma culturale, ha conseguenze pratiche ed editoriali: si valorizza la competenza metalinguistica, si separa la valutazione del contenuto dall’automatismo grafico, si istituiscono fasi di controllo coerenti (rilettura dedicata alla forma, attenzione ai nessi opachi, verifica mirata di raddoppiamenti, accenti e univerbazioni). La scrittura matura non rimuove la complessità dell’ortografia: la orchestra, la rende trasparente al lettore evitando che il giudizio si confonda con l’errore occasionale.

In conclusione, la disortografia è la traccia linguistica di un automatismo che fatica a stabilizzarsi. Non marchia l’autore come impreparato, né smentisce la sua autorevolezza analitica: segnala piuttosto una zona di vulnerabilità nella conversione suono/segno. Comprenderla e gestirla con lucidità permette di tenere alto il livello del discorso e, insieme, di rafforzare la tenuta ortografica: la conoscenza resta intatta; l’esecuzione si affina. 

Insomma, non è la conoscenza a vacillare, ma la sua traduzione rapida in segno. Così l’errore non incrina il sapere: rivela soltanto la fragilità del gesto.

 

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