Ci sono termini che si presentano con l’aria dimessa di chi non vuole disturbare. “Scorta” è uno di questi. Non ha il fascino esotico di un neologismo né la nobiltà di un arcaismo rispolverato. Eppure, come quasi sempre accade con i vocaboli apparentemente modesti, basta soffermarsi un attimo per accorgersi che “scorta” è una parola piena di vita, di storie, di significati che si rincorrono e si sovrappongono come strati di vernice su una porta antica.
Etimologicamente, “scorta” è il femminile sostantivato di “scorto”, participio passato di “scorgere”, verbo che nel suo uso antico significava “guidare, accompagnare”. Non si tratta quindi di un semplice “vedere da lontano”, come si potrebbe pensare, ma di un vero e proprio gesto di conduzione. E già qui si capisce che il sintagma ha gambe buone: nasce per camminare accanto, per orientare, per proteggere.
Nella sua prima accezione, “scorta” è protezione ‘in carne e ossa’. È il gruppo che accompagna e vigila, che fa da barriera tra il soggetto e il rischio. Si parla di scorta armata, di scorta di sicurezza, di scorta militare. Ma non è solo questione di pistole e lampeggianti: la scorta è anche cerimoniale, simbolica, coreografica. Pensiamo alla scorta d’onore che accompagna un capo di Stato: non lo difende da un pericolo imminente, ma incornicia l’autorità, la rende visibile, la celebra. In entrambi i casi, la scorta è presenza che rassicura, che delimita, che dice: “qui c’è qualcosa da proteggere”.
Poi c’è la scorta come guida, come accompagnamento. Non necessariamente armato, non necessariamente solenne. Può essere il convoglio che scorta un trasporto eccezionale, il veicolo che apre la strada, il gruppo che affianca. Ma può anche essere metaforica: si decide “sulla scorta di dati”, si agisce “sulla scorta di esperienze”. In questi casi, la scorta non è più un corpo fisico, ma un insieme di elementi che orientano, che fanno da bussola. È la versione gnoseologica della protezione: non ti difende da un attacco, ma dal rischio di sbagliare strada.
Infine, la scorta è provvista. È ciò che si mette da parte per quando servirà. Scorta di viveri, di medicinali, di carburante. È la dispensa piena prima dell’inverno, il cassetto con le batterie di riserva, la ruota di scorta nel bagagliaio. Anche qui, la logica è quella dell’accompagnamento: la scorta non cammina con te, ma ti aspetta al momento giusto. È una forma di previdenza, una protezione differita. E anche in questo caso, il significato originario di “guidare” non è del tutto perduto: la scorta ti aiuta a proseguire, a non fermarti, a superare l’imprevisto.
Tre significati, un solo vocabolo: protezione, guida, provvista. E un filo comune: l’idea di stare accanto, di sostenere, di preparare. “Scorta” è una parola che non ama stare al centro, ma che fa da cornice, da supporto, da garanzia. È la sentinella, il consiglio, la riserva. È ciò che ci permette di andare avanti con un po’ più di sicurezza, che sia nel traffico, nel pensiero o nella vita quotidiana.
E allora sì, “scorta” merita un posto di prim'ordine nel vocabolario italiano. Perché dietro la sua sobrietà si nasconde una grammatica dell’affiancamento, una sintassi della protezione, una semantica della lungimiranza. E in tempi incerti, avere una scorta - di parole buone, di idee chiare, di affetti solidi - è forse il modo migliore per non perdere la rotta.
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La lingua “biforcuta” della stampa
Le indagini
Garlasco, trovate otto impronte sui resti della colazione che erano nella casa di Chiara Poggi
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In buona lingua: … che era nella casa… Il verbo si accorda con l’antecedente che (si riferisce alla colazione, non ai resti). La grammatica parla chiaro.
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Infofagia: il sapere che non sa
Viviamo immersi in un flusso incessante di dati, notifiche, aggiornamenti, notizie dell’ultima ora, articoli, commenti, opinioni, smentite, rilanci. Non è più sete di conoscenza: è bulimia cognitiva.
Ecco allora infofagia. Neologismo ibrido, greco-latino, nato per definire un disagio contemporaneo. Dal latino informare - dare forma, comunicare. Dal greco phagein - mangiare. Una parola necessaria, cruda, urgente. Infofagia è l’atto compulsivo di ingurgitare informazioni, senza selezione, senza digestione, senza assimilazione.
Non è curiosità. È consumo. Non è conoscenza. È accumulo. L’infofago non cerca: inghiotte. Non distingue: assorbe. Non riflette: reagisce. Scorre, clicca, condivide, commenta, dimentica.
L’informazione si trasforma in rumore, e il pensiero si dissolve in un ronzio di fondo. Infofagia è la patologia del sapere liquido: tutto è accessibile, nulla è assimilabile.
Il paradosso è evidente: più si sa, meno si comprende. Più si legge, meno si ricorda. Più si è informati, meno si è formati.
L’infofago vive nell’illusione della competenza, ma è solo un contenitore traboccante. Non distingue il vero dal verosimile, il dato dal commento, il fatto dalla sua interpretazione. E quando l’informazione contraddice le sue convinzioni, la rigetta come un corpo estraneo.
L'infofagia è anche un gesto linguistico. Una parola che denuncia, che nomina il disagio, che restituisce al linguaggio la capacità di dire il malessere contemporaneo.
Non è solo una diagnosi: è una provocazione. Chi la usa non si limita a descrivere il fenomeno: lo smaschera. Lo nomina per sottrarsi. Per tornare a scegliere, pensare, digerire.
L'infofagia è il contrario della conoscenza. È il suo simulacro. È il sapere senza sapere. È il pensiero che non pensa. È il linguaggio che non parla, ma rumoreggia.
Eventuale lemmatizzazione nei vocabolari:
infofagia s.f. [neologismo ibrido, dal lat. informare ‘dare forma, comunicare’ e dal gr. phagein ‘mangiare’]
Ingestione compulsiva di informazioni, senza selezione né assimilazione.
Patologia del sapere liquido, in cui l’accesso illimitato ai contenuti digitali produce accumulo anziché conoscenza, reazione anziché riflessione.
Simulacro del pensiero critico, dove il linguaggio si trasforma in rumore e il soggetto in contenitore.

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