C’è chi fugge e chi sparisce. C’è chi è colpevole e chi è solo travolto. A volte basta un aggettivo - fuggitivo o fuggiasco - per dire da che parte guardiamo chi scappa. In un momento storico in cui le parole tornano ad avere peso, e i confini si misurano anche nel linguaggio, distinguere tra chi evade e chi cerca salvezza è più che un esercizio stilistico: è un atto di consapevolezza. Queste noterelle si propongono di esplorare quella differenza, silenziosa ma potente, che passa tra due termini simili solo in apparenza.
I sintagmi fuggitivo e fuggiasco appartengono allo stesso campo semantico – la fuga – ma non sono sovrapponibili. Li distingue una sottile ma significativa differenza d’origine, di uso e di tono.
Fuggitivo proviene dal latino fugitivus, participio passato del verbo fugere, ovvero “fuggire”. Nell’antica Roma, fugitivus indicava soprattutto lo schiavo evaso, il disertore, il reo che si sottraeva alla legge. Non a caso, il vocabolo ha conservato anche in italiano un’aura di colpevolezza o illegalità, accentuata dalla brevità e dalla furtività dell’azione. È un aggettivo e sostantivo che evoca una fuga volontaria, spesso illecita, ma anche rapida, transitoria: si pensi a “sguardo fuggitivo” o “momento fuggitivo”, dove il senso dominante è la fugacità.
Fuggiasco, invece, ha una storia un po’ diversa. Deriva sempre dal verbo latino fugere (‘fuggire’) ma si è sviluppato nel volgare medievale come forma aggettivale, benché il lemma fugiascus non sia attestato nei testi classici ma rappresenti una ricostruzione plausibile della lingua parlata dell’epoca.
A differenza di fugitivus, che ha una matrice più tecnico-giuridica, fugiascus nasce probabilmente come participio aggettivale popolare, usato per indicare “colui che fugge”. In italiano, da questa forma si è evoluto il sostantivo fuggiasco, che designa chi è costretto alla fuga, molto spesso non per scelta ma per necessità.
Con il trascorrere del tempo fuggiasco si è avvicinato semanticamente a termini come profugo o esule, soprattutto in contesti umanitari o giornalistici. È una parola che richiama situazioni drammatiche: guerre, persecuzioni, catastrofi naturali, carestie.
Ecco alcuni esempi che chiariscono la distinzione tra i due lessemi:
Il detenuto evaso era un fuggitivo braccato dalle forze dell’ordine.
I civili che lasciavano il Paese bombardato erano fuggiaschi in cerca di salvezza.
Uno sguardo fuggitivo sfiorò la folla e svanì tra le ombre.
I fuggiaschi giunsero al confine esausti, accolti da volontari e medici.
Fuggiasco, dunque, porta spesso con sé un’aura di vulnerabilità, dolore e sradicamento. Fuggitivo, al contrario, suggerisce un’azione furtiva e talvolta colpevole. Il primo è una figura passiva, travolta dagli eventi della vita; il secondo, attivo e responsabile della propria fuga.
In conclusione, il nostro idioma distingue con finezza chi scappa per scelta e chi per necessità: fuggitivo è chi tenta di sottrarsi, spesso, alla legge; fuggiasco è chi si allontana, suo malgrado, da un luogo alla ricerca di salvezza. Una distinzione lessicale che rivela, come spesso accade, anche una differenza di sguardo sul mondo.
Le parole non sono solo strumenti: sono occhiali attraverso cui guardiamo il mondo. Dire fuggitivo o fuggiasco non cambia solo il lessico, ma anche la “postura etica” di chi scrive o parla. In tempi veloci e confusi, scegliere la parola giusta è un modo per rallentare e pensare. E magari, restituire dignità a chi fugge, non per sottrarsi, ma per salvarsi.

Nessun commento:
Posta un commento