di Claudio Antonelli (da Montréal)
Il tema della “Settimana della lingua italiana” di quest’anno, “Italofonia: lingua oltre i confini”, inneggia alla lingua italiana e alla sua lodevole presenza oltre i confini nazionali. L’orgoglio dell’italofonia oltreconfine dovrebbe logicamente indurre gli italiani a preoccuparsi, direi con urgenza, della continua espansione dell’anglofonia entro i loro confini. Lo sconfinamento dell’inglese nell’italiano continua invece indisturbato; con effetti di impoverimento per la nostra lingua, poiché accanto ad alcuni termini inglesi inevitabili che colmano certe lacune del nostro vocabolario soprattutto tecnico, vi è una pletora di ridicoli doppioni inglesi che sostituiscono gli abituali termini nostrani più che validi. Basterà menzionare flop che ha finito con l’eliminare la parola fiasco nel significato di insuccesso, fallimento. Ma fiasco continua ad essere usato sia dai francesi che dagli inglesi. Vi è poi l’onnipresente standing ovation che ha abolito l’ovazione, considerata evidentemente troppo modesta a causa della sua italianità. La triste serie di questi cosiddetti “prestiti di lusso”, che in realtà sono prestiti “con le pezze al c…”, è molto lunga.
Desidero ora denunciare – credo di essere il primo a farlo – un effetto collaterale, sgradevole e imbarazzante che gli invadenti anglicismi hanno sull’insegnamento dell’italiano, qui in Canada e nel resto del mondo.
Quando s’insegna l’italiano all’estero ad allievi stranieri innamorati della musicalità della nostra lingua, che l’opera lirica continua ad esaltare attraverso il mondo e alla quale il Papa, parlandola, dà un’implicita benedizione apostolica ogni domenica in piazza San Pietro, la frequenza degli anglicismi può essere causa di disagio per l’insegnante d’italiano. La presenza di una caterva di parole come “killer”, “badge”, “jackpot”, “restyling”,“in tilt”, “gossip”, “pressing”, “summit”, “stalking”, “nickname”, “trolley”, “rider”, ecc., negli scritti italiani odierni, crea una situazione imbarazzante. A questi suoi allievi che sono attratti dall’idea, così lusinghiera per noi italiani, di una italianità ricca di forme eleganti e di suoni armoniosi, l’insegnante dovrà spiegare il perché di questo ridicolo scimmiottamento della lingua degli americani. In Québec e in Francia, invece, si cerca di mantenere una distanza di sicurezza tra la lingua francese e l’inglese perché si vogliono proteggere i preziosi confini della propria identità storica, culturale, linguistica.
Col trapianto nella terra adottiva noi abbiamo dovuto assumere un nuovo destino collettivo. All’estero diviene chiara l’idea di patria, parola che per gli italiani rimasti a casa ha spesso una connotazione puramente retorica. L’idea di patria emerge dal confronto con gli altri che appartengono a un diverso destino nazionale, e presso i quali, o insieme ai quali nel multiculturalismo, noi ormai viviamo.
L’apprendimento di nuovi idiomi – qui in Québec le lingue da imparare sono due, l’inglese e il francese – spinge l’immigrato italiano a fare un raffronto tra la sua lingua e le altre. La lingua ha, sì, una funzione utilitaria quale strumento di comunicazione, ma essa racchiude in sé un mondo di sensibilità e di valori, una cultura, un passato. Un lungo passato. All’estero, l’italiano si renderà quindi conto della forte carica identitaria che possiede la lingua madre. La quale non è uno strumento neutro poiché veicola valori; e purtroppo veicola a danno di noi espatriati italiani anche stupidi stereotipi. Tra le parole italiane diffuse all’estero vi sono infatti tre termini cui i nostri detrattori fanno stupidamente ricorso per abbassarci: pizza, spaghetti, mafia. In sintesi, la lingua si rivela all’espatriato nella molteplicità dei suoi aspetti non solo strumentali, ma culturali, sentimentali, identitari.
Constatando la noncuranza e la trascuratezza sfioranti il disprezzo che troppo spesso esiste nella penisola nei confronti della lingua nazionale, c’è da interrogarsi sulle reali capacità del popolo italiano di tramandare ai posteri le radici spirituali del proprio essere collettivo, attraverso la trasmissione di quell’incomparabile patrimonio culturale che è la lingua nazionale.
Tra i progressisti della penisola è ben presente uno spirito anti-sovranista e addirittura anti-nazionale. Questo compiacimento, che io chiamerei autodenigratorio, caratterizza anche il popolo italiano nel suo insieme. Cosa volete, l’ecumenismo vaticano, l’internazionalismo marxista e la sconfitta dell’Italia nell’ultima guerra hanno diseducato le masse a un sano, normale patriottismo. Per i progressisti della penisola la lingua italiana fa sì parte dell’identità nazionale, ma proprio per questo suo carattere nazionale essa non merita, per il loro sentire, eccessivo rispetto. Per loro, “nazionale” evoca “sovranista” e “nazionalista”, qualificativi assai poco lusinghieri. Loro, mondialisti, si sentono invece cittadini del mondo.
Il linguista Bruno Migliorini: “Crollato il fascismo, il gusto della ritrovata libertà spinse ad adoperare parole forestiere a dritto e a rovescio.” Tutto quello che fece il fascismo – tutti noi lo sappiamo – è da rigettare, e quindi anche la difesa della lingua, ben presente durante il fascismo, è da buttare via. Ed è così che la tendenza anarchica, esibizionistica e provincialmente esterofila che affligge il carattere italiano trionfa; mentre un comportamento normale di difesa della lingua nazionale viene considerato alla stregua di un superato, pericoloso nazionalismo.
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