Talvolta ciò che sembra simile all’orecchio inganna il pensiero. È il caso dei verbi allocare e alloggiare, che si rincorrono nel suono ('allo', 'allo') ma divergono nella sostanza. Non sono sinonimi, benché alcuni li confondano, e confondere un verbo che parla di bilanci con uno che parla di letti rischia di portare qualcuno a dormire nella cella di un foglio contabile.
Allocare deriva dal latino allocare, formato da ad- (verso) e locare (porre, collocare). In italiano ha assunto un significato specifico e settoriale: si usa quasi esclusivamente nell’ambito economico, amministrativo e tecnico per indicare la distribuzione o assegnazione di risorse. Si può allocare un fondo a un progetto, allocare tempo a un’attività, allocare memoria a un programma. È un verbo, dunque, che vive nel mondo della pianificazione, non in quello dell’accoglienza.
Alloggiare, invece, ha una storia che passa dal francese antico logier, a sua volta da loge (dimora, rifugio), legato al franco laubja, capanna, riparo fatto di rami. Benché il latino locus vi abbia influito per via dotta, la radice primaria affonda nelle lingue germaniche. In italiano, alloggiare significa abitare temporaneamente in un luogo, essere ospitato, prendere dimora per un periodo definito. Le persone alloggiano in albergo, in un rifugio di montagna, in una locanda, presso amici o parenti.
Non si tratta quindi solo di due verbi con campi semantici diversi, ma proprio di due immaginari che non si toccano: allocare è un verbo che disegna tabelle e distribuisce numeri; alloggiare apre porte, stende lenzuola e prepara stanze.
La confusione tra i due nasce dall'idea (errata) che allocare sia un sinonimo colto o tecnico di alloggiare. Da qui l’insorgere di frasi come “gli studenti sono stati allocati negli alloggi del campus”, che suonano artefatte e dissonanti. Gli studenti, come le persone, alloggiano: non sono unità di memoria né fondi da distribuire.
Usare un termine al posto di un altro, per vezzo o per un'idea fuorviante di “eleganza stilistica", svuota la parola del suo peso e la distacca dalla realtà che dovrebbe nominare. Una lingua che distingue è una lingua che rispetta: allocare è attribuire; alloggiare è ospitare.
Due verbi, due mondi. Meglio non dormire nei bilanci né fare contabilità nelle camere da letto.
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La volpe e il “pane d’aria”
Nel cuore di un vecchio forno a legna, nascosto tra le colline dove i nomi delle cose si sfornano ancora caldi, viveva una volpe. Non era ladra di polli né amante degli avanzi: la sua fame era un’altra. Cercava parole nuove da mordere, sapori da nominare, verbi dimenticati da riportare in vita.
Un giorno, mentre il sole lievitava lento sopra i tetti del borgo, sentì vociferare di una novità: il panettiere del luogo aveva sfornato un "pane d’aria". Nessuno l’aveva ancora assaggiato, e già tutti ne parlavano come fosse leggenda.
La volpe, per natura curiosa e di linguaggio affamata, si intrufolò quella notte nel forno silenzioso. Sul banco trovò il filone: sospeso, profumato, quasi trasparente. Non osò addentarlo. Lo denteggiò.
Un tocco lieve, appena un soffio d’incisivi, come si fa con le parole ancora in cerca di significato. Il pane scricchiolò e svanì in bocca come una promessa che si mantiene. E fu lì che la volpe capì: non tutto ciò che vale si deve mordere fino in fondo; alcune cose chiedono solo di essere sfiorate con garbo e attenzione.
Da quella notte, nel piccolo borgo si cominciò a dire: “Ha denteggiato come la volpe il pane d’aria.” E lentamente, quella parola prese a circolare tra le labbra degli anziani, nei racconti delle botteghe, perfino nei menù poetici delle osterie.
Certo, nei dizionari dell’uso non è attestato. Ma si sa: le parole nuove non bussano. Entrano da una finestra aperta, a notte fonda, magari accompagnate da una volpe.
Ecco come potrebbe essere lemmatizzato nei vocabolari:
Denteggiare (v. intr. e tr.) - (dal sost. dente + il suffisso ‘-eggiare')
Assaggiare con cautela, spesso mordendo appena con gli incisivi, senza impegno né voracità. "Ha denteggiato la sfoglia per capire se fosse ancora croccante."
Esplorare qualcosa in punta di dente o di pensiero, accennandovi senza approfondire del tutto. "Durante la cena ha denteggiato il discorso sul suo ex, poi ha cambiato vino."
In senso figurato, sfiorare la superficie di un argomento, di un gesto, o di una relazione, lasciando intendere più di quanto si mostri. "La poesia denteggia l’ironia senza morderla mai del tutto."

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